Tra i criteri che il consumatore cinese prende in considerazione quando sceglie un vino, al primo posto c’è l’origine, e quindi la notorietà (favorevole ai vini francesi), poi il prezzo (per l’84% degli importatori, secondo l’ultimo studio di Ubi France), seguito dal gusto e dalla denominazione. Al quinto posto c’è l’aspetto, sia della bottiglia che dell’etichetta, il primo biglietto da visita di qualsiasi vino che arrivi sullo scaffale. Per attirare l’attenzione, però, cercare l’originalità ad ogni costo potrebbe rivelarsi controproducente: il wine lover di Pechino preferisce colori e formati “classici”, che diano l’idea di un vino prestigioso. Ma l’etichetta non è solo uno specchietto per le allodole, deve saper dare le giuste informazioni, possibilmente in caratteri cinesi (visto che l’inglese lo parlano ancora in pochi), senza dare l’idea di avere di fronte una bottiglia contraffatta. Diventa fondamentale, quindi, la retro etichetta giusta, che dia le informazioni legali corrette, una buona traduzione del marchio, informazioni su luogo di origine, varietà e produttore e, magari, una descrizione dell’aspetto gustativo che utilizzi i giusti riferimenti al palato locale, abituato a sapori ben diversi da quelli del consumatore occidentale.
Sorprende che la discriminante principale, ossia il colore, sia il settimo criterio di scelta per i wine lovers del Dragone, dopo anche il marchio, visto l’alto valore sociale che rappresenta il consumo enoico. Forse perché la preferenza per i rossi è talmente grande da non essere considerata questione su cui dibattere, mentre una grossa riflessione, come suggerisce il “White Paper” di Wine Intelligence, andrebbe fatta sulla terminologia da usare quando si presenta in Cina un vino europeo. Partendo dai descrittori positivi più usati, come delicato, morbido, fruttato, fresco, facile da bere, ricco, dolce, floreale, e da quelli negativi, come pungente (in inglese “sharp” che vuol dire anche netto, brusco, tagliente), astringente, amaro, aspro.
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