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Corriere Della Sera / Magazine

Ma cosa ci guadagniamo quando compriamo italiano ... Mirtilli che arrivano dal Cile e pere dal Sudafrica. Merci che volano (e inquinano) da un continente all’altro. Ma i consumatori ora vogliono i prodotti locali: che convengono anche al pianeta... Metà settembre, spesa in un supermercato di Milano, bancone della frutta e della verdura. I mirtilli arrivano dal Cile, i porri dalla Germania, lo scalogno dalla Turchia, i ravanelli dai Paesi Bassi, di pere ce ne sono quattro tipi ma soltanto uno è Made in Italy, gli altri arrivano da Spagna e Sudafrica. Oggi importiamo anche i prodotti di stagione, non soltanto le primizie. Facciamo viaggiare merce da un continente all’altro, ma è sempre necessario? E conviene ancora con il prezzo del petrolio alle stelle? I nostri agricoltori sostengono di no: anche i consumatori ci perdono, in qualità e sicurezza e oltretutto spendono di più, “pagano anche il gasolio quando comprano frutta e verdura d’importazione”. A proposito; i mirtilli cileni li abbiamo pagati 18 curo al chilo, quelli italiani, in un altro supermercato, meno di 16; per le pere Forelle del Sudafrica abbiamo speso 4 euro al chilo e le William spagnole erano più care delle William italiane, 2,49 curo al chilo contro 2,19. E non è soltanto questione di soldi. “Comprando prodotti locali si possono risparmiare cento curo al mese (su 467 di spesa media) ma anche mille chili di CO2 l’anno”, è lo slogan strillato quest’anno da Coldiretti. E lo slogan è stato convincente. Ai consumatori piace l’idea di fare una spesa risparmiosa, di qualità e anche sostenibile. Piacciono i prodotti “chilometro zero” , quelli che arrivano dai campi vicini,
che sono meno “energivori” perché viaggiano meno e inquinano meno. Quest’estate sono già state approvate due leggi a iniziativa popolare (25mila firme raccolte), in Veneto e in Calabria, per promuovere le produzioni locali, e Legambiente e Coldiretti hanno elaborato una proposta di legge già depositata alla Camera che sarà presentata entro la fine di settembre (“norme per la valorizzazione dei prodotti provenienti da filiera corta a chilometro zero e di qualità”).
Spiega Ermete Realacci, ministro dell’Ambiente nel governo ombra del Pd: “Una legge quadro nazionale è necessaria per potenziare i prodotti del territorio e per andare incontro alle esigenze dei consumatori che cercano prezzi contenuti ma vogliono prodotti di qualità, sicuri e anche ecosostenibili. Sarà una battaglia comune, mi sono già confrontato con parlamentari del centrodestra”. La normativa veneta - ribattezzata “legge dei bisi” (per il piatto tipico locale risi e bisi, riso e piselli) - prevede un 50% di prodotti locali nelle mense di scuole, ospedali, caserme, case di riposo; spazi per la vendita diretta dei produttori agricoli nei mercati; controlli sull’etichettatura.

Le informazioni sull’etichetta
Oggi sulle confezioni deve essere indicata l’origine, in futuro potremmo trovarci anche la distanza percorsa, i chili di petrolio consumati e le emissioni di CO2 e magari il logo di un aereo sulle confezioni che hanno volato da un Paese all’altro. Le pesche del Sudafrica in vendita quest’estate nei supermercati hanno viaggiato per 8mila chilometri e per ogni pacco da un chilo sono stati emessi 13,2 chili di CO2: se questo dato fosse comparso sulla confezione forse molti clienti, a parità di prezzo, avrebbero rinunciato alle pesche del Sudafrica.
E la grande distribuzione come si regolerà? Piermario Mocchi è il direttore marketing di Carrefour Italia, il che significa che parla per i loro 67 ipermercati, per i 495 supermercati GS, i 1O13 Dìperdì e i 20 Cash and Carry. “Oggi i nostri fornitori sono all’80% italiani e siamo molto attenti ai microlocalismi. Ma ci teniamo anche a garantire una copertura completa della gamma dodici mesi l’anno perché è vero che ci sono clienti sensibili ai prodotti “KmO” ma ci sono anche quelli che vogliono trovare le ciliegie a dicembre e il nostro obiettivo è soddisfare le esigenze del maggior numero di persone”.
Che cosa incide sulla scelta dei fornitori? “Abbiamo una centrale d’acquisto unica, devono garantire oltre alla qualità le quantità necessarie alla grande distribuzione. E sono pochi i produttori italiani che riescono a farlo. L’uva pugliese, per esempio, riusciamo s proporla anche nei punti di vendita del gruppo all’estero, in Francia, Spagna, Belgio, Polonia, Romania. Ma è un’eccezione”.
Secondo Mocchi le aziende di questo settore non sono sempre competitive: “La filiera agroalimentare della Spagna è più efficace. I loro prodotti, nonostante il costo del trasporto ci garantiscono un prezzo d’acquisto inferiore: se possiamo comprare la stessa pesca a un euro e mezzo anziché due euro e mezzo noi scegliamo di comprarle entrambe, naturalmente in volumi diversi, perché la maggior parte dei consumatori non sono disposti a pagare un curo in più per il frutto italiano”. Diverso il punto di vista dei nostri agricoltori. Sergio Marini, presidente di Coldiretti: “Nelle catene distributive a capitale straniero le centrali d’acquisto prescindono dal territorio in cui i supermercati si insediano e penalizzano i prodotti locali. E in questo modo penalizzano anche i consumatori che rischiano di pagare più per il gasolio necessario al trasporto che per il prodotto. Il costo del petrolio ha messo in discussione il principio della globalizzazione per cui si consumano i prodotti realizzati dove costa meno. Oggi dobbiamo sostenere la produzione vicino ai luoghi di consumo”.
“Far viaggiare le merci da un continente all’altro è un lusso che non possiamo più permetterci”, è quello che ripetono anche gli ambientalisti, a partire del premio Nobel Al Gore che nel suo libro “Una scomoda verità” scrive: “Oggi un pasto medio prima di arrivare sulla nostre tavola percorre più di 1.900 chilometri in aereo, nave o camion”.

I nuovi farmers market
Anche queste ragioni spingono i consumatori a puntare sui prodotti nazionali, meglio ancora, regionali. Ma spendono di più? No, quando la filiera è corta. Ed ecco spiegato il successo dei nuovi “farmers marker”, i mercati degli agricoltori dove la vendita è diretta, senza intermediari.
Adesso si trovano anche nelle grandi città, non saremo più costretti a prendere l’auto nel fine settimana per andare a fare la spesa ecologica e genuina in fattoria. E si stanno moltiplicando i mercati stabili, come quello di Taranto, duecento metri quadrati al piano terra di mi palazzo di corso Umberto, nel cuore della città. O quello di Monselice, avviato già da quattro anni, dove l’altro sabato hanno rischiato di fare a botte per riuscire ad entrare e alle 10 del mattino i banconi erano già vuoti, saccheggiati. Da ieri anche Milano ha il suo punto vendita, si trova nel piazzale del
Consorzio agrario di via Ripamonti e sarà aperto tutti i mercoledì mattina.
Idem per Roma, anche nella capitale sta per aprire un farmers market. Promette Marini: “Il nostro obiettivo è averne uno in ogni città. Nel compatto dell’ortofrutta il prodotto locale in filiera corta è vincente per qualità e prezzo, è più sicuro perché la nostra legislazione sanitaria è più rigida, è meno manipolato ed è meno inquinante. Coldiretti si impegna a monitorare sui prezzi e ad aumentare la convenienza: oggi il risparmio è almeno del 30% ma si potrebbe arrivare al 50% già entro la fine dell’anno”.
I farmers market sono una formula ormai collaudata anche in Francia e Gran Bretagna, negli Stati Uniti sono aumentati del 53% in dieci anni, sono più di quattromila, da New York a Los Angeles, ce ne sono cinquecento soltanto in California. In Italia procediamo più lentamente, ma la direzione è la stessa. Ricordate l’esperimento del latte fresco alla spina lanciato pochi anni fa? A grande richiesta i distributori adesso sono centinaia, il latte viene venduto a un euro al litro, contro l’euro e sessanta che si paga in negozio. È un classico esempio di “Chilometro Zero” e in più c’è il vantaggio “ambientale” della confezione, perché la bottiglia (volendo di vetro) te la porti da casa, quindi non ci sono cartoni da smaltire.
La filiera corta inizia a rendere: secondo un’indagine di Coldiretti sette italiani su dieci l’anno scorso hanno comprato direttamente nelle aziende agricole e il fatturato è stato di 2,5 miliardi di euro, i prodotti più acquistati sono stati vino, orto-frutta, olio, formaggi, carne e miele. Ormai sono più di 50mila (20mila però sono stagionali) le aziende che fanno vendita diretta. Qualcuno dagli Stati Uniti ha copiato anche la formula “pick your own”: i clienti di alcune aziende agricole - hanno iniziato nel Lazio e in Sicilia - possono andare nei campi a raccogliere frutta e verdura, con la formula del selfservice risparmiano ancora di più. E passano qualche ora all’aria aperta. I clienti metropolitani ne vanno matti.

Invito a cena sostenibile
E ormai chi crede al vantaggio dei prodotti locali li cerca anche al ristorante. Uno dei primi a proporre un menu “Km0” è stato l’Osteria Viranova, nel centro storico di Padova: dall’olio alla grappa, tutto arriva dalle aziende agricole della zona. In Veneto ormai sono una ventina i locali che in vetrina hanno l’adesivo “Menu a Km0”, questo significa che quando ci portano la carta scopriamo che l’olio del Garda ha viaggiato (per raggiungere Padova) 123 chilometri, che la gallina di Polverara utilizzata per preparare le polpette ne ha percorsi 16 e il risorto di zucca di Sottomarina con i funghi di Crocetta del Montello ne ha totalizzati meno di 130. Se avremo mangiato e speso bene saremo fieri di aver preferito un pasto poco inquinante.
Alla trattoria Antica Ballotta di Torreglia, sempre in zona, hanno fatto un primo bilancio: “Risparmiamo il 18% sulla spesa e in più abbiamo aumentato del 18% i coperti”. Anche la capitale sta assaggiando il “migliozero”, sono già una quindicina i ristoranti che propongono piatti preparati con materie prime prodotte nel Lazio.
E puntano sulle produzioni locali di stagione anche i grandi chef. È stata la scelta vincente di Davide Oldani, che al suo ristorante “D’O” di San Pietro all’Olmo, appena fuori Milano, riesce a proporre un menu low cost a 32 euro perché sceglie soltanto prodotti locali di stagione: “Il D’O è la dimostrazione che si può dare altissima qualità semplicemente rispettando la stagionalità. La melanzana adesso esce dalla mia cucina e rientra a giugno, adesso entrano zucca, broccoli, cavolfìori, melograno. Il mio consiglio? Quando andate a fare la spesa non lasciatevi tentare. Il pomodoro a dicembre, anche se è bello, tondo e rosso non dovete comprarlo: lasciatelo lì, lasciate quella merce a marcire nei negozi e vedrete che anche i supermercati faranno acquisti diversi”. Certo, le scelte dei consumatori saranno determinanti.

E intanto il biologico vola ... Un consumatore su 5 sceglie organico...
I consumatori italiani cercano prodotti locali e possibilmente biologici, a preferire il bio sarebbe il 22% delta popolazione, secondo L’Osservatorio sugli italiani e il benessere diretto da Giampaolo Fabris, professore di sociologia dei consumi. Infatti nonostante i rincari, mentre il settore alimentare tradizionale avanza al rallentatore, i prodotti biologici corrono veloci, sempre con il segno più. Più 10% nel 2007 e più 6% nel primo semestre del 2008, contro un aumento dell’1,2% dei prodotti non bio. Il dato è fornito dalla Cia, La Confederazione italiana agricoltori, che però denuncia il rischio di invasione dei prodotti bio d’importazione, “perché il numero delle nostre aziende bio è calato del 2% e anche quelle delle superfici coltivate a biologico è sceso, del 5%”.
Secondo dati Ismea/Ac Nielsen i consumi dei prodotti bio sono in crescita, sia quelli confezionati (-10%), sia quelli sfusi (-5%). L’incremento delle vendite riguarda soprattutto il comparto dell’ortofrutta [+25,2%), gli alimenti per l’infanzia (+36,4%), la pasta e il riso (+13%) e il pane (+32%). Peccato che la produzione italiana di alimenti biologici (50mila imprese in Italia, sull’8% della superficie agricola totale) sia in frenata, secondo il presidente Federbio, Paolo Carnemolla, anche perché “diverse regioni hanno ridotto gli interventi a favore delle colture biologiche”.

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