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Corriere Della Sera / Sette

Le signore del vino ... Calici d’Italia in alto: il vino è donna... Brave comunicatrici, vulcaniche e glamour ma anche manager sapienti e - molto più di quanto si pensi - conoscitrici di vitigni e grand cru. L’enologia tricolore non è più “solo roba da maschi”. Eredi di aziende storiche o creatrici di nuove etichette, le signore sono diventate protagoniste di vigne e cantine. Con un obiettivo: conquistare quella metà del cielo che sta scoprendo il gusto di una bottiglia Doc... Uno dei primi libri sul vino in Italia l’ha scritto un tedesco, Hans Barth, e gli fece la prefazione Gabriele D’Annunzio, nel 1909. Si chiama “Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri” e non c’è traccia di un essere umano di genere femminile, se non nella dedica iniziale tratta da Giovenale - “Ai mani della divina Saufeja la più sitibonda tra le donne de l’antica Roma” - e nelle divagazioni del Vate che elogia l’opera notando come vengano ricordate bettole e locande dove si è felicemente accompagnato con questa o quella donzella adeguatamente stordita dai lieti calici. Non ci sono vedove Clicquot dalle nostre parti. Il tocco femminile era, al massimo, quello del piede di contadine che pestavano le uve per avere il mosto. L’enologia italiana è stata sempre un mondo di maschi. Alt! Quel “sempre” è valso fino a una trentina di anni fa. E, di sicuro, oggi è del tutto fuor di luogo. Allora, cominciarono due dame toscane. Nella terra del virile Chianti e dintorni imposero svolte e sveglie. Più su glamour, comunicazione e intese commerciali, Bona Frescobaldi. Più su prodotto e organizzazione aziendale, Donatella Cinelli Colombini. La prima, oggi, si è un po’ defilata, la seconda continua l’opera di femminilizzazione delle sue fattorie con il progetto Casato Prime Donne, a Montalcino e a Trequanda: cantine con organico totalmente rosa. Intanto avanzano nuove protagoniste. In zone enologicamente di frontiera, come le isole. Nell’Agrigentino, Francesca Planeta ha partecipato dal ‘93 alla mutazione dell’azienda di famiglia, fino allora genericamente agricola: “Coi vini siciliani era ancora dura. Avevo studiato comunicazione e marketing, poi avevo lavorato fuori. La parte vinicola la creammo in pratica io e mio cugino. Ero felicissima: una cosa nostra, non si trattava di farsi carico di un’eredità. Mi occupo solo di marketing e comunicazione. Le scelte sul gusto del prodotto, tradizionalmente, sono più cosa da uomini”. Il suo tocco si sente nelle cinque fattorie relativamente piccole (lei le chiama “boutique-winery”), nella cantina fortemente voluta sottoterra a tutela del paesaggio, nelle campagne d’avanguardia per l’uso del web, come l’ultima (“Il tempo di Planeta”), un’immagine delle tenute che cambia ogni tre ore, ripresa, sul campo, in tempo reale: “Notte, alba, giorno e tramonto. Un itinerario crono-geografico attraverso le nostre terre”.

Cinelli Colombini avanza un’obiezione: “La prevalenza di imprenditoria femminile nell’agricoltura del Sud può anche essere segno di marginalità, ovvero di aziende che non rendono o che sono molto parcellizzate”. Da Donnafugata, a ribattere pensa un’altra signora dell’enologia nell’isola, José Rallo, voce squillante (“Gli amici mi chiamano apposta per sentirla”) e carattere deciso: “Noi siciliane del vino? Una potenza. Siamo più di trenta e l’istituto regionale del settore ha condotto una campagna proprio sfruttando questa presenza importante: “Donne, territorio e vino”. La Sicilia dal punto di vista delle bottiglie di qualità ha vissuto una rinascita. E noi donne - più flessibili, più multitasking - siamo state capaci di influire sul messaggio e sul prodotto, più morbido, meno ingessato”. A chiederle il vino preferito fra quelli che produce le si illuminano gli occhi: “Lo zibibbo in purezza fatto a Pantelleria. Un bianco secco che innova la tradizione dei vini panteschi”. Poi si racconta: “In questo mondo sono dal 1990, per amore di un uomo. Quello per il vino l’ho dovuto recuperare: era sepolto dentro di me. Oggi come oggi il prodotto è questione abbastanza maschile anche se mia madre, che ha avviato Donnafugata, ha cominciato dalla vigna. Io non ci metto bocca: lo interpreto, lo racconto e lo canto. Invece intervengo sul controllo di gestione, la mia specialità: lì, ho messo in riga tutti e c’è voluta parecchia forza”.

Dalla Sardegna fa eco Valentina Argiolas, nell’azienda omonima con la sorella Francesca: “In tutto siamo 6 donne su 32 persone. Sono entrata a 25 anni dopo la laurea e dopo aver fatto un giro nelle cantine francesi. Noi ragazze siamo state importanti per il cambio di comunicazione. È un handicap generale per la Sardegna e vale anche per le cantine. Abbiamo mutato tutto, puntando sull’attenzione all’ambiente, sul fotovoltaico, sul recupero delle biomasse. Captando, spero, i cambiamenti. Non le mode. Bere meno ma meglio. Qui la donna forse sa arrivare prima”. Argiolas si appassiona a parlare dei progetti avviati: un vino sperimentale con vendemmia “refrigerata” (“Siamo i primi in Sardegna ad avere una macchina che può farla sul campo”) e, soprattutto, Iselis: “È una cosa totalmente nuova come prodotto e come comunicazione. Un bianco e un rosso vinificati in modo diverso da quello sardo tradizionale. E, attorno, una serie di iniziative: un progetto di solidarietà che cresce anno per anno attorno a un ospedale creato in Congo, il nome che non fa riferimento al territorio come è uso da noi, le etichette che sono vere e proprie poesie create da un amico di famiglia”.

In cantina fin da bambina. Un’altra terra - ma si potrebbe dire vigna - di frontiera dove le donne contano assai è quella dell’uva vinificata col metodo classico champenois: zona dal nome incerto perché guai a usare quello francese e allora in Italia ci si muove per tentativi. Franciacorta è la soluzione adottata nella zona omonima: “Facciamo così, come tutti i produttori di quest’area: il riferimento naturale al territorio di produzione”, spiega Francesca Moretti, amministratore delegato del gruppo di famiglia, cinque stand all’ultimo Vinitaly, quattro aziende (due in Toscana, due in Franciacorta): “Mio padre per hobby ha iniziato a far vino a Bellavista negli anni ‘70. Io sono del ‘74, sono cresciuta nelle fattorie: andare in cantina per me era un gioco”. A differenza di molte altre signore del vino, lei non si occupa di marketing o organizzazione, è enologa e bada al prodotto: “Del resto ho cominciato a bere presto: rubavo i fondi di bicchiere nelle feste a cinque anni. La mia piccola, a un mese, ha avuto la prima goccia di vino”. Divisa fra Toscana e Franciacorta, si diverte di più con la nuova esperienza: “Anche se lavorare coi toscani è difficile mentre in Franciacorta sono nata e parliamo la stessa lingua. Era un sogno mio e di mio padre fare un grande vino rosso. E non volevamo un’area già celebre come Bolgheri. Così siamo andati in Val di Cornia ed è nato Petra. Lo studio di quei terreni è stato oggetto della mia tesi di laurea in Agraria a Milano. Il vitigno che ho voluto in assoluto è stato il Merlot”.

Tornando al nome da usare per il vino frizzante, della Ferrari, Camilla Lunelli ha una soluzione diversa: “Spumante butta giù. Bollicine può non convincere, per ora non abbiamo di meglio... Di sicuro le bollicine sono molto apprezzate dalle donne perché uniscono gusto e tenore alcolico più contenuto. Non si tratta di cose da riserva indiana: oggi, a frequentare i corsi per sommelier, le donne sono in maggioranza: hanno un approccio più scientifico, vogliono conoscere l’apporto calorico, non “bere per bere””. Camilla - figlia dell’enologo della Ferrari, dove suo padre entrò come socio nel 1968 - si occupa di comunicazione e economia: “Nel mio ambito ho forzato un po’ la mano rispetto alla tradizione familiare che puntava tutto sulla carta, spostandoci verso l’online: ora si trova lì la nostra newsletter, non è più stampata e spedita”. E rivela un particolare curioso: “L’ingresso in azienda non deve essere scontato per il figlio di famiglia, non deve essere automatico. Noi abbiamo dei patti familiari depositati dal notaio, le abbiamo battezzate tavole della legge. Deve essere l’azienda a chiamare e, d’altra parte, il giovane non deve sentirsi obbligato perché, altrimenti, il genitore è deluso”.

Dono di nozze a Kate e William. “Be’, anche noi stiamo lavorando a qualcosa di simile”, rivela Tiziana Frescobaldi, oggi la più operativa in azienda (anche se la zia Bona sa sempre lasciare il segno nei momenti importanti: vedi il regalo di Castel Giocondo annata 2006 alla coppia del Royal Wedding dove lei e il marito Vittorio erano fra i rarissimi invitati italiani): “Una specie di scrittura privata che disciplini l’ingresso in azienda della prossima generazione”. Con patti ben definiti o per naturale cooptazione, insomma, avanzano le nuove generazioni. Anche nelle realtà più piccole.
Bianca Aschero rappresenta la terza generazione nella Laura Aschero, azienda da sempre al femminile (65.000 bottiglie, 20% per l’export) nata quasi per gioco negli anni Ottanta a opera della nonna: “Quando il marito andò in pensione, decise di piantare viti nelle terre che avevano a Ponte d’Assio. Vendeva l’uva al consorzio, poi un amico le disse che il suo vino era buono davvero. Ora sono entrata io, sto nel marketing ma voglio fare un corso di sommelier perché l’enologia mi piace. D’altronde i vini liguri sono questi e non c’è molto da sbizzarrirsi. Quest’anno ho imparato a potare la vite. Ma io la forbice ad aria compressa non l’adopero, sennò mi taglio un dito”.

In un’etichetta storica come Marchesi di Barolo, sulle tracce della vulcanica madre Anna, muove i primi passi Valentina Abbona, 23 anni, penultimo anno di economia a Milano, progetto di andare a Shanghai e poi a New York: “La mia idea è continuare quel che fanno i miei genitori, ma non subito. È importante portare esperienze in azienda, con una formazione autonoma. Anche se loro vorrebbero che entrassi subito, per alleggerire il loro impegno, non per timore di avermi lontana”. Comunque, ha già le idee chiare: “Enologa? No, in materia sono un po’ ignorante, mi occuperei dell’export. Sento il bisogno, nell’immediato futuro, di fare un corso di sommelier. Ma lì si parla del prodotto finito. Per l’innovazione viti-vinicola c’è mio fratello, che studia enologia. Dal punto di vista imprenditoriale, credo si potrebbe fare di più. Siamo nati come realtà familiare e (secondo la mia opinione di studente e da esterna) siamo un po’ disorganizzati. Per questo preferisco fare un’esperienza altrove: così potrò dire la mia”.

Teenager a Bordeaux. Anche la Toscana ha le sue zone vinicole di frontiera e in una di queste è stata una donna a sfondare: Elisabetta Geppetti, nata a Livorno, cresciuta a Pisa, che, nel 1985, a Pereta, paesino medievale della bassa Maremma, ha creato Le Pupille, fattoria con grandi etichette, dal Morellino di Scansano al Saffredi: “Che è il nostro top wine, uno dei primi supertuscan. Sono appassionata di vino fin da ragazzina. Curiosa delle bottiglie importanti, a diciassette anni già visitavo le aziende francesi e mi sono innamorata del Bordeaux. Erano gli anni della rinascita del vino italiano e mi imposi di lanciare una zona che era ritenuta “sfigata” per fare grandi vini. Qui, quando cominciai, la Doc era neonata, non c’erano grandi imprenditori e i ristoranti stellati erano prevenuti verso un’area giudicata inadatta a far parte delle zone vitivinicole toscane pregiate”. Con questo pedigree non è certo tipo da delegare le scelte produttive. “Ho un enologo ma le decisioni si prendono insieme. Mi piacciono i vini eleganti, non quelli potenti. E non amo le cose marmellatose, voglio sentire il frutto. Ora sto reimpiantando i vigneti, introduco nuovi vitigni, il Merlot, il Sirah...”.

Siamo lontanissimi, insomma, dai tempi descritti in “Bere vino puro” di Maria Luisa Catoni (Feltrinelli), ovvero i simposi finalizzati a una “bevuta” esclusivamente maschile come indicava già il nome del locale in cui si teneva, andròn, “la sala degli uomini”. Però, se è lecito chiudere con una notazione stravagante (un po’ sconveniente, ma senza creare offesa), va detto che il dato più evidente sulla trascurata e rampante importanza delle quote rosa nel mondo del vino balzava agli occhi scendendo nell’interrato dell’ultimo Vinitaly, ai primi d’aprile, a Verona. Lì sotto, per esempio, fra Stand 6 e Stand 7 - tutti giganteschi e tutti affollatissimi - c’erano le toilette: turn over da metrò nell’ora di punta per quelli maschili, ma comunque spazio istantaneo per ogni improvvisa emergenza, una fila che rimontava le scale, invece, per quelli femminili, con signore, hostess e visitatrici costrette a ostentare indifferenza mascherando imbarazzo e necessità. Scontando gli spazi più limitati delle ritirate con la gonna e scontando, anche, necessità femminili non strettamente fisiologiche (avvertenza accorta di vignaiuola illustre: ovvero, rifarsi il trucco esposto a deperimento rapido nel forno della fiera) era chiara una sottovalutazione progettuale, diciamo così, sull’afflusso prevedibile dall’altra metà del cielo.

“La parte vinicola dell’azienda di famiglia la creammo io e mio cugino. Le scelte sul gusto del prodotto, tradizionalmente, sono cosa da uomini, io mi occupo di marketing e comunicazione”. Francesca Planeta.

“Noi siciliane del vino siamo una potenza. Più flessibili, più multitasking degli uomini, siamo state capaci di influire sul messaggio e sul prodotto, rendendolo più morbido e meno ingessato”. José Rallo.

“Noi ragazze siamo state importanti per il cambio di comunicazione. È un handicap generale per la Sardegna e vale anche per le cantine. Abbiamo mutato tutto, puntando sull’attenzione all’ambiente”. Valentina Argiolas.

“Di sicuro le bollicine sono molto apprezzate dalle donne perché uniscono gusto e tenore alcolico più contenuto. D’altronde oggi, a frequentare i corsi per sommelier, le donne sono in maggioranza”. Camilla Lunelli.

“Stiamo lavorando a una specie di scrittura privata che disciplini l’ingresso della prossima generazione in azienda. Con patti definiti”. Tiziana Frescobaldi.

“Quando il marito andò in pensione, nonna decise di piantare viti nelle loro terre. Poi un amico le disse che il suo vino era buono davvero... Ora sono entrata io, e voglio fare un corso di sommelier”. Bianca Aschero.

“È importante portare esperienze in azienda, con una formazione autonoma. I miei genitori vorrebbero che entrassi subito, per alleggerire il loro impegno, non per timore di avermi lontana”. Valentina Abbona.

“Sono appassionata di vino sin da ragazzina. A diciassette anni già visitavo le aziende francesi e mi sono innamorata del Bordeaux... Qui la Doc era neonata”. Elisabetta Geppetti.

Tre aziende su dieci sono guidate da “lei”.

In Italia le donne conducono 290.000 imprese agricole, ovvero il 28% del totale. La percentuale è più alta al Sud: 44% nel Mezzogiorno, 32% al Nord, 24% al Centro. E cresce (al 30%) restringendo il campo alle sole imprese vitivinicole: lì, il 35% della forza lavoro è femminile. Nella stessa indagine viene presentato un identikit della manager del vino da cui risulta che il 70% lavora prevalentemente in cantina l’11% si occupa della ristorazione, il 9% è sommelier e una percentuale
identica è addetta alla comunicazione. Il livello di scolarizzazione è alto, con il 50% di laureate e il 30% di diplomate. Per quanto riguarda, in particolare, le sommelier, ce ne sono 505 fra 2.424 sommelier Ais: una percentuale maggiore che in Francia ma inferiore rispetto a Gran Bretagna, Usa e Canada. Controtendenza, invece, nei consumi: le donne che bevono vino sono passate dal 37% del
1993 al 31% nel 2010 secondo un’indagine dell’Osservatorio giovani a alcol della Doxa.

E il vino al femminile s’incrocia con la moda

Un’inchiesta condotta nel 2008 dal professor Andrea Rea (Sda Bocconi) ha compilato una divertente classificazione nel mondo femminile interessato al vino identificando sei diverse categorie collegate alla moda.

Valentino: sono il 17%, “sobrie ed eleganti, puntano su vitigni autoctoni, una gamma ristretta di prodotti ben scelti da vendere in canali specializzati”;

Dolce e Gabbana: solo il 5%, “fanno attenzione a tutto: prezzi, cantina, aumento della concorrenzta, ampliameno dell’assortimento, marca, comunicazione, clienti, eventi...”;

Bulgari: attestate al 16%, “danno poca importanza al prezzo (che deve essere alto), puntano su vitigni autoctoni, vini con denominazione e canali di vendita specializzati”;

Armani: la percentuale più alta col 32%, “cosmopolite e metropolitane, amano la novità, la comunicazione integrata e multimediale. Vini atoctoni Doc”;

Diesel: una quota del 10%, “amano l’eleganza ma anche la funzionalità e l’informalità.
Fanno attenzione a marca e comunicazione sia nel punto vendita che coi media”;

Zara: il secondo gruppo col 21%, modeste ma concrete, puntano su vini affidabili senza fronzoli”.

Un sondaggio dello scorso anno condotto da Winenews-Vinitaly fra 1.798 “enonauti” ha invece studiato l’atteggiamento delle donne “enoappasionate”. Il 54% di queste, al ristorante, sceglie il vino sempre(31%) o quasi
sempre, mentre il 51% acquista 4-5 bottiglie al mese (con un 25% che ne compra almeno 10).

Le cifre del vino italiano

7 italiani su 10 dicono di apprezzare il vino (76,3%) che, per il 42,7% è un’abitudine quotidiana. Tra i consumatori prevalgono leggermente gli uomini (55,7% contro 44,3%).

3 italiani su 10 sostengono di conoscere bene i vini. Invece il 43,5% di donne (33% di uomini) sostiene di non avere conoscenza specifica dei vini.

4 italiani su 10 comprano il vino in “cantina”, in prevalenza donne e chi abita nel Nord-est (Fonte: centro studi Vinitaly-Bocconi).

680.000 ettari superficie vigneto in Italia (di cui 40mila biologici) con una produzione di 46,5 milioni di ettolitri (Coldiretti).

40 litri/anno consumi pro capite di vino in Italia (Coldiretti).

850.557.072 il totale in euro delle esportazioni di vino italiano verso la Germania, il Paese che ne acquista di più, seguito a ruota dagli Stati Uniti (827.280.147 con un aumento di +11,5% in un anno).

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