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Dalle cronache del Duecento al giornalismo enoico di oggi il vino e i vitigni “Ciceroni” nei territori d’Italia. Ad Expo lo storico Massimo Montanari con Monica Larner (“The Wine Advocate”), Richard Baudains (“Decanter”) e Daniel Thomases (Veronelli)

Italia
Gigi Brozzoni, Monica Larner, Massimo Montanari, Richard Baudains, Riccardo Cotarella e Daniel Thomases

“Vina italica”. Così il frate francescano Salimbene di Parma, nel Duecento, definiva (dicendo di preferirli a quelli di Auxerre) i vini prodotti in un Belpaese, che, di fatto, ancora non esisteva come realtà politica, ma che già non era “neanche solo una espressione geografica. Era un’Italia soprattutto culturale, un Paese in cui circolavano prodotti, tra cui il pane e il vino, espressioni di civiltà dell’uomo perchè derivati dalla trasformazione del grano e dell’uva, ma anche stili di vita, comunità che condividevano le loro diversità, così tutto si trovava ovunque ma non perchè prodotto ovunque, ma perchè convisivo da comunità distinte, ma non isolate. Così si è costruito il concetto di Italia, anche attraverso il cibo e il vino, con realtà locali che si conoscono, fanno circolare prodotti e usi, e costituiscono, pian piano, un corpo omogeneo di tradizioni diverse”: così Massimo Montanari, uno dei massimi storici dell’alimentazione a livello mondiale, ad Expo, nell’incontro n. 2 dedicato alle “suggestioni del Gran Tour”, promosso dal Comitato Scientifico del “Padiglione Vino”, guidato dal presidente degli enologi italiani Riccardo Cotarella.

Da cui emerge, appunto, che l’Italia è un Paese che ha costruito la sua identità attraverso gli stili di vita che erano sì diversi, ma si parlavano. E il vino - anzi, i vini - era una di queste voci. Vini italiani che si sono trasformati fino ad affermarsi sui mercati mondiali e la cui evoluzione, ad Expo, è stata raccontata nelle esperienze di tre giornalisti stranieri che in Italia, per amore del Paese e dei suoi vini, si sono trasferiti. Monica Larner, che da Los Angeles arriva a Roma ad undici anni con il padre che si trasferisce per lavoro e oggi è la corrispondente dall’Italia di “The Wine Advocate”, la rivista più autorevole ed influente nel mondo, fondata da Robert Parker; Richard Baudains, britannico che venne in Italia per motivi di studio e decise di tornarci per rendere onore al vino italiano dopo aver letto un articolo inglese che mostrava di non averne capito nulla e ora vive in Friuli, e che scrive per “Decanter”, e Daniel Thomases, americano, arrivato a Firenze con una borsa di studio e che non se ne è più andato e ora è un’enciclopedia vivente dei vini italiani.

Con il vino a fare da Cicerone, e che si è dimostrato una guida per antonomasia per conoscere l’Italia. “Assaggio 3.500 vini all’anno - ha detto Monica Larner - ma il punto, secondo me, non è fare recensioni tecniche e dare giudizi, quanto piuttosto usare il vino come narratore del Paese Italia. Un modo di pensare che mi ha colpito quando tanti anni fa, all’inizio della mia carriera, ho partecipato alla vendemmia in notturna a Donnafugata, in Sicilia. Il chicco d’uva, quel piccolo frutto sferico addolcito dal sole, è un grande narratore e mi guida in giro per l’Italia. Ogni vitigno italiano - e sono tantissimi - ha quella che io definisco una “voce varietale”. I vitigni per me sono sono come dialetti - spiega la Larner - ogni vitigno parla la sua lingua, devi ascoltare la sua voce. Nessun altro Paese al mondo ha un coro così completo che racconta il territorio, o meglio i territori. I francesi parlano di concetto di terroir, che, per me, non è completamente applicabile all’Italia. Io preferisco il concetto di tipicità”.

Il viaggio di Richard Baudains, nato nell’isola britannica di Jersey, comincia a Firenze come studente. “Ricordo ancora la prima volta che vidi il fiasco. Se Guttuso e Morandi lo hanno scelto come oggetto artistico nei loro dipinti c’è un motivo”. Finita l’Università, arriva il periodo in cui vive in una casa colonica sopra Greve in Chianti scopre la Toscana selvatica, il freddo, il vento, la neve, i contadini. All’epoca non capivano tanto della vinificazione, ma erano legatissimi alla terra. Poi è la volta del Piemonte, girato sulla Fiat 500, fra i produttori. E della scoperta del Barbera. Baudains cita due libri per lui formativi: “Vino al vino” di Mario Soldati, che una bellissima Italia del vino dai due estremi, Nord e Sud. E poi “The Italian Wine Atlas” di Burton Anderson. “Studiavo per ore e ore le mappe, che sono una cosa interessantissima”. Baudains confessa di avere un debole per il Lambrusco, un amore che gli ha fatto perdere una rubrica sulla sua rivista, Decanter. “A noi corrispondenti era stato chiesto di scrivere dei tre vini migliori. Gli altri hanno citato i grandi vini. Io ho parlato del Lambrusco dolce. Non so perché, ma non mi hanno fatto più scrivere su quella rubrica. Invece, bisogna abbattere i pregiudizi”.

Non poteva che scrivere e vivere di vino Daniel Thomases. Arrivato a Firenze alla metà degli anni grazie ad una borsa di studio, ha l’occasione di frequentare un’enoteca. “La gestione era stata affidata ad “un certo” Giorgio Pinchiorri - ricorda - ed è Pinchiorri che a un giovane Thomases suggerisce di leggere un libro, “Il Catalogo Bolaffi dei Vini d’Italia” di Luigi Veronelli. Dalla Toscana, Thomases scopre poi il Piemonte. “Ricordo che i produttori mi accoglievano come un marziano: non ero né un importatore, né sommelier. Ero soltanto un curioso. Lì ho conosciuto leggende come Gaja, Giacosa, Aldo e Giovanni Conterno”. La carriera di Thomases inizia sempre grazie a Pinchiorri. “Un giorno mi disse: vieni a pranzo, ho qualcuno da presentarti. Un certo Veronelli. Che poi mi invitò a Bergamo e mi offrì di scrivere di vini per le sue riviste. Ricordo un primo viaggio nella Valpolicella, poi la Puglia e la Campania. Con Pinchiorri e Veronelli sono stati incontri fortuiti, ma fortunati, che mi hanno dato la possibilità di conoscere l’Italia molto profondamente”.

Italia. Paese del viaggio in cui si fanno esperienze e conoscenze straordinarie. “Come scrisse - e lo ricorda sempre lo storico Massimo Montanari, autore di numerosi libri, pubblicati da Laterza, che ci ha aiutato a capire la gastronomia - nel 1548 lo scrittore milanese Ortensio Lando, nel suo “Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia”. “In latino - spiega Montanari - mostruoso vuol dire meraviglia. Lando immagina di rivolgere appunti di viaggio ad un personaggio immaginario che arriva in Italia dall’Oriente, sbarca in Sicilia e viene guidato verso il Nord”.

Un viaggio per conoscere un Paese che passa attraverso i suoi cibi e i suoi vini. Non a caso i greci chiamarono l’Italia “Enotria”. Da millenni il vino è simbolo di civiltà. “L’uomo, facendo il vino e il pane, non è più come gli altri animali che sanno usare le cose che si trovano in natura, ma un soggetto che elabora saperi, tecniche, che lo rendono in grado di fabbricare una cosa nuova. La forza simbolica di questo prodotto è il fatto che diventa l’immagine della cultura, della civiltà, dell’essere uomini. La cultura del vino rappresenta un’identità fondamentale del Paese Italia, Paese del vino, Paese dei vini al plurale, sempre”. E che il vino è cultura, e forma anche il modo di essere e di pensare, sono ancora i Greci a capirlo per primi, spiega ancora Montanari. “Nel convivio, o meglio nel simposio, che è proprio il “bere insieme”, ci si danno regole collettive per non abusare del vino. Che, per altro, a quel tempo non era un prodotto finito tout court, perché spettava a chi teneva le redini del banchetto decidere quanto allungarlo con l’acqua, se raffreddarlo o scaldarlo, se condirlo con miele o spezie. Da qui nasce anche un rapporto con il vino che non è “sacrale”, ma quotidiano, perchè strumento fabbricato dall’uomo e non donato dall’alto, e quindi da usare. A volte anche con l’eccesso, perchè l’ebbrezza era considerata una cosa positiva, di tanto in tanto, cosa impensabile oggi, per ovvi motivi, nell’era delle automobili. Anche gli scrittori cristiani come Sant’Agostino suggerivano, ogni tanto, di ubriacarsi, per capire quale era il limite oltre il quale non spingersi”.

Un vino che è viaggio dei sensi, ma anche di popoli e culture. “In Italia - conclude poi Montanari - abbiamo sviluppato storicamente, come in tutta l’area mediterranea, la cultura del vino. Ma l’identità europea del vino si sviluppa dal Medioevo, cioè da quando l’Islam rifiuta la cultura del vino, che dal Caucaso e dalle coste del Nord Africa “trasborda” a nord del Mediterraneo, ed acquista un’identità innegabilmente Europea. Una riflessione che ci insegna come elementi identitari di una cultura, come quella europea, a volte nascono altrove, come è successo con il vino”.

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