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LO SCENARIO

Dazi Usa sul vino europeo: il conto finale lo pagano gli eno-appassionati americani

L’American Association of Wine Economists pubblica gli effetti delle tariffe al 25% imposte da Washington nella disputa Airbus-Boeing nel 2019-2021
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Dazi Usa sul vino europeo: il conto finale lo pagano i consumatori americani

Quando un dazio del 25% colpisce il vino europeo, chi paga davvero il conto? Tra il 2019 e il 2021, nel pieno della disputa Airbus-Boeing tra Stati Uniti e Unione Europea, Washington, sotto la precedente amministrazione di Donald Trump, ha imposto tariffe sui vini fermi con gradazione pari o inferiore al 14%, in bottiglie da 2 litri o meno, provenienti da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Una misura apparentemente tecnica, ma che ha scatenato effetti a catena lungo tutta la filiera. Ad analizzare chi ha sostenuto il peso economico , oggi, il paper “Chi paga i dazi lungo la catena di approvvigionamento? Evidenze dai dazi sul vino europeo”, pubblicato dall’American Association of Wine Economists (Aawe) e firmato dagli economisti Aaron Flaaen, Ali Hortaçsu, Felix Tintelnot, Nicolás Urdaneta e Daniel Yi Xu. Lo studio, basato su dati confidenziali di transazioni reali, ricostruisce il percorso del dazio dal produttore al consumatore attraverso tre fasi (acquisto dal produttore europeo, vendita all’ingrosso ai distributori americani e vendita al dettaglio al consumatore finale con Wine.com, Binny’s, Flatiron Wines & Spirits e Astor Wines & Spirits), mostrando come un’imposta pensata per colpire l’export europeo abbia finito per pesare soprattutto sulle tasche degli americani.
Un’analisi che, come abbiamo raccontato su WineNews, è tornata attuale in seguito ai dazi al 15% voluti dalla nuova amministrazione Trump che non hanno colpito solo i produttori europei, ma anche il commercio e la ristorazione statunitense. Il sistema distributivo americano, basato su tre livelli (importatore, distributore, rivenditore), genera, infatti, un valore di 4,5 dollari per ogni dollaro speso in vino europeo: un meccanismo che amplifica l’impatto dei dazi lungo la filiera interna. L’aumento dei prezzi riduce i margini degli operatori e rende più costosi i vini per i consumatori, confermando che le tariffe pensate per penalizzare l’export europeo finiscono per pesare soprattutto sulle tasche degli americani.
Tornando allo studio condotto dall’Aawe, il confronto tra i vini soggetti a dazio (con gradazione alcolica pari o inferiore al 14%) e un gruppo di controllo (vini con gradazione superiore e spumanti non tassati) ha permesso di isolare gli effetti della misura. L’analisi, condotta tramite modelli econometrici come l’event study e le differenze nelle differenze, che permettono di osservare come i prezzi lungo la filiera del vino abbiano reagito nel tempo all’introduzione dei dazi, confrontando l’andamento tra prodotti colpiti e non colpiti dalla misura, e isolando, così, l’effetto diretto della tariffa sui diversi attori coinvolti, ha rivelato un trasferimento parziale del dazio lungo la filiera. I produttori europei hanno ridotto i prezzi del -5,2%, assorbendo circa un quarto del dazio; gli importatori statunitensi hanno aumentato i prezzi ai distributori del +5,4%, riducendo i propri margini; mentre i prezzi al consumo sono cresciuti del +6,9%, con un ritardo di circa un anno. In termini monetari, il passaggio del dazio lungo la filiera ha generato un effetto amplificato: per un vino che costava 5 dollari alla frontiera, il dazio di 1,19 dollari ha portato a un aumento di prezzo al consumatore di 1,59 dollari. Con una probabilità del 90%, i consumatori hanno sostenuto almeno il 68% in più del gettito doganale generato dal dazio. Lo studio evidenzia, inoltre, come i margini per bottiglia siano diminuiti per gli importatori, ma aumentati per distributori e rivenditori, segnalando una redistribuzione del peso economico lungo la catena. Le dinamiche temporali mostrano che i prezzi all’importazione hanno reagito dopo 3 mesi, mentre quelli al dettaglio hanno impiegato fino a 12 mesi, restando elevati anche dopo la sospensione dei dazi.
Un altro aspetto rilevante dello studio è il fenomeno del “tariff engineering” (adattamento strategico dei prodotti per evitare la tariffa): molte aziende europee hanno modificato le caratteristiche dei vini per evitare i dazi, aumentando il grado alcolico sopra il 14% o introducendo nuove etichette con gradazione superiore. I dati sui certificati di etichettatura (Cola) confermano un forte spostamento verso queste categorie subito dopo l’introduzione delle tariffe, con un ritorno ai livelli precedenti dopo la loro sospensione. Le implicazioni politiche ed economiche sono significative: le stime percentuali del pass-through, ovvero il grado di trasferimento del costo del dazio lungo la catena di approvvigionamento, sottovalutano l’impatto reale sui consumatori, poiché non tengono conto dei ricarichi successivi. Inoltre, la lentezza nella trasmissione dei prezzi suggerisce che i dazi possono contribuire all’inflazione anche dopo la loro rimozione. Infine, il ricorso al “tariff engineering” può alterare le statistiche ufficiali sul commercio.
In conclusione, lo studio mostra che i consumatori statunitensi hanno sopportato la maggior parte del costo dei dazi, pagando più di quanto lo Stato abbia incassato in entrate doganali. I produttori europei hanno assorbito solo una quota marginale, mentre gli importatori hanno visto ridursi i margini e distributori e rivenditori li hanno aumentati. Gli economisti americani sottolineano che, in presenza di catene distributive lunghe e ricarichi cumulativi, anche dazi modesti possono generare effetti amplificati e duraturi sui prezzi finali, un meccanismo estendibile a molti altri beni oltre al vino.

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