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Essere “glocal” non basta più: nell’era della “Deep globality” il successo di un marchio si misura dalla capacità di penetrare la cultura locale, arricchendola. Così uno studio McCann con case history dei global brands Masi, Grana Padano, Nespresso

Essere “glocal” non basta più. Nell’era della “Deep globality”, in cui non si parla più di globalizzazione ma di mondo globale, in cui non basta più uscire dai propri confini ma anche penetrare nella vita delle persone, conquistandone la fiducia, il successo di un marchio non si misura più solo dal riuscire ad esportare anche la cultura produttiva, e non solo, del proprio territorio d’origine, in ogni parte del mondo, dove è presente nei mercati. Ma dalla capacità e dagli sforzi di penetrare la cultura locale, arricchendola, nel rispetto dei suoi valori. Dall’essere, insomma, prima globale e poi locale. Che vuol dire, per esempio, conoscere non solo i diversi target di persone, ma anche le leggi, come si fanno gli affari e gli equilibri economici che cambiano continuamente da un Paese all’altro. Avere una strategia mirata di volta in volta perché le sfumature culturali sono tante, utilizzare i media locali, creare opportunità, di lavoro in primis, e dare impulso alla creatività locale per poi farla diventare, di nuovo, globale. Questo vuol dire essere un global brand, e in questo, l’Italia è riuscita, se si pensa all’agroalimentare tricolore più in generale, e al vino in particolare, ed al successo dei loro marchi nel mondo. A dirlo è lo studio“Truth about global brands” condotto da McCann Worldgroup.
Come il vino italiano è riuscito a rispondere a questa sfida, conquistando i mercati del mondo, mantenendo un profondo legame con i suoi territori e lasciandone traccia nel bicchiere, con i consumatori che si dimostrano sempre più interessati a luoghi precisi di produzione del vino, lo ha spiegato a chiare lettere Sandro Boscaini, presidente di Masi Agricola, una delle realtà più famose del vino italiano - presente in quasi 100 Paesi, con una quota export di oltre il 90% del fatturato, e quotata sul mercato Aim Italia - scelta dalla prestigiosa azienda mondiale di marketing e comunicazione come case history di un brand globale, nella presentazione dello studio nei giorni scorsi a Milano: “il vino europeo, e quello italiano in particolare, è per eccellenza un prodotto “glocal” perché trova nel locale, cioè nei territori, la sua forza. Tuttavia grazie alla sua capacità espressiva di cultura e di tradizione (in una parola, di “terroir”) è intellegibile a livello globale e sa superare anche i limiti culturali di alcuni Paesi: anche laddove il vino non è culturalmente accettato, sono presenti “nicchie di globalità” e di apprezzamento, come nella filiera del turismo, nei duty free shop o nei club internazionali”.
Per McCann global brand di successo, lo sono anche il Consorzio Grana Padano e Nespresso. Nel 2015 l’export di Grana Padano è cresciuto del 9%, e per il 2016 il Consorzio prevede una produzione di oltre 4,8 milioni di forme, il record assoluto di sempre. E di pari passo, ha stanziato un budget 2016 di 26,5 milioni di euro per la promozione, di cui 10,5 destinati alle attività sull’estero, per evidenziare i valori e i caratteri distintivi del suo prodotto. Nespresso (del colosso svizzero Nestlè) non solo ha portato l’espresso praticamente ovunque, nel mondo, ma, qualcosa come 30 anni fa, ha cambiato anche il modo di consumarlo, inventando le capsule e brevettando macchine perchè tutti possano preparlo direttamente a casa. La storia di Masi, secondo McCann, racconta come un marchio fortemente territoriale e ricco di valori riesca a confrontarsi sempre meglio a livello globale e a farsi strada tra le differenti culture nel mondo. In questo, anche la differenza tra i brand di vini del Vecchio e del Nuovo Mondo, secondo Boscaini, è significativa, perché “a differenza dei brand del Nuovo Mondo, dove il vino si fonda prevalentemente su parametri tecnici, nella vecchia Europa i marchi sono strettamente legati al territorio di produzione e sono espressione della cultura e della tradizione locale. In questo contesto la promozione del brand individuale va di pari passo con la promozione del brand collettivo, cioè con la denominazione”.
Lo studio ha coinvolto 29 Paesi, con un sondaggio su 30.000 persone attraverso la rete globale di McCann operativa in oltre 109 mercati. Già presentato a New York, Londra, Barcellona, Singapore e Hong Kong, analizza le componenti principali di un contesto di marketing globale, per definire come questi elementi possano essere utilizzati a vantaggio dei marchi locali. A differenza degli anni Novanta e dei primi anni Duemila dominati dall’antiglobalizzazione, è emerso un atteggiamento più positivo delle persone verso i marchi globali: l’85% ritiene che i global brands possano rendere il mondo migliore, e l’81% che abbiano la capacità di influenzare positivamente i Governi. Per contro il 68% delle persone dichiara che, negli ultimi anni, parte della cultura del suo Paese è andata persa, con il conseguente risorgere dei nazionalismi.
Quando si parla in particolare di food & beverage, la predilezione va ai marchi locali, con il cibo - e i rituali con cui si consuma - considerato il fondamento di una cultura, e per il 68% degli intervistati il mezzo migliore per conoscerla. Ma questo non vuol dire che i marchi globali non possano rientrare in questa categoria, quanto piuttosto la necessità per i global brands di penetrare a fondo la cultura locale, per vincere la sfida della competitività, in mercati sempre più complessi: la maggiore fiducia nei global brands si ha in Medio Oriente, mercato fatto di grandi correnti migratorie e forte sviluppo, mentre all’opposto c’è l’inossidabile cultura Giapponese, e in mezzo i mercati Europei, dove spesso i marchi locali sono allo stesso tempo anche globali. I Paesi più bravi ad esportare il loro cibo nei mercati? Stati Uniti, Cina, Italia e Giappone. E il segmento di individui più interessante per i global brands? Il 35% della popolazione mondiale, tra cui rientrano i millenials, che si considerano cittadini globali, che viaggiano frequentemente ed amano idee, marchi e persone di altri Paesi.
Insomma andare oltre la glocalizzazione, secondo lo studio - che tra i global brands cita realtà come Coca-Cola Cmo, Ikea, Facebook, MasterCard, Morgans Hotel Group - è fondamentale, perché tra la sfera globale e quella locale ci sono mille strati e sfumature, e le realtà che i marchi hanno di fronte spesso ricordano più il concetto di cluster, trascendendo sì le frontiere, ma non per forza essendo globali.

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