Il primo produttore privato del nostro Paese, Gianni Zonin, con le sue undici tenute in sette tra le più importanti regioni vitivinicole italiane, analizza, rispondendo alle domande di WineNews, l’allarme, lanciato da qualche produttore, su di una possibile crisi in arrivo anche per il vino italiano.
Quali sono, a suo dire, i principali limiti del vino italiano?
Il problema principale è la dimensione ancora estremamente ridotta delle aziende. E fino a quando il sistema vino Italia rimarrà caratterizzato da una frammentazione di questo genere sarà difficile poter mantenere un livello di competitività adeguato. Soprattutto considerando quanto sta avvenendo nei cosiddetti Paesi produttori del nuovo mondo.
Teme anche Lei che le grandi concentrazioni produttive e commerciali di Paesi, come Usa e Australia, possano farci perdere anche quella leadership nella produzione di vini dal miglior rapporto qualità/prezzo?
Il principale rischio non è tanto che i produttori del “Nuovo Mondo” arrivino sui nostri mercati con vini di qualità a minor prezzo, ma che questi grandi gruppi acquisiscano aziende direttamente nella vecchia Europa, soprattutto in Francia e Italia. Oggi hanno i mezzi per farlo.
Ci illustri meglio questo scenario ...
Se si osservano i costi di produzione nei diversi Paesi, ci si accorge che ormai le differenze sono minime: le uniche differenze, ormai, si limitano ai valori fondiari che, nella vecchia Europa, continuano ad essere superiori a cofnronto del resto del mondo. I costi di impianto di un vigneto, quelli per la manodopera e dei materiali di cantina, non differiscono di molto tra Paesi come il nostro e gli Usa e l’Australia. Differenze maggiori si possono avere, sul fronte della manodopera, in Cile o in Argentina, ma che per il momento non penso rappresentino un pericolo imminente per la nostra vitivinicoltura. Se produrre negli Usa e in Australia, quindi, costa come da noi difficilmente questi Paesi, dati i costi aggiuntivi dell’export e della logistica, potranno arrivare sui nostri mercati con vini a prezzi inferiori ai nostri. Il problema, allora, è un altro. Questi colossi vitivinicoli sono caratterizzati ormai da fatturati che superano i 1.000 milioni di dollari tali da consentirgli, in un futuro non così lontano, di venire a fare shopping in Europa e creare quelle concentrazioni aziendali che nessuna realtà europea oggi è in grado di fare.
Vuol dire che è ipotizzabile che, entro breve, un gruppo come E&J Gallo Winery o come Constellation Brand (oggi dopo l’acquisizione dell’australiana Hardy, la più grande società enologica mondiale) potrebbero venire anche in Italia o in Francia e, attraverso meccanismi di acquisizione, diventare grandi realtà anche nella vecchia Europa?
Io penso proprio di sì. Anche perché, bisogna dirlo, per fare acquisizioni di aziende in Paesi come l’Italia o la Francia servono oggi risorse incredibili dati i valori fondiari che sono ormai saliti alle stelle.
Siamo quindi vicini ad un reale rischio di colonizzazione per il nostro settore vitivinicolo?
Non parlerei di rischio di colonizzazione della nostra enologia. Ma è altrettanto vero che non è pensabile andare avanti con una polverizzazione di questo tipo senza avere ripercussioni sulla competitività del nostro sistema vitivinicolo. Penso, quindi, che vi siano alcune forme di concentrazione che probabilmente verranno utilizzate quando la crisi si farà sentire in maniera più forte.
Che tipo di concentrazioni?
Ad esempio, alcune piccole o medie aziende potrebbero unirsi in forme di partnership per essere più competitive sia in termini di produzione che di commercializzazione. Certo, bisogna vincere alcune forme di individualismo che caratterizzano non solo la nostra vitivinicoltura, ma il nostro carattere italiano, ma non credo che vi siano tante altre alternative. Il problema, però, è che la nostra vitivinicoltura non è frammentata solo dal punto di vista aziendale ma anche da quello delle tipologie di prodotto.
In che senso?
Nel senso che noi ci confrontiamo non solo con dei colossi dal punto di vista produttivo e commerciale, ma anche con un sistema vitivinicolo caratterizzato da produzioni concentrate in 5 o 6 varietà. Da noi, invece, ogni regione ha almeno 20 tipi diversi di vino che sono facilmente riconosciuti e comunicabili nel nostro mercato, ma diventa molto più difficile quando andiamo sui mercati esteri.
Il vino italiano, intanto, ha superato nel 2002 anche quello francese in termini di export …
E’ vero, ma non bisogna dimenticare che i nostri vini all’estero hanno beneficiato in questi ultimi cinquant’anni di due grandi locomotive: la presenza massiccia di italiani emigrati nei Paesi, che sono poi diventati mercati eccezionali per il nostro vino, ed il grande appeal della cucina italiana in tutto il mondo. Si tratta di due elementi importanti che non si possono, però, considerare immutabili nel tempo. Il fenomeno dell’emigrazione, infatti, si è da tempo considerevolmente ridotto se non arrestato e la cucina italiana mantiene sì un prestigio notevolissimo ma in crescita continua sono anche le cucine alternative di altri Paesi, a partire da quella asiatica.
Anche l’euro forte non aiuta certo il nostro export …
Questo è evidente e non possiamo certo pensare di imporre oggi sul mercato Usa nostri vini a prezzi superiori del 30% sul 2002. Oggi, quindi, chi esporta nell’area dollaro si trova in uno stato di sofferenza. Si può migliorare la situazione cercando di abbassare ulteriormente i costi di produzione e aumentare l’efficienza aziendale ma quando il gap tra mercato e costi è così ampio è difficile far tornare i conti. Io credo, per questa ragione, che la nostra principale alternativa rimanga investire ancora sulla qualificazione dei nostri prodotti.
Emilio Pedron, ad del Gruppo Italiano Vini, la maggiore aggregazione cooperativa italiana, spiega che “non ci si può più illudere che è sufficiente fare vini di qualità per rimanere competitivi sul mercato”. Cosa ne pensa?
Su questo aspetto non sono molto d’accordo con Pedron. Credo che vi sia ancora molto da fare per migliorare ulteriormente la qualità media dei vini italiani. Abbiamo fatto moltissimo, in questi ultimi dieci anni, ma non ci dobbiamo in alcun modo arrestare. Per questa ragione, si deve proseguire nel rinnovamento del vigneto Italia e negli investimenti in cantina perché io sono convinto che la qualità rimane la nostra migliore arma contro la concorrenza straniera. Come pure penso che si debba insistere nella valorizzazione dei nostri vitigni autoctoni che rappresentano un eccellente mezzo di differenziazione della nostra produzione. E’ chiaro, però, che bisogna riuscire a far percepire sempre di più ai consumatore il grande valore del nostro patrimonio varietale e per questo è necessario affiancare all’attività di qualificazione delle nostre produzioni anche una forte attività di comunicazione e marketing. E’ evidente che proprio per aumentare il nostro peso anche in termini di comunicazione, è necessario che il vino italiano si muova sempre più con una logica di sistema e non è certo facile data la sua cronica frammentazione.
Non è dunque il caso che si adottino anche nuove politiche per incentivare la concentrazione della produzione nel nostro Paese?
Sarebbe opportuno ma fino ad oggi le politiche sia nazionali che comunitarie sono andate proprio nella direzione opposta alla concentrazione. Gli aiuti, infatti, sono sempre andati, e tuttoggi vanno, alle piccole realtà. Si aiuta cioè la piccola azienda a nascere e non la media e la piccola impresa a crescere ulteriormente. Secondo me, si tratta di politiche miopi che risentono anche di un retaggio culturale del passato e che non tengono minimamente conto delle evoluzioni del mercato attuale e del futuro. La logica del “piccolo è bello” vale solo se si vuole rivestire un ruolo marginale nel mercato.
Lei è stato il primo grande produttore italiano a credere nelle potenzialità del nostro Mezzogiorno, investendo sia in Sicilia che in Puglia. E’ sempre convinto di queste scelte?
Non solo sono convinto di queste scelte per quanto concerne la mia azienda ma penso che realmente il Sud Italia rappresenti una straordinaria opportunità per la nostra vitivinicoltura. Nel nostro Mezzogiorno abbiamo uno straordinario patrimonio varietale, basti pensare al Nero d’Avola o al Negroamaro, al Primitivo di Manduria o al Fiano: si tratta di vitigni in grado di dare vini originali e, al tempo stesso, in perfetta sintonia con i gusti del consumatore moderno.
Dottor Zonin, è ottimista sul futuro del vino italiano?
Nonostante le innegabili difficoltà che dovremmo affrontare nei prossimi anni, io rimango decisamente ottimista. Sono convinto che abbiamo le risorse per rimanere competitivi anche sui mercati del futuro. L’importante è non sentirsi arrivati e non stancarsi mai di investire sulla qualità.
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