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VITICOLTURA GREEN

Giornata di Viticoltura Biologica della Fondazione Mach, suolo e rame i trend topic

Qualità biologica e carbonio organico nei suoli, uso di rame e suoi sostituti, gestione dei patogeni della vite: il punto della ricerca

Che l’agricoltura biologica - e quindi il vigneto italiano - sia in continua crescita ormai lo sanno anche i muri. Come è anche sempre più chiaro a tutti che la sostenibilità ambientale è oggi imprescindibile nella gestione di una qualsiasi azienda. Ciò di cui si è invece meno consapevoli è che il (tanto discusso) Bio ha finito silenziosamente per dettare l’agenda tematica politica, accademica e produttiva (portando, ad esempio, il mondo convenzionale a evolvere in una “gestione integrata”). Mai come negli ultimi anni, infatti, “suolo” e “rame” sono diventati termini usati (e abusati) su cui costruire story telling, antagonismo, ma per fortuna anche tanta ricerca e, attualmente, chiunque si appresta a sporcarsi le mani di terra con un minimo di consapevolezza sa che dovrà confrontarsi fattivamente con questi due macro-temi. Ma cosa si intende realmente quando si parla di “suolo fertile” e di “sostanza organica”? E come si ottiene (e si mantiene) e si misura un suolo del genere? E il tanto discusso utilizzo del rame è finalmente superato? Quanto se ne può usare? Ma soprattutto, per quanto ancora se ne potrà fare uso?
A queste domande tenta da anni di rispondere in modo sempre più specifico l’Unità di Agricoltura Biologica della Fondazione Mach, che ogni agosto dà appuntamento ai produttori e ai loro tecnici all’Istituto Agrario San Michele All’Adige, per dar conto al territorio dei risultati delle sue prove sperimentali in viticoltura biologica. Ad aprire il convegno, il presidente della Fem Andrea Segrè, che ha riconosciuto come la viticoltura abbia fatto da pioniere nella gestione biologica, rendendo ciò che 15 anni fa poteva sembrare difficile, a volte anche impossibile, oggigiorno fattibile. “Con una gestione agronomica oculata, la scelta di varietà e luoghi vocati, i bioagrofarmaci e la confusione sessuale, la viticoltura biologica - sostiene Segrè - è diventata una realtà per molti agricoltori.
Questo è stato possibile grazie all’impegno e alla dedizione di molti tecnici e ricercatori: perché il progresso è sempre legato alla conoscenza. E la ricerca rimane sempre lo strumento chiave. Adesso c’è la sfida della sostituzione del rame, ma anche su questo solo la ricerca potrà e dovrà dare gli strumenti adatti”. “Rame”, quindi, ma anche “Suolo”.
“Mantenere e potenziare la vita e la fertilità naturale del suolo, la sua stabilità, la sua capacita di ritenzione idrica e la sua biodiversità, prevenire e combattere l’impoverimento in sostanza organica, la compattazione e l’erosione del suolo e nutrire i vegetali soprattutto attraverso l’ecosistema del suolo”: suona così uno degli obiettivi cardini dell’agricoltura biologica, ribadito nel rinnovato Regolamento Europeo del 2018 (n. 848). Tematica - riporta Roberto Zanzotti, responsabile dell’Unità di Agricoltura Biologica della Fem - ripresa recentemente anche dalla Fao nella pubblicazione “Soil Organic Carbon, the hidden potential” , coerentemente al fatto che il 95% del cibo che mangiamo viene prodotto direttamente o indirettamente dal suolo. E le notizie non sono le più rosee, come dimostra con eloquenza la Mappa Globale del Carbonio Organico del Suolo, che illustra la quantità di riserve di carbonio nei primi 30 cm di suolo: i dati italiani (che oscillano fra una percentuale di carbonio organico dal 1 al 12,5%) si avvicinano molto di più alle percentuali del Sahara, che non a quelli della verde Scozia, rischiando desertificazione, erosione e compattamento del terreno.
Non stupisce quindi che “suolo” sia una parola finalmente sulla bocca di tutti coloro che si approcciano ad un’agricoltura eco-sostenibile, viticoltori compresi. E che la ricerca sperimentale delle diverse gestioni in vigna (convenzionale/integrata, biologica, biodinamica e biodinamica con sovescio) della Fondazione Mach sia continuata negli anni per trovare le conduzione migliore affinché questa risorsa non rinnovabile sia mantenuta integra il più possibile. Ma cosa rappresenta il carbonio organico? È la componente principale della materia organica del suolo e ne decreta la salute e fertilità, aiutando l’infiltrazione e la ritenzione idrica e rappresentando, inoltre, se correttamente gestito, un ottimo compensatore del rapido aumento di anidride carbonica nell’atmosfera: il suolo terrestre contiene 680 miliardi di tonnellate di carbonio, il doppio di quello presente in atmosfera. La biodiversità del suolo - combinata col carbonio - svolge un altro ruolo cruciale sulla fertilità e sulla resilienza ai cambiamenti climatici: le comunità di organismi determinano la direzione e l’intensità dei flussi di carbonio tra atmosfera e suolo, creando una rete fragilissima di interazioni che pratiche colturali come la monocoltura, la lavorazione intensiva del suolo e input chimici possono degradare facilmente. Così, ad esempio, negli ultimi 30 anni, il contenuto medio di sostanza organica nei vigneti trentini è diminuito di 0,6 punti percentuali.
Da una parte quindi la misurazione di artropodi, lombrichi, e micorizze, che aiutano rispettivamente la biodegradazione dei vegetali, l’aerazione del terreno e la superficie di terreno esplorabile dalle radici (analisi presentata dal dottor Marco Ippolito), dall’altra il calcolo della qualità della sostanza organica che facilità il sequestro del carbonio organico - labile e stabile, a seconda del tipo di materiale, semplice o complesso, che si biodegrada nel terreno (analisi presentata dalla dottoressa Raffaella Morelli). I risultati sono abbastanza conformi. Nel caso della biodiversità nel suolo le gestioni risultano migliori per il biologico e il biodinamico, seguite con buoni risultati dall’integrato e dal biodinamico con sovescio. Nel secondo studio il biodinamico con sovescio (che rappresenta l’unico input fertilizzante) si conferma come l’approccio che con maggiore efficacia riesce a trattenere nel terreno il carbonio organico stabile, migliorandolo del 41% in 6 anni (rispetto al +35% dell’integrato).
Anche il rame gioca la sua parte: unico strumento di lotta ai patogeni in mano alla gestione agricola biologica, ha subito attacchi trasversali sia a livello istituzionale che produttivo, tanto da rischiare di essere eliminato dall’ultimo disciplinare biologico, su spinta dei Ministri dell’Agricoltura dell’Europa centro-settentrionale.
Che il rame non sia un tocca sana è noto a tutti: in primis a quei produttori che abbracciano la gestione biologica proprio per motivi legati alla sostenibilità ambientale (e della propria salute), affiancati dalla ricerca sperimentale agricola, che ha come obiettivo quello di trovare soluzioni pratiche ai problemi che i produttori pongono. Ma i livelli di attenzione (e quasi demonizzazione) che ha subito questo principio attivo non ha eguali nella storia della ricerca: nessun elemento è (purtroppo) mai stato studiato tanto (solo o associato ad altri composti), ma questa meticolosità, oggi, può diventare molto preziosa, nonostante lo stato dell’arte attuale non faccia ancora intravedere la luce in fondo al tunnel.
Cambiando la prospettiva storica, infatti, ci si rende conto dei passi da gigante che sono stati fatti negli ultimi 20 anni. “Quando nel 2000 si dovette votare a Bruxelles per limitare l’uso del rame a 8 chili per ettaro all’anno - ha ricordato la dottoressa Cristina Micheloni, presidente AIAB Friuli Venezia Giulia - l’uso che effettivamente le aziende ne facevano era di 20-25 chili ad ettaro. Oggi, le sperimentazioni che l’Istituto San Michele all’Adige fa in campo, comparano dosaggi a trattamento che vanno dai 10 grammi ai 40 grammi per ettolitro per riuscire a stare entro i 4 chili per ettaro all’anno. Un risultato impensabile che porta a guardare al futuro con ottimismo”.
Un futuro prossimo limitato a 7 anni, però, finestra temporale che deve dare modo alla ricerca di trovare valide alternative, perché è probabile che a quel punto il rame possa davvero essere tolto da fungicidi ammessi. Ma come? “Continuando la sperimentazione verso la sua riduzione nell’uso, misurandone gli impatti negativi reali, trovando alternative parziali o totali, ma anche continuando a raccogliere dati seri - ha aggiunto Micheloni - come fanno diversi progetti nazionali ed europei. Tenendo però anche conto di alcuni fattori sottovalutati: innanzitutto che molta conoscenza non viene utilizzata per motivi burocratici o semplicemente di tempo; che ogni viticoltore attento è un ricercatore e può contribuire positivamente ad aumentare la conoscenza in campo; che dobbiamo smetterla di pensare di trovare “la” soluzione; ed eventualmente di riconsiderare la vecchia assistenza tecnica indipendente”.
In campo l’attenzione su peronospora e oidio è ancora altissima - affiancate dalla flavescenza dorata - e ogni anno si intuiscono nuove risposte e si aggiungono nuovi dubbi, legati alle diverse annate meteorologiche e all’andamento delle diverse patologie. Secondo l’annuale report della ricercatrice Luisa Mattedi, il dosaggio di rame di 20 o 40 grammi a ettolitro non porta a significative differenze di efficacia (e ci si può spingere anche verso i 10 grammi/ettolitro, soprattutto in zone a pressione patogena bassa e a fine stagione), mentre i coadiuvanti al rame, come gli estratti di lieviti o di buccia d’arancia, si sono di nuovo rivelati validi aiuti (anche se non sufficienti alternative). Anche la tempistica dei trattamenti si dimostrata di nuovo fondamentale: secondo l’analisi dei tecnici Roberto Lucin e Marino Gobber, l’oidio è particolarmente critico alla ripresa vegetativa a 5-6 foglie, a fine fioritura-allegagione e a pre-chiusura del grappolo, mentre per la peronospora è l’infezione secondaria quella più pericolosa (la cui tempistica cambia di anno in anno a seconda delle condizioni climatiche, in particolare associata a bagnature notturne e frequenti). Sempre secondo Lucin e Gobber, negli anni 2016, 2017 e 2018, la quantità di rame usata nelle aziende a conduzione integrata si è rivelata sempre significativamente maggiore rispetto alle aziende bio (tra i 10 - 7,2 e 7,6 chilogrammi per ettaro per l’integrata e i circa 6,2 - 4,5 e 6 chilogrammi per ettaro per il bio, con quest’ultimo che ha toccato i 3,2 - 3,5 chilogrammi per ettaro nel 2019).
Misurazioni a parte, nella conduzione quotidiana del vigneto restano imbattibili la gestione del verde, effettuata regolarmente e per tempo, e la presenza costante in vigna: fattori che permettono non solo di creare un ambiente ostile ai patogeni, ma di migliorare notevolmente l’efficacia dei trattamenti, che devono essere modulati specificatamente a seconda della zona del vigneto, della pressione patogena, delle condizioni climatiche e del tipo di malattia che si vuole combattere (oidio e peronospora, ad esempio, hanno tempi e criticità diverse e vanno quindi trattate con modalità e tempistiche diverse). Si torna quindi a sottolineare l’importanza delle vecchie buone pratiche agricole, che necessitano di occhio attento e dell’uso oculato delle risorse disponibile, anche in natura: come la luce e il sole, che si sono (ri)scoperti fra i migliori fungicidi.
La gestione biologica ha silenziosamente dettato l’agenda tematica degli ultimi anni, poiché ha anche - tramite la ricerca - dimostrato, che investendo tempo in campo, si può fare agricoltura eco-sostenibile (nell’accezione più autentica del termine) sfruttando maggiormente le risorse naturali e diminuendo l’uso della semplificazione fitosanitaria. “Andiamo avanti piano piano - ha concluso Mattedi - ma con coraggio. Perché il biologico ha bisogno di coraggio, soprattutto ora, che va di moda”.

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