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“ENO-ARCHEOLOGIA”

Gli etruschi e il vino, addomesticando la vite, costruirono un ponte tra passato e presente

Le ricerche dell’Università di Siena sui vitigni autoctoni dell’azienda San Gregorio a Chiusi, e le etichette dedicate con il Ministero della Cultura

Protagonista di miti e tavole imbandite, il vino ha nel mondo antico un incredibile valore simbolico, sia come espressione di uno status, che come oggetto rituale. E quando si pensa agli etruschi, una delle immagini più iconiche che vengono alla mente sono quelle che li raffigurano intenti a bere del vino nella convivialità: del resto, dall’arte, e dall’ebbrezza, del dio greco Dioniso, gli etruschi avevano imparato a sfruttare al meglio il dono della viticoltura, divenendo grandi produttori e consumatori di vino. Recenti studi riguardanti i vitigni coltivati in epoca etrusca, avviati, con i progetti “Vinum” e “ArcheoVino”, nel 2004, dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, coinvolgendo archeologi, esperti di botanica, archeobotanica e biologia molecolare, hanno rivelato come il patrimonio vitivinicolo etrusco rappresenti un ponte tra passato e presente. La sorprendente similarità genetica tra alcune viti selvatiche e vitigni attuali, evidenzia, infatti, processi di domesticazione che risalgono alle prime fasi di vita dei siti archeologici dell’antica Etruria esaminati nelle ricerche. Le analisi del germoplasma hanno permesso di avanzare l’ipotesi che varietà come il Sangiovese e il Ciliegiolo siano penetrate in area etrusca in tempi antich. Ad illustrarli, il professor Andrea Zifferero, docente di Etruscologia e Antichità Italiche e di Musealizzazione e Gestione del Patrimonio Archeologico del Dipartimento e direttore delle Collezioni di Archeologia e d’Arte del Sistema Museale di Ateneo (Simus), spiegando che particolare attenzione è stata dedicata ai vitigni autoctoni dell’azienda San Gregorio a Chiusi, che ha prodotto tre vini, un Toscana Rosso Igt Canaiolo 2022, un Toscana Rosso Igt Ciliegiolo 2022 e il Toscana Bianco Igt Le Cerrete 2023, da Grechetto e Malvasia Bianca affinati in anfora come in epoca antica, raffiguranti in etichetta uno dei più importanti cicli pittorici etruschi che si trova nella Tomba della Scimmia, in un progetto con il Ministero della Cultura, e facendosi immagine del patrimonio culturale del proprio territorio di cui il vino è il “medium” per raccontarlo al mondo.
Grazie al suolo alluvionale molto fertile alle vie di comunicazione naturali, sia di terra che fluviali, la città di Chiusi-Clevsin, nella Valdichiana Senese, in Toscana, fu una delle più importanti città dell’Etruria, come testimoniano il Museo Nazionale Etrusco, le Tombe della Scimmia, -del Colle, del Leone e della Pellegrina, e la raccolta epigrafica al Museo Civico “La Città Sotterranea”. Il vertice della sua potenza si colloca alla fine del VI secolo a.C. quando, sotto la guida del Re Porsenna, assediò e controllò per un breve periodo Roma, della quale nell’89 a.C., con l’estensione ai suoi abitanti della cittadinanza romana, entrerà pienamente nell’orbita politica.
Chi voglia approfondire le tappe della domesticazione della specie deve partire dalle varietà di origine antica che ancora oggi sopravvivono nell’ambiente circostante i siti archeologici e che sono ancora rintracciabili nelle piante di vite selvatica (Vitis vinifera ssp. sylvestris). Il presupposto è che le popolazioni attuali di vite selvatica, presenti intorno ai siti di età etrusca e romana, siano le discendenti di antichi vigneti, sopravvissuti in forma rinselvatichita. L’esperienza dei progetti “Vinum” e “ArcheoVino”, promossi dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, hanno creato una collaborazione positiva con discipline come la botanica, l’archeobotanica e la biologia molecolare, investigando le popolazioni di vite selvatica in prossimità dei siti archeologici, in un vasto areale compreso tra la Toscana e il Lazio settentrionale. Gli studi hanno stabilito una similarità genetica tra diverse viti selvatiche e alcuni vitigni attuali, mettendo in luce episodi di domesticazione risalenti alle fasi di vita dei siti contigui. Le analisi del germoplasma hanno, inoltre, permesso di ipotizzare l’ingresso in area etrusca di varietà (vitigni come il Sangiovese e il Ciliegiolo), create dalla viticoltura magno-greca e siceliota, attraverso contatti commerciali avvenuti a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C.; tali contatti sono alla base del successivo sviluppo della vitivinicoltura vulcente nella Valle dell’Albegna (Grosseto). I risultati ottenuti dalla ricerca biomolecolare hanno consentito di piantumare un vigneto sperimentale che applica la regola etrusca dei filari di vite maritata ad aceri, realizzato con varietà antiche recuperate nell’ambiente, in prossimità del sito etrusco di Ghiaccio Forte a Scansano.
San Gregorio, che dal 1978, con la conduzione di Pierangela Lucioli e Sandro Rinaldini, e del coo Michele Monica, porta avanti una filosofia vitivinicola centenaria a Chiusi, ha voluto approfondire le radici del territorio con un progetto in convezione con il Ministero della Cultura, grazie al quale i vini dell’azienda si fanno immagine della storia del territorio, creando tre etichette per tre vini raffiguranti il celebre ciclo pittorico della Tomba della Scimmia. Vini prodotti da vitigni autoctoni quali il Canaiolo e il Ciliegiolo, vinificati e affinati in cemento, e un vino bianco prodotto con Grechetto e Malvasia Bianca, ma con una vinificazione e affinamento in anfora, tecniche utilizzate in epoca antica sempre per portare la forte attenzione al territorio ed alla sua storia.
L’obbiettivo del progetto non è solo legare il patrimonio storico-culturale all’identità vitivinicola di un territorio unico, ma anche promuovere sempre di più un comportamento sostenibile e rispettoso dell’ambiente in modo da preservare le similarità genetiche delle viti presenti. Allo stesso tempo le etichette prodotte trasmettono la filosofia aziendale e la forte attenzione a quello che riguarda la coesione tra storia e territorio, valorizzando le varietà autoctone attraverso l’integrazione di conoscenze archeologiche e moderne pratiche enologiche.

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