L’estate sta finendo, e con lei, come ogni anno, rimarranno sullo sfondo, tra le tante cose, le polemiche, accesissime, sul tema delle concessioni delle spiagge, che fanno parte del patrimonio pubblico, ai gestori degli stabilimenti balneari, che, secondo molti, pagano troppo poco per quello che guadagnano utilizzando anche una risorsa che è dello Stato, e quindi della collettività, oltre a strutture, materiali, e servizi di loro proprietà. Ma proprio, ieri, il Governo, dopo le trattative con l’Unione Europea, ha prorogato l’attuale regime di concessione a settembre 2027 - inserito nel Decreto infrazioni approvato dal CdM - con le gare di appalto che dovranno essere bandite entro il giugno precedente e chi subentra dovrà pagare un indennizzo a chi lascia e assicurare la continuità occupazionale dei lavoratori.
Ma se l’estate è il tempo soprattutto della vacanza al mare, non di meno città d’arte e piccoli borghi, spesso legati al vino e all’enoturismo, sono presi ugualmente d’assalto. E, soprattutto dopo la pandemia, le loro “spiagge urbane”, per fare un parallelismo, ovvero piazze, vie, vicoli, larghi e corsi vari, sono occupate non da ombrelloni e lettini, ma da tavoli e sedie di bar e ristoranti che, così, aumentano di molto la loro superficie operativa, e di conseguenza gli incassi, ovviamente, pagando, in molti casi, poco o nulla, relativamente all’occupazione del suolo pubblico (che, peraltro, ormai in molti luoghi, grazie a spazi coperti come loggiati o portici, e ad un clima sempre più caldo, anche in inverno, si protrae ben oltre i mesi estivi, ndr) rispetto al guadagno che ne viene ricavato.
Un tema su cui riflettere, senza dubbio, e delicato, che chiama in campo vari fattori, dal diritto di fare impresa degli esercenti, al diritto della cittadinanza, in nome della quale le amministrazioni gestiscono anche il suolo pubblico, di poterne usufruire o di trarne un giusto guadagno economico da reinvestire, per esempio, nella manutenzione del territorio, delle strade e del decoro urbano. Ma anche la sproporzione enorme tra i costi degli affitti pagati ai privati per i fondi commerciali, e quelli riconosciuti alle pubbliche amministrazioni. Ed a chi obietta che i costi, per chi fa ristorazione, sono aumentati a dismisura, tra bollette, materie prime e così via, si può rispondere che questo vale per ogni tipo di attività, dagli uffici, ai negozi, alle botteghe artigiane e non solo.
Ma quanto si spende per occupare una porzione di suolo pubblico dove fare ristorazione? Una risposta univoca non esiste. L’analisi WineNews ha preso in considerazione alcuni dei centri urbani d’Italia più legati al vino. E così, viene fuori che, nei centri storici, generalmente le aree più “pregiate”, si va dai 120 euro al metro quadrato di Orvieto, in Umbria, agli 8 euro al metro quadrato di San Gimignano, in Toscana, per esempio. All’anno. Il prezzo di una manciata di cocktail o di qualche caffè, se si considerano i prezzi con la maggiorazione per il servizio al tavolo. Nel mezzo ci sono le tariffe più disparate di tanti altri Comuni, legati al mondo del vino e non solo, e i loro coefficienti moltiplicatori in base alle tipologia di occupazione e/o attività svolta. Che l’esercente sia un ristorante o un’edicola per certe amministrazioni non fa differenza, per altre invece la diversità è sostanziale. Le concessioni per il suolo pubblico agli esercizi nei Comuni italiani sono una selva oscura per cui non è necessario essere Dante Alighieri per perdersi. Ma mentre il poeta fiorentino, per oltrepassare l’Inferno, poteva avvalersi della valida guida di Virgilio, lo stesso non si può dire degli sportelli digitali sull’amministrazione trasparente dei siti web di certi municipi. E come detto, il tema delle concessioni in Italia infiamma il dibattito da tempo e il clima è simile a quello di un girone dantesco. Da più parti sono nate polemiche perché, a detta di molti, chi ha in concessione le spiagge, che sono pubbliche, pagherebbe troppo poco rispetto a quello che guadagna. E, con i dovuti distinguo, non in tutti i Comuni e nello stesso modo, ovviamente, il discorso si potrebbe fare su ristoranti e bar, dove, peraltro, molta burocrazia è stata alleggerita, a livello, normativo dopo il Covid.
Con ordine: la concessione del suolo pubblico ai privati in Italia, dal 1 gennaio 2021, è regolamentata dal Canone Unico Patrimoniale. Si tratta di una somma dovuta a Comuni, Province e Città Metropolitane per poter occupare legalmente le aree di proprietà del demanio. Il documento si integra con la Legge di Bilancio del 2020 che ha fissato le tariffe standard annue e giornaliere al metro quadro in base al numero di residenti del Comune: prezzi che possono essere comunque modificati dagli enti locali, attraverso dei coefficienti moltiplicatori, a patto che non si riduca il gettito garantito da tasse, imposte e canoni precedenti al Cup. Per esempio: una città di oltre 500.000 abitanti ha una tariffa base al metro quadrato di 70 euro, mentre quella di un piccolo borgo sotto le 10.000 persone ha un costo imposto al metri quadrati di 30 euro. A questi prezzi di listino nazionali, le amministrazioni locali possono aggiungere delle variabili in ragione dell’importanza della zona in cui si va a chiedere la concessione: banalmente la richiesta di occupazione di suolo pubblico per un dehor in centro storico costa di più che mettere qualche tavolino sul marciapiede di una strada di periferia. Così, quasi tutti i Comuni (ma, clamorosamente, non tutti) hanno suddiviso il proprio territorio in “categorie”, dalla zona più “in” a quella meno in voga, applicando per ogni categoria un moltiplicatore diverso. Altri, a questo coefficiente geografico, hanno aggiunto anche un moltiplicatore “economico” in base all’attività che su quel suolo pubblico viene svolta. I municipi più estrosi allegano a questa formula anche una variabile “sociale” sulla base della tipologia di occupazione. Il termine “formula” non è casuale, per calcolare il Cup annuale occorre svolgere veramente un’espressione matematica: la tariffa base (stabilita dal regolamento nazionale) x il coefficiente valutazione economica (che ogni Comune applica) x il coefficiente territoriale (le zone divise in categorie) x i metri quadrati richiesti. A questo calcolo poi ogni amministrazione decide se aggiungere o meno altre variabili, sia di maggiorazione che di riduzione.
Il punto è che ci sono Comuni che fanno pagare tanto (pochi) e Comuni che fanno pagare poco (tanti). Dai dati che abbiamo raccolto, avere in concessione 30 metri quadrati di dehor chiuso in Zona Prima categoria a Barolo costa 2.400 euro all’anno, ad Alba 2.300 euro, a Negrar di Valpolicella oltre 1.400 euro, a Montalcino poco più di 800 euro, a Gaiole in Chianti 1.500 euro, a Orvieto 3.600 euro. C’è poi il caso del Comune di Castagneto Carducci, la cui Zona di Prima Categoria è Bolgheri (33,6 euro per metri quadrati come tariffa da applicare secondo il regolamento comunale) e per cui è prevista una normativa particolare: nel caso in cui le occupazioni di suolo pubblico effettuate all’esterno di pubblici esercizi siano superiori alla superficie interna destinata a somministrazione e/o vendita, l’occupazione esterna viene maggiorata del 100% per la parte eccedente la superficie interna. Ovvero, se la superficie interna del tuo locale è di 30 metri quadrati e tu chiedi 50 metri quadrati di spazio fuori, su quei 20 metri quadrati di avanzo paghi il doppio della tariffa al metri quadrati applicata dal Comune: 30 metri quadrati li paghi a 33,6 euro al metro quadrato a cui aggiungi 20 metri quadrati pagati al 67,2 euro al metro quadrato. La misura serve per calmierare il mercato comunale ed evitare che piccoli locali, invece che allargarsi internamente sul costoso suolo privato, vadano ad espandersi più economicamente affittando a basso prezzo il suolo pubblico della collettività. A Castagneto Carducci questo avviene, ma, da tante altre parti, no (come, ad esempio, e solo per fare un esempio, e rimanendo in Toscana, nella vicina terra del Brunello di Montalcino).
I Comuni legati al mondo del vino, e il relativo turismo, sono tendenzialmente piccoli borghi con meno di 10.000 abitanti. Il confronto sul costo del suolo pubblico nei grandi centri è impietoso, ma, comunque, proporzionato. A Milano, 50 metri quadrati, nel centrale Corso Garibaldi, costano 19.407 euro all’anno, a Roma, nella “zona speciale” del centro, lo stesso spazio viene 14.346 euro, a Torino, 13.500. C’è poi l’economica Firenze, dove 50 metri quadrati di suolo pubblico, in centro storico, costano 3.000 euro all’anno, e Bardolino (6.782 abitanti in provincia di Verona e terra di vino Doc) dove per la stessa concessione il Comune chiede 3.624 euro. Ci sono zone d’Italia dove ristoranti e bar riescono ad ammortizzare l’affitto del suolo esterno con relativa facilità, mentre da altre parti l’investimento è meno economico. Il regolamento nazionale fissa dei criteri, dopodichè i Comuni hanno molta libertà di manovra. Vi sono ragioni di bilancio, di spazio fisico, di decoro urbano e anche di equilibri politici.
Ma gli esercenti che per la concessione del suolo pubblico spendono poco, pagano gli stessi tributi locali di quelli che, invece, spendono tanto? E i Comuni del turismo enogastronomico non rischiano, in molti casi, di perdere orgoglio e identità inseguendo i visitatori, spesso anche (lecitamente, ben inteso) andando verso una “standardizzazione” di un’offerta gastronomica che qualcuno ha provocatoriamente definito “la ristorazione dei taglieri”, che magari è più semplice da gestire e garantisce profitti più immediati agli esercenti ma, tra le altre cose, impoverisce il patrimonio culinario che dovrebbe essere un punto di forza, nel lungo periodo, peraltro anche talvolta a discapito dei propri residenti, senza considerare, in alcuni casi, i disagi di una “movida” eccessiva e concentrata in pochi mesi, a cui a volte fa da contraltare un inverno in cui molti tengono chiuso, tra ferie e “lavori di ristrutturazione” lunghi, al punto che diventa complicato trovare un bar aperto per prendere un semplice caffè? Con il rischio di perdere quella funzione sociale di “pubblico esercizio”, di luogo di vita e di aggregazione quotidiana, che un locale dovrebbe rappresentare anche per chi in quei territori vive e lavora, anche fuori dal settore del turismo, tutto l’anno.
In definitiva, forse, il problema non è solo quello degli stabilimenti balneari che prendono in concessione suolo pubblico dallo Stato a poco prezzo, ma anche di tantissimi Comuni da Nord a Sud, da Est ad Ovest dello Stivale, che fanno lo stesso con gli spazi comuni. Di certo c’è che se per la legge italiana tutti i beni demaniali devono essere gestiti secondo i principi della massima economicità e della massima produttività, la competenza in ordine a questa gestione spetta poi alla Pubblica Amministrazione, ma sempre e in ogni caso, nell’interesse superiore, supremo ed esclusivo del cittadino. Che vuol dire mantenere i beni pubblici di cui si usufruisce a prezzi a volte irrisori con un certo decoro per chi vi abita, ed offrire servizi altrettanto decorosi a chi vi viene in visita.
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