Oggi più che mai, in un periodo in cui le divisioni sono la regola, parlare di vino e spiritualità, di quel calice che è convivialità e simbolo che unisce tante culture, popoli e anche religioni diverse, non è un esercizio banale. Tanto più se avviene in “luogo dell’anima” del vino italiano: il Convento della Santissima Annunciata, a Rovato, antico complesso fondato dall’Ordine dei Servi di Maria nel 1449 sul Monte Orfano, in Franciacorta, che come molti monasteri che hanno salvato e trasmesso la cultura millenaria europea, è espressione di valori spesso dimenticati: l’accoglienza, l’ascolto, lo zelo buono, il piacere dell’opera compiuta, il silenzio per meditare e pregare, il rispetto per la natura. Un luogo da sempre punto di riferimento culturale e spirituale per credenti e laici che si riconoscono nel desiderio di un dialogo ricco di umanità, affidato dai Frati, che, in questi giorni, hanno ospitato, oltre a teologi e filosofi, anche colleghi di altri luoghi in giro per l’Italia, carichi di bellezza e spiritualità ma anche di paesaggi, dove nascono grandi vini, anche incontri, alla Fondazione Vittorio e Mariella Moretti, per aprire questi luoghi dell’anima, in tutti i sensi, ai visitatori ed enoappassionati, e mantenere vivo il loro spirito, sempre sorretti in questo sogno dall’indimenticabile giornalista e scrittore Gianni Brera, dal maestro della critica enogastronomica italiana Luigi Veronelli e dal fondatore del movimento mondiale Slow Food Carlo Petrini.
Il Convento è un luogo dell’anima, dove, dal 1991, la griffe del Gruppo Terra Moretti, Bellavista, si prende cura della vigna più antica del Franciacorta, poco più di cinque ettari, dove si produce vino da tempi immemorabili. Il frutto che Bellavista elabora è uno Chardonnay in purezza “Convento della Santissima Annunciata”, che ne racchiude la splendida storia nelle sue note organolettiche, ed assicura risorse importanti al Convento, dove regna una vigna storica (con attestazione dall’anno Mille) di particolare pregio. Uno spazio unico, tra bellezza e memoria, che Bellavista, poi, dagli Anni Novanta del Novecento, ha ulteriormente valorizzato, investendo in accoglienza e ospitalità, senza snaturare assolutamente questo luogo, ancorandolo al territorio sempre più alla Franciacorta. Un posto che lo stesso Carlo Petrini ha descritto come “Un luogo di comunità, uno spazio in cui il bello e il buono coincidano. Un bene comune restituito al territorio attraverso la visione e a generosità di chi se ne prende cura”, e diventerà lo scenario dell’edizione invernale di “Vini d’Abbazia”, come fortemente voluto da Vittorio Moretti, founder Bellavista in Franciacorta (una delle più prestigiose griffe delle bollicine e dell’enologia italiana). Come raccontato oggi, 4 ottobre, in un una sorta di preview con l’evento “Come in famiglia” by Fondazione Vittorio e Mariella Moretti, una giornata aperta - dalle ore 8 di mattina a mezzanotte - tra percorsi in natura, musica, laboratori, letture e incontri. Come quello con la storia e la cultura del vino custodita nei secoli, appunto, dalle Abbazie, come ha raccontato uno dei massimi “umanisti del vino” come il professor Attilio Scienza, in un intervento che riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Focus - I vini di abbazia, l’intervento del professor Attilio Scienza Convento della Santissima Annunciata, in Franciacorta
Il monachesimo occidentale, una rivoluzione pacifica.
La citazione S.Paolo: debat in spe qui arat arare, (chi ara deve arare nella speranza) può a ragione essere assunta come il pensiero ispiratore del monachesimo occidentale. Dopo l’Editto di Milano nel 313 il monachesimo conosce un impetuoso sviluppo che trova nella Regola di S. Benedetto del 529 la sua definitiva organizzazione. Dai romani l’agricoltura passa ai monasteri, in particolare a quelli benedettini,certosini e cistercensi che bonificano i territori che l’abbandono conseguente alla caduta dell’Impero romano avevano trasformato in paludi malsane ,superando le numerose difficoltà rappresentate dalle invasioni barbariche,dei saraceni,dei longobardi ariani e nell’Italia meridionale ,degli arabi. Tra il VI ed il VII sec. la diffusione del monachesimo subisce una battuta d’arresto per l’avanzare degli eserciti mussulmani e dei saraceni in Europa e solo con la loro sconfitta ad opera di Carlo Magno ,i cistercensi poterono riprendere la loro opera di evangelizzazione. Lo schema tripartito della società medievale, accorda ai monaci un posto di rilievo a fianco dei sovrani e dei contadini. Sono loro a pregare per i loro contemporanei, ma se la preghiera era la loro missione, essa si inseriva in un orizzonte più ampio aperto ad altri settori che riguardavano la vita pubblica ed economica europea. Carlo Magno e soprattutto suo figlio Luigi il Pio hanno utilizzato i monasteri come fattori di romanizzazione ed unificazione per l’Impero di Occidente, imponendo la regola romana di S. Benedetto che diviene dal IX sec. l’unica regola ammessa, anche nei conventi degli Agostiniani e di S. Colombano. Il rapporto tra il potere temporale spirituale era molto stretto e si esercitava con la nomina di un membro della famiglia del nobile del luogo dove sorgeva il convento, ad abate. A partire dall’epoca carolingia i monasteri realizzano vaste reti di fraternità attraverso lo sviluppo della nozione di memoria che unisce spiritualmente i monaci tra loro e con i fratelli che li hanno preceduti.
Il monachesimo orientale
Nell’Italia meridionale si sviluppa tra il IX e XI sec. un monachesimo bizantino per effetto delle migrazioni di monaci dalle regioni orientali del Mediterraneo. La cause sono diverse ma tutte riconducibili alla pressione degli arabi che avevano occupato la Sicilia nel 831. La Calabria viene occupata dai Bizantini, dove si instaura la regola di S. Nilo e di S. Basilio, con circa 300 monasteri. Con l’ arrivo dei Normanni, questi conventi passano in Calabria ed i Sicilia, ai benedettini. Il ruolo dei basiliani sullo sviluppo dell’agricoltura calabrese, è stato molto simile a quello dei benedettini in altre zone d’Italia, anche se ignorato dalla storiografia ufficiale per le vicende che hanno accompagnato la contrapposizione tra la chiesa di Occidente e la chiesa d’Oriente. A questi monaci è attribuita l’introduzione della coltura del riso, dell’allevamento del baco da seta, della canna da zucchero, del cotone e della conservazione del grande patrimonio varietale ereditato dalla Magna Grecia, salvandolo dalla distruzione operata dagli arabi. Va ricordata la valorizzazione del Mantonico (da mantonos, profeta, colui che prevede il futuro) il cui vino era utilizzato nella celebrazione della Messa ortodossa. A differenza del monachesimo benedettino, la regola di S. Basilio manifestava una forte diffidenza nei confronti del consumo di vino da parte dei confratelli, che veniva consigliato solo nel caso di una salute cagionevole e per i confratelli infermi.
Il vino dei monasteri
Poche piante hanno come la vite una funzione simbolica legata all’uso rituale, sacrale del vino che ha accompagnato per millenni la vita dell’uomo. Nella grande diversità culturale che la storia ha costruito attraverso le diverse influenze dell’ambiente fisico,biologico e umano,la cultura in senso generale,sia nelle manifestazioni sociali che in quelle quotidiane, è rimasta profondamente legata a questa cultura minore, che si esprime in innumerevoli tradizioni alimentari,con infinite varianti, diverse da luogo a luogo. La storia del vino è inseparabile dalla storia dell’umanità. Il vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo, è l’essenza di una cultura millenaria. Il vino appartiene allo stesso tempo al sacro e al profano. È un valore della civiltà e criterio della qualità della vita. Costituisce un bene culturale ed è un fattore della vita sociale. È una condizione dello sviluppo economico, del progresso tecnologico e scientifico. Il vino prodotto dalle abbazie non serviva solo per la celebrazione della Messa ma riforniva le mense dei ricchi (il jus de la treille). La vite comunque assumeva un significato profondo in quanto metafora evangelica del Regno dei Cieli “io sono la vite e voi i tralci” del Vangelo di Giovanni. I monaci curavano la vigna con dedizione spirituale ed i vini raggiungevano spesso una buona qualità. I monasteri diventano così i pionieri ed i continuatori della viticoltura occidentale, attraverso la scelte della varietà più qualitative ( es Pinot nero),dei luoghi più vocati alla qualità (la individuazione dei cru o dei climat borgognoni ), delle tecniche di vinificazione con la torchiatura a grappolo intero in alternativa della pigiatura con i piedi, che Carlo Magno nel apitulare de villis aveva proibito, per favorire l’uso dei torchi dei conventi attraverso i quali poteva controllare la produzione di uva dei contadini per l’ applicazione di una tassa. Spesso il pagamento avveniva attraverso la cessione di una decima di mosto. La fermentazione in piccole botti consentiva di valutare la qualità del vino dei vari conferitori e di risalire così alla vocazione dei diversi vigneti. Venivano così stilate le prime classificazioni dei vigneti il cui nome era utilizzato per definire il prezzo del vino. La stesura della parte relativa alla viti ed al vino del Capitulare de villis di Carlo Magno, è attribuita a Alcino ( 735-804), che è considerato il primo enologo inglese. Nella comunità del convento la produzione e la conservazione del vino era affidata al previsor vinearum o prepositus che guidava i patres vinearum. Nell’abbazia di Fleury era chiamato per metonimia Fratello Bacco, mentre al cellararius de vino era demandato il compito di fornire il vino alla mensa, all’infermeria, alla liturgia, ai pellegrini ed ai poveri. Dormiva in una piccola stanza vicino alla cantina. La regola di S. Benedetto al capitolo 40 fissava in una èmine (0,470 l/giorno) le quantità di vino che poteva essere consumata dai monaci. Nel XII sec. la regola dei cistercensi autorizzava un aumento della èmina. Si stimava nel X sec. un consumo annuale di un monaco di 400 litri di vino. Si producevano di norma vini bianchi soprattutto dopo il miracolo eucaristico di Bolsena del 1263 per il quale nella celebrazione della Messa venne proibito il vino rosso. Il maggior consumo di vino era utilizzato per la comunione dei fedeli, in quanto questa avveniva sotto le due specie del pane e del vino. Nelle prime comunità cristiane al comunicando veniva dato un pezzo di pane ed un sorso di vino e solo più tardi, nel VI sec questa modalità venne sostituita dalla comunione per intinzione e quindi l’impiego del vino nella celebrazione venne notevolmente ridotto. Nel X sec. in età carolingia, si assiste ad un fenomeno di “capillarizzazione” delle istituzioni monastiche e di conseguenza alla diffusione di cenobi che praticavano la viticoltura. Nel 533, solo dopo 4 anni dalla formulazione della Regola di S. Benedetto, moriva a Reims, S. Remigio (St. Remy), nel cui testamento appare per la prima volta nella storia del monachesimo, il lascito di un vigneto in Champagne. Per questo è chiamato il vescovo vignaiolo. Nella Francia meridionale nel Medioevo si contavano 1.000 monasteri, 250 abbazie cistercensi e 400 benedettine. La guerra rustica dell’agosto del 1525 provocò la distruzione di circa 400 monasteri in Germania e Francia e la contrazione delle proprietà conventuali venne accelerata dalle guerre di religione conseguenti alla riforma luterana. Si separarono i conventi fedeli a Roma (i Benedettini) da quelli che si riferivano a Lutero (gli Agostiniani). Attualmente in Francia ci sono solo 7 monasteri che possiedono vigneti e solo 3 producono il loro vino. In Italia la soluzione è analoga. I monasteri erano soprattutto veri e propri centri di cultura dell’epoca. Negli scriptoria i monaci copiavano i libri degli antichi, li traducevano in volgare, trasmettendo così l’eredità culturale greco-romana dei Georgici latini. Custodivano il patrimonio librario nelle loro immense biblioteche. Le strette relazioni tra le comunità conventuali in molte zone viticole europee avevano creato una fitta rete di conoscenze tecniche e scientifiche. Ne sono la prova i rapporti di parentela genetica tra molti vitigni che dimostrano la loro intensa circolazione nelle zone viticole europee. Le numerose discendenze dell’Hunnisch/Gouais (sono circa i 70 vitigni dell’Europa continentale ed alpina che discendono da questo vitigno diffuso dalle comunità monastiche) ed i rapporti del Pinot nero con lo Syrah ed il Teroldego, sono la testimonianza degli stretti rapporti tra i conventi bavaresi e francesi con quelli del Tirolo meridionale. La produzione annuale di vino è un eccellente indicatore della successione cronologica degli eventi climatici per l’abitudine, da parte degli ordini monastici, di segnare la data di inizio della vendemmia, i prezzi correnti del vino e la qualità dell’uva. Un’altra fonte importante di informazioni è rappresentata dai documenti di proprietà e di coltivazione dei conventi ,che registravano la superficie annuale dei vigneti di pertinenza delle abbazie e la produzione di uva. Dall’analisi di questi dati si evince che nei cicli caldi, le superfici a vigneto si estendevano, mentre nei periodi freddi la coltivazione della vite si contraeva.
Monachesimo come metafora della rinascita
La vite si diffonde dopo la caduta dell’impero romano per effetto ancora una volta, come era capitato spesso nella sua storia, di un dio, di una religione ed il vino diventa un soggetto sociale della civiltà europea. La diffusione della coltura della vite nel Medioevo è un fenomeno iterativo, locale, per il bisogno di disporre di vino per il consumo alimentare in piccole comunità agricole, ma la crescente presenza di piccoli cenobi benedettini, trasforma la viticoltura in un fenomeno collettivo, fondamentale per l’economia di intere regioni dove la vite assume il ruolo di “coltura guida” ed i suoi prodotti non sono più solo destinati al consumo del convento, ma anche alla vendita. Questi rapporti tra le molte comunità di religiosi che si erano installati soprattutto lungo le grandi direttrici dei pellegrinaggio cristiano, in un Europa ancora senza confini, sono alla base non solo della diffusione della viticoltura in Europa ma anche di un nuovo modo di intendere la qualità di un vino. Gli antropologi chiamano “età dell’angoscia” quelle fasi del cammino della nostra civiltà contrassegnate da eventi drammatici che creano appunto stati di angoscia e costringono gli uomini a scelte ed atteggiamenti talvolta irrazionali. Questa metafora descrive molto bene il sentimento che ha segnato gli ultimi duemila anni della nostra storia. La prima età dell’angoscia coincide con la caduta dell’impero romano che fa rifugiare gli abitanti dell’Impero, nel cristianesimo. Per la necessità del vino nella celebrazione della Messa, si diffonde la coltivazione della vite in Europa e con lei rinascono le comunità agricole guidate dagli ordini monastici. A cavallo dell’anno 1000 si diffonde la fake news che il mondo stava per finire. In Europa il desiderio di espiazione dei peccati spinge i cristiani alla conquista del Santo Sepolcro attraverso le Crociate e nel pauperismo francescano. Anche il pellegrinaggio, che con Costantino era diventata una pratica di devozione cristiana, consistente nel recarsi presso i santuari per compiere atti religiosi a scopo votivo, diviene oggetto della penitenza. Le mete principali erano la Terra Santa e Roma, per pregare sulle tombe dei santi e dei martiri. La Via Francigena, istituita da Carlo Magno nel X sec. è la prima grande Via delle fede. Chiamata anche la via di monasteri, dopo avere lasciato l’Inghilterra attraversava l’Europa toccando i territori della viticoltura gallo-romana come la Champagne, l’Alsazia, la Borgogna per entrare in Italia attraverso la Valle d’Aosta. Dalla pianura padana superato l’ Appennino, giungeva in Toscana e Lazio dove gli attuali vigneti di Lucca, S. Gimignano, Viterbo, Montefiascone sono il retaggio di quelli che erano stati installati dalle comunità conventuali, per arrivare a Roma. Aveva in Bobbio il suo punto focale (nel suo monastero di S. Colombano compare per la prima volta la parola Europa) e ricalcava sostanzialmente il tracciato della via Peutingeriana, toccando una fitta rete di monasteri e di strutture ospedaliere. Le Vernacce sono davvero i vini delle “vie della fede” e ogni località lungo il suo percorso ne elencava una, anche se i vitigni che erano alla base della sua produzione, erano tutti diversi. Alla viticoltura ecclesiastica di epoca carolingia, a partire dal IX secolo, soprattutto in area padana si affianca una viticoltura signorile,nata per imitazione,ma che ben presto si trasforma in fonte di reddito economico. La diffusione dl vigneto era soprattutto nelle aree suburbane delle città che da queste irradiavano ,ma sempre a poca distanza dalle abitazioni per evitare i frequenti furti di uva. Verso l’anno Mille si sviluppa una viticoltura borghese,come effetto di una classe mercantile ed artigianale che dispone di capitali da investire nelle campagne ,per effetto dell’eccezionale incremento demografico in molte città europee. Per antica consuetudine greca e latina,l’uva doveva essere pigiata nel vigneto (nullus habeat vel faciat mustum qui non habeat propriam vineam), per cui lungo le strade erano anche le cantine e spesso anche i luoghi di smercio, anche se questo previlegio era riservato ai conventi, mentre le osterie di norma non potevano trovarsi in un raggio maggiore di due miglia dalle città per evitare che non pagassero il dazio comunale. La prima crisi del monachesimo italiano che inizia precocemente, nel XI sec. è il risultato dello sviluppo delle città marinare (Venezia e Genova in primis) che spostano gli interessi economici delle città dalle produzioni agricole a quelle commerciali. Per il vino coincide con l’arrivo dei vini dal Mediterraneo orientale con Venezia (le malvasie) e con Genova dalla Spagna (vernacce). Molte delle proprietà agricole delle abbazie vengono alienate, ma la crisi climatica medievale e l’intensificarsi dei pellegrinaggi offrono l’opportunità di una nuova missione, rappresentata dall’assistenza ai pellegrini ed ai poveri. Con la riforma protestante cambiamo molte cose nei complessi rapporti tra gli ordini religiosi e l’ultimo evento del medioevo tedesco, rappresentato dalla Guerra rustica, dell’agosto del 1425, porta alla distruzione ed al saccheggio di 400 monasteri. Le vicende della storia moderna hanno profondamente modificato gli assetti originali della viticoltura europea : Giuseppe I, imperatore dell’Austro-Ungheria scioglie tutti gli ordini monastici disperdendone le proprietà. L’istituto agrario di San Michele all’Adige, nasce nel 1874 su una proprietà agostiniana. Lo stesso aveva fatto Napoleone tra fine 700 e inizio 800 chiudendo e depredando molti monasteri, interrompendo definitivamente il rapporto che questi monasteri avevano con il territorio. Ciò nonostante, decenni dopo la morte di Napoleone, alcune vigne del Signore erano tornate a produrre ed i conventi in Italia sono stati i luoghi dove si è salvata la nostra viticoltura.
Attualità della cultura viticola dei monasteri
La crisi dei nostri tempi è iniziata con la crisi dell’Idealismo dopo la pace di Versailles, che conclude la Prima guerra Mondiale ed è segnata dalla comparsa delle teorie steineriane con il rifiuto della chimica di sintesi. Trova peraltro un riscontro nelle paure che ci assalgono ogni giorno: l’inquinamento, le malattie da cattiva alimentazione, le crisi finanziarie, l’emigrazione, le guerre dalle quali crediamo di difenderci rivolgendoci alle forze irrazionali come il misticismo, l’esoterismo o il generico ritorno alle forze del cosmo. Le mille paure di allora che ci attanagliano, associate a quelle che sono ancora presenti nella contemporaneità, anche se manca come nel passato il conforto della religione, ci ripropongono il sentimento francescano e della vita contemplativa delle comunità monacali e la terra madre, come il nostro rifugio. I movimenti ecologisti ed il desiderio di sostenibilità ambientale hanno questa origine lontana. Mantenere la natura vuol dire dare continuità al nostro futuro. In questo contesto si colloca il ruolo ed il significato della biodiversità viticola. È un’eredità che la natura ed i nostri antenati ci hanno lasciato e che non può essere ricreata in laboratorio: una volta distrutto questo capitale non potrà essere ricostituito e sarà perso per sempre. Ma questa biodiversità non ha solo un valore biologico in quanto fase di un processo evolutivo naturale, sebbene guidato dall’uomo, ma è anche una risorsa economica per la creazione di nuove varietà di vite o per conoscere l’origine di molte varietà attualmente in coltivazione. Suscitano inoltre l’interesse crescente del consumatore, le molte attività economiche, dal turismo all’alimentazione, che fanno leva su tale richiamo per le profonde connessioni tra vitigno antico e cultura del luogo che lo ha selezionato e coltivato fino ad ora. Per questi motivi le varietà antiche devono ritornare ad essere le protagoniste dello sviluppo agricolo ed economico della nostra viticoltura. La diversità non si conserva, o meglio non si conserva solo perché vengono create banche di germoplasma, ma perché la popolazione agricola utilizza, gestisce, convive con il vitigno di cui è depositaria. Nello sviluppo dei progetti di valorizzazione dei vecchi vitigni, il ruolo dei conventi appare fondamentale perché i loro vini devono mantenere, quando inseriti nel circuito commerciale, una chiara identità e protezione di viticoltori - custodi della biodiversità di questi vitigni, riuscendo a conciliare un’azione di protezione con una di profitto. Ormai poche proprietà terriere sono ancora gestite da religiosi. Non ci sono più monaci e sacerdoti neanche per le messe, le vocazioni sono quelle che sono. E quei pochi con la tonaca magari non hanno tempo per fare vino. In futuro, anche quelle poche abbazie che ancora hanno religiosi nelle vigne e in cantina potrebbero soccombere con il rischio che un patrimonio di conoscenze e cultura della viticoltura occidentale vada perduto. Chi possa sostituirli non è chiaro, e compaiono alcuni imprenditori (alcuni animati da un sincero spirito di conservazione della biodiversità) che acquistano o prendono in gestione le Vigne del Signore, come ha fatto Terra Moretti e la Fondazione Mariella e Vittorio Moretti con il Convento dell’Annunciata di Rovato. Nel timore che i vini dei monaci e le uve da cui provengono possano dissolversi nelle nebbie della storia, si potrebbe pensare ad un progetto organico esteso a tutte le comunità conventuali che coltivano vigneti per mappare geneticamente ,attraverso gli strumenti delle biologia molecolare, le Vigne sante per riscostruirne la storia e preservarne le biodiversità. Per fare questo censimento ci vorrebbe una associazione culturale o una fondazione capaci di raccogliere i finanziamenti necessari anche per valorizzarne i risultati in iniziative di promozione dei territori che ospitano i conventi con vigneto.
Attilio Scienza
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