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Il futuro del vino, o forse la sua stessa sopravvivenza, passa per la cultura, come raccontano dall’incontro “Conoscere per sapere ... Il vino come istruzione e cultura”, di scena a Vinitaly, il professor Mario Fregoni ed Angelo Gaja

Il futuro, o forse addirittura la stessa sopravvivenza, del vino italiano, passa per la cultura, intesa come legame tra mondo enoico consumatori, specie i più giovani, quei Millennials che in Usa rappresentano una solida realtà, e nel Belpaese, al contrario, una generazione particolarmente ostica. Da riconquistare coinvolgendola, come è negli obiettivi di Co. N. Vi Consulta del Vino Italiano, l’aggregazione di 15 diverse associazioni del mondo enoico (Agivi, Ais, Aspi, Donne del Vino, Cervin, Conaf, Donne della Vite, Fisar, Fivi, Movimento Turismo Vino, Oicce, Slow Food Italia, Sive, Onav, Vinarius), che supera gli interessi particolari per promuovere la cultura del vino, a partire dalle scuole. “Il percorso intrapreso vuole riavvicinare i giovani al consumo del vino, con consapevolezza, perché c’è la necessita di parlarne - spiega il coordinatore di Co. N. Vi. Vito Intini all’incontro “Conoscere per sapere ... Il vino come istruzione e cultura”, di scena a Vinitaly - seguendo il fil rouge della nostra storia e della nostra cultura, anche promuovendo il vino nelle scuole, raccontando cos’e realmente, da dove viene, quanto il passato sia legato con questa bevanda”. Che il terreno sia ormai fertile, e che ci sia sempre maggiore sensibilità, lo dimostra anche il fatto che ci siano ben “due proposte di legge in tal senso, una dell’Onorevole Sani, che si rivolge agli Istituti Professionali, ed una del Senatore Stefano, che renderebbe obbligatorio l’insegnamento del vino in ogni scuola di ordine e gradi: la nostra idea - continua Intini - è quella di unire i progetti, l’obbligatorietà lascia qualche dubbio, ma abbiamo già ottenuto una grande disponibilità. Vogliamo ottenere un risultato, non intestarci qualcosa, l’importante e che ne esca qualcosa di buono per il mondo del vino”.

Prima che sia troppo tardi, viene da dire, perché, come ricorda il professor Mario Fregoni, ordinario di Viticoltura presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, “la cultura del vino è come una pianta di vite, che nasce, cresce, si alleva, produce, ma poi declina, e può anche morire. Noi, ad esempio, abbiamo perso la cultura etrusca. Ma da chi abbiamo ereditato la cultura del vino, e chi ne e depositario? Pensiamo davvero che questa società sia eterna? La viticoltura, classicamente, nasce 10.000 anni fa, con Noè che pianta la vite sul monte Ararat, per poi arrivare in Israele, dove nasce Cristo, e da lì inizia un’altra storia. La viticoltura e l’enologia - spiega ancora il professor Fregoni - sono state diffuse dai Greci nel bacino del Mediterraneo, ma si sta esaurendo, ed una botta importante gliela daranno i cambiamenti climatici che, secondo gli studi più recenti, uccideranno il 78% della viticoltura. Che si è spostata sempre da Oriente ad Occidente, dai Romani all’800. Nel 1492 Colombo scopre l’America, e porta anche la viticultura in America: del resto, l’America, così come l’Asia, non hanno varietà da vino, hanno piantato quelle europee. Ma facciamo davvero di tutto per salvaguardarla? Io non credo. Avevamo 10 milioni di ettari di vigneto nel mondo, oggi sono 7,5 milioni di ettari, e li abbiamo persi tutti noi europei. L’Italia, che aveva 3,5 milioni di ettari un secolo fa, oggi ne ha 650.000, negli ultimi dieci anni abbiamo perso 8.500 ettari vitati l’anno, e da noi i consumi crollano: 37 litri pro capite contro i 120 di qualche decennio fa. In Europa - continua l’Ordinario di Viticoltura della Cattolica di Piacenza - nessuno si preoccupa, prevale l’economia nordica, ma il pericolo reale alle porte è la perdita della cultura latina, che sta soccombendo a quella anglosassone, dove, ad esempio, del terroir non gliene importa niente a nessuno, la varietà è ciò che conta. Siamo su una strada, per diversi motivi, economici, storici e quant’altro, che rischia di farci perdere la civiltà del vino. Noi perderemo lentamente la cultura del vino - conclude Fregoni - e per evitarlo bisogna reagire, ad esempio dotandoci di una rivista scientifica, che non abbiamo. Ho anche dei dubbi sull’insegnamento della cultura enoica nelle scuole: chi se ne farebbe carico? Noi non abbiamo una laurea sulla storia e la cultura del vino e della sua sensorialità, attraverso la quale formare i professori del futuro. Una cosa del genere esiste in Borgogna, una cattedra che fa esclusivamente cultura, dovremmo pensarci anche noi”.

A fare il quadro del panorama all’interno del quale va necessariamente inserita ogni discussione sulla cultura enoica, è uno dei massimi produttori del Belpaese, Angelo Gaja. “L’economia vitivinicola italiana conta su 8 miliardi di fondi pubblici, portandosi dietro un enorme apparato burocratico, speriamo che il Testo Unico ci aiuti in questo: Einaudi - racconta Gaja - diceva che il denaro pubblico è più prezioso di quello privato. Nel mondo del vino ci sono funzioni diversi: gli affinatori, i commercianti, gli industriali, gli imbottigliatori, le cantine sociali e infine gli artigiani, ed è da loro che bisogna ripartire. Mi è successo spesso sentir dire che per uscire dalle crisi ci vogliono ricerca, innovazione e tecnologia, mentre gli artigiani camminano in direzione ostinata e contraria, come avrebbe detto De André. Non perché piccolo sia bello, ma perché piccolo è utile, cosi come pensare diversamente dalla massa. Come racconta il successo del vino naturale, che ha dato l’impulso, comunque la si veda, ad un approccio diverso alla vite, con indipendenza di pensiero. Come ha fatto chi ha sfidato climi e territori ostili. Del resto, il vino è capace come nessun altro prodotto alimentare di viaggiare nello spazio e nel tempo, è la bevanda culturale d’eccellenza frutto del genius loci. E proprio il territorio - continua Gaja - è diventata la parola magica, tutti lavorano per il territorio, facendo crescere l’enoturismo e portando a conoscenza la ricchezza delle province e dei loro prodotti. Il vino ha una forza enorme, che travalica lo spazio e la storia, alimentato proprio dai piccoli produttori”.

Ma quali sono i punti sensibili da affrontare? È ancora Gaja a metterli in fila. Innanzitutto, “la gestione politicizzata, perché la politica pensa più al turismo che al vino, non capendo certe dinamiche: ad esempio, continuano a dirci di piantare solo varietà autoctone, ma non ha senso, anche le varietà internazionali fanno parte del nostro patrimonio, e contribuiscono alla grandezza dei nostri vini. Così come il vino in piazza nelle feste, va saputo approcciare e servire, con responsabilità”. E ancora, i media che, “per Umberto Eco contribuiscono alla falsificazione della comunicazione, spesso usati come strumenti di potere”. Un altro passaggio fondamentale, ribadito in più occasioni, è stato il 1986: “quella dell’etanolo è una frode che abbiamo sopportato per anni, con la frode commerciale cresciuta in modo pauroso. Poi l’Italia e uscita dall’inferno, rigenerandosi e ripulendosi, e cambiando la propria filosofia: non lavorare sulla leva del prezzo, ma della conquista dei mercati esteri”. Altro momento di svolta, sempre in senso negativo, è stata la crisi del 2009, “ con il blocco del mercato estero, da dove ad un certo punto non arrivavano ordini. E adesso dobbiamo fare i conti con il cambiamento climatico: può ostacolare la produzione, dobbiamo pensare a come operare per superarlo. Con la conoscenza e la sperimentazione”. Infine, qualche risorsa: “a partire dal marketing, che è ormai il terzo settore della viticoltura, ed è fondamentale. Ma per crescere davvero ci vogliono più inglese, più lettura e meno televisione”.

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