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Il Giornale

“Ho inventato l’Osteria senza oste
per mettere alla prova gli onesti” ... Un imprenditore di Valdobbiadene apre
sul colle del Cartizze un locale unico
al mondo: mangi, bevi, ti fai il conto da solo
e lasci i soldi in una cassettina. Vengono
a visitarlo persino da Giappone e Namibia... “Di qua, di là del Piave ci
sta un’osteria. Là c’è
da bere e da mangiare
e un buon letto da riposar”, cantavano
gli alpini durante la Grande
guerra. C’è ancora. C’è anche da
bere e da mangiare. Manca solo il
letto. Soprattutto manca l’oste.
Non è morto, non l’ha ammazzato
nessuno. Semplicemente non c’è
mai stato. Infatti si chiama proprio
così: Osteria senza oste. Un monumento
all’illimitata fiducia nella lealtà
umana. Entri, ti servi e te ne
vai, non prima d’aver depositato i
soldi del conto (che devi farti da
solo) in una cassettina di legno a
forma di casa, munita di un piccolo
lucchetto, sul cui tetto il falegname
ha inciso questa sentenza: “L’onestà
lascia il segno”.
È un’osteria unica al mondo. E
da tutto il mondo, non solo dall’Europa,
vengono per vederla, come
attestano i dieci libri allineati nella
madia, zeppi di dediche entusiastiche
di gente arrivata col passaparola
dagli Stati Uniti, dal Canada,
dal Giappone, persino dalla Namibia
e dal Porto Rico. Si trova appena
oltre la linea del Piave, sulla
sommità del colle di Cartizze che
90 anni fa pullulava di cannoni austriaci:
dove c’erano le trincee, oggi
crescono le vigne. Ma rintracciarla
non è facile, bisogna cercare
con pazienza. Avete presente una
caccia al tesoro? Ecco. Da Valdobbiadene,
provincia di Treviso, si va
verso Santo Stefano. A un certo
punto, sulla destra, un’edicola votiva
e la freccia della cantina Col Vetoraz.
Si prende la strada sterrata.
S’infila l’auto tra i filari di viti. Poi,
a piedi, su per una brevissima capezzagna
preceduta da una freccia
segnaletica con un punto interrogativo,
“perché arrivano qui dopo
aver girato a vuoto due-tre ore
domandandosi indove casso che
l’è”, ride il padrone di casa. Il cartello
dice: “Proprietà
privata. Libero accesso
consentito agli
amici e alle persone
munite di buon senso,
rispetto e responsabilità
”. Firmato:
“L’oste che non c’è”.
A dir la verità l’innominato
che ogni
giorno porta fin quassù
le vettovaglie, di
nomi ne avrebbe fin
troppi: Aribert Norbert
Bernhard Ellemann.
Èun ex domatore
tedesco di 69 anni
che ha lavorato
per il Circo Americano,
per quello di Berlino
e per Moira Orfei.
Fu l’ultimo a lasciare
Bagdad con tigri
e leoni dopo la caduta
di Saddam Hussein.
Ma lui è solo
l’uomo di fatica dell’oste
che non c’è, un
fantasma che d’inverno
accende il fuoco nel camino,
che deposita ogni giorno la soppressa
col cuore di lardo, i formaggi
delle malghe Barbarìa e Cesèn e
della latteria Perenzin fatto senza
il caglio come nel Medioevo, il pane
cotto nel forno a legna, i bibanesi
all’olio d’oliva modellati a mano,
gli zaletti, i Prosecchi delle cantine
Col Vetoraz, Sancòl, Bisiol, La Tordera,
Ca’ Salina, Bortolomiol. Prezzi
più che modici: un intero salame
a 6 euro, le uova sode a 50 centesimi.
Oggi ho avuto fortuna: a guidarmi
c’è lui, l’oste che non c’è. “Qualche
volta faccio portare le patate
lesse, ovi duri e un filo d’olio: la
gente va via di testa, non è che ci
voglia chissaché per mangiar bene
”. Si chiama Cesare De Stefani,
ha 47 anni, una bella moglie, due
figli. Abita nella frazione di Guia. È
un imprenditore dedito all’arte di
famiglia, titolare col fratello Giacomo
di un rinomato salumificio che
porta il loro cognome e che produce
fra l’altro i Giacomini, filetti di
maiale affumicato finiti nello zaino
di Ranieri Gorza, alpinista bellunese
di Lamon, durante la scalata all’Ururu
Peak (5.895 metri), la vetta
del Kilimanjaro, la più alta montagna
d’Africa. Il padre Giuseppe e
la madre Bernardetta, macellai,
misero Cesare a bottega alla fine
della terza media perché mostrava
poca voglia di studiare, “bocciato
due volte, lo Stato avrebbe dovuto
farmi pagare la tassa d’occupazione
del suolo pubblico, considerato
che i banchi di scuola sono di
tutti”, non si assolve. Ma l’ingegno
era brillante: oggi possiede anche
la cantina Sancòl, che imbottiglia
Prosecco e Cartizze.
L’Osteria senza oste è una casa
colonica di tre piani in pietra e mattoni,
con stalla e fienile, costruita
fra le viti a fine ’800. Dentro ci sono
il camino, il secchiaio di marmo,
i salami appesi nella moscaróla
che li difende dagli insetti, il filo
elettrico intrecciato, gli interruttori
di porcellana, le carte da gioco
trevisane. De Stefani l’ha concepita
come “una showroom del territorio
”; io direi che è un santuario
della civiltà contadina. Ma forse,
fra i due, ha ragione l’oste che non
c’è: “Grazie per la collaborazione
a tenere vivo questo sogno”, ha
scritto sul muro.
Quattro tavoli rustici per 16 persone
in tutto, un altro tavolo per
quattro all’esterno. Carta paglia
da macellaio come tovaglia, un
centinaio di bicchieri, cinque taglieri
di legno, coltelli. Niente superalcolici.
Unica concessione: la
macchina per l’espresso. Venti passi
più in là, una terrazza di legno
protetta dal pergolato, a strapiombo
sulle vigne, con panche per altre
12 persone e persino il frigo incastonato
nella marògna, il muro
a secco, per tenervi in fresco il Prosecco.
Chi non ha mai visto il paradiso,
qui ha un acconto: lo sguardo
spazia a 180 gradi dalla valle del
Piave alla laguna di Venezia, dal
monte Grappa al Friuli.

Come le è venuta l’idea?

“Gli amici passavano per bere
qualcosa in compagnia, ma raramente
mi trovavano. Intimoriti,
non osavano neppure stappare
una bottiglia alla mia salute. Per
sollevarli dall’imbarazzo ho messo
la cassettina delle offerte”.

E il nome del locale?

“Tutte le volte che dovevo mandare
il mio braccio destro Aribert Ellemann
a lavorare questi vitigni
non riuscivo a farmi capire. E allora
gli dicevo: Ari, sai la vigna dell’osteria
senza oste? Capiva subito.
È diventata un’insegna
”.

Il terreno è suo?

“Sì.Non è molto esteso,
7.000 metri quadrati,
però sono uno
dei 145 fortunatissimi
proprietari che si
dividono i soli 104 ettari
del Cartizze”.

Vale oro.

“Circa 2 milioni di euro
a ettaro. Ma vale
oro soprattutto perché
milioni di anni fa
qui arrivava l’Adriatico
e quindi è pregno
di conchiglie fossili e
di sali minerali che
conferiscono alle uve
un profumo unico”.

La ricevuta fiscale
chi la fa?

“Eh, ma se l’oste non
c’è, chi può farla?
L’avventore mette
nella cassa comune
l’esatto importo che
ho speso io per rifornire la dispensa,
senza alcun ricarico. Insomma,
non c’è guadagno”.

Semmai perdita.

“Di solito pagano tutti. Ma può capitare
che qualcuno, magari dopo
aver bevuto due bicchieri di troppo,
si dimentichi d’aver stappato
una bottiglia e sbagli a farsi il conto.
Pazienza. E poi c’è sempre il
problema del resto o delle valute
straniere.Hotrovato nella cassettina
dollari statunitensi, real brasiliani,
persino 5 bolivares della República
bolivariana de Venezuela
”.

Nessuno che faccia il furbo.

“Qualcuno c’è. Ma sono eccezioni.
Anzi, portano pure omaggi all’oste
che non c’è: un veronese, alla terza
visita, mi ha lasciato in dono
una bottiglia di Recioto. Ad andare
a ruba sono i dépliant turistici che
mi procuro nelle Apt e nelle pro
loco per far conoscere il mio meraviglioso
Veneto, l’unica repubblica,
nella storia dell’umanità, durata
1.100 anni”.

Si meriterebbe il posto di Michela
Vittoria Brambilla, sottosegretaria
al Turismo.

“Ma non ho la sua testa. E neanche
le sue gambe. Però la invito volentieri
per una scampagnata”.

I suoi che dicono dell’iniziativa?

“Barbara, mia moglie, non è che
sia troppo contenta. Se la sera passo
di qui per fare quattro ciacole,
non torno più a casa”.

Un’osteria senza l’oste e con le
porte sempre aperte. Qualcuno,
visto il suo lavoro, le avrà dato del
salame.

“Sì, credo di sì. Qualcuno che pensa
che io sia un illuso c’è senz’altro.
Maame piace così. Spesso vengo
all’osteria senza farmi riconoscere.
È una gioia trovarvi famiglie,
nonni con i nipotini, padri cinquantenni
portati
dai figli ventenni e viceversa.
Unpomeriggio
d’inverno c’erano
due morosi che giocavano
a briscola davanti
al camino. Che
emozione! Di questi
tempi sono scene che
riscaldano il cuore,
sa? In Veneto non ci
sono più osterie, solo
sushi bar, paninoteche
e kebab”.

Mai avuto problemi
di sicurezza?

“Hoconosciuto il titolare
della Bds di Pieve
di Soligo, che produce
porte blindate.
Suo figlio gli aveva
parlato di questo posto,
spiegandogli che
c’era venuto più volte,
e la risposta del
padre era stata sempre
la stessa: “Bisogna
che te bevi de
manco”. Pensava che se lo sognasse
durante le sbornie. Alla fine è
venuto di persona a controllare.
Noncredeva ai propri occhi. “Mentre
scostavo la porta semichiusa,
ho temuto che da dentro qualcuno
mi sparasse”, mi ha confessato.
“Ma come? Io mi addormento tutte
le notti pensando a qualche nuovo
sistema per difendere le case e
lei lascia tutto spalancato? Non è
possibile!””.

Non chiude proprio mai?

“Il suggerimento è di passare dalle
8 di mattina a mezzanotte, non oltre.
Ma se l’oste non c’è, come fa a
cacciare gli ospiti o a chiudere?
Una sera d’estate ho trovato due
coppiette che prendevano il fresco
sul terrazzo a tarda ora. Ho chiesto
da dove venissero. “Siamo albanesi”,
mi hanno risposto con un tono
di voce che tradiva imbarazzo,
come se io potessi pensare che fossero
ladri. Hanno fatto vergognare
me”.

Adesso non esageri. Questo resta
pur sempre il Veneto assediato
dalla criminalità, dove non basta
certo la catenella alla porta.

“Èimportante trasmettere un messaggio
di fiducia. Io penso che servano
luoghi dove la gente possa dimostrare
d’essere onesta.Una volta
ho trovato una brigata di ventenni.
Tatuaggi, borchie, zazzera. Le
classiche facce poco raccomandabili.
Mi sono divertito a sfruculiarli.
“È la quinta volta che veniamo
qui, speriamo che duri”, mi hanno
detto. Dipende solo da voi, gli ho
risposto, e mi sono presentato: vi
nomino guardiani dell’osteria e vi
autorizzo a riprendere a nome mio
chi si comporta male. Estasiati. È
bastato investirli di una responsabilità
per trasformarli in persone
diverse”.

Pensa che questo esperimento
sia esportabile?

“Sì. Nei registri delle dediche trovo
scritto: “Una cosa simile può esistere
solo qui”. Non è vero. Vorrei
aprire un’osteria senza oste a Palermo
o a Napoli. Magari, quando
sarò in pensione, lo farò. Perché
sono convinto che anche al Sud la
gente vorrebbe dimostrare la sua
onestà, ma non ha un luogo dove
poterlo fare. Non è una sfida, badi
bene.Èche nessuno mi toglie dalla
testa che tutto il mondo, alla fin fine,
sia paese”.

A proposito di onestà: com’è che
in giro per ristoranti, enoteche,
bar e supermercatisembra esserci
più Cartizze che Prosecco?

“Impossibile. Il vitigno è lo stesso,
ma da circa 4.000 ettari di Prosecco
si ricavano 57 milioni di bottiglie
l’anno, che credo diventino il
triplo se alla Doc aggiungiamo
l’Igt, indicazione geografica tipica.
Mentre dai 104 ettari di Cartizze,
che è un Prosecco superiore, si ottengono
appena 1,1 milioni di bottiglie.
Semmai bisognerebbe scovare
coloro che vendono come Prosecco
anche l’acqua di rubinetto”.

Quello dei veneti imbriagóni è
uno stereotipo o una realtà, a suo
parere?

“Uno stereotipo. Sono anni che
non vedo uno sbronzo per strada”.

Eppure la Sicilia, prima regione
vitivinicola d’Italia, non ha la
brutta nomea del Veneto.

“Solo perché i siciliani parlano meno
”.

Tra salumi e vino, se avanza
l’Islam per lei la vedo dura.

“Emigrerò. O mi butterò sul turismo
”.

Che doti cerca nei collaboratori?

“Quelle che apprezzo in Bernardo
Caprotti, il mio modello: correttezza,
professionalità, trasparenza.
Vidi il fondatore dell’Esselunga
una sola volta, 26 anni fa. Mi portò
da lui l’agente di una cantina: cercavano
una soppressa da abbinare
a una vendita promozionale di
Prosecco. “Se per caso ti ordineranno
la merce”, midisse il rappresentante,
“poi non sognarti di spedire
a casa di qualche dirigente dell’Esselunga
cestini di salumi o cartoni
di Cartizze in segno di riconoscenza:
si verrebbe a sapere e ti
straccerebbero il contratto all’istante”.
Una lezione che non ho
mai dimenticato”.

Come vede l’economia?

“Male. Joaquín Almunia, il commissario
europeo per gli affari monetari,
dice che in Italia gli stipendi
sono troppo alti. Dove vive, sulla
Luna? Qui è troppo alto il costo del
lavoro. Non è possibile che, per
ogni 100 euro messi in busta paga
aunmio dipendente, debba versarne
altri 100 di tasse”.

Nota contrazioni delle vendite?

“Certamente. Soprattutto noto più
oculatezza nelle scelte. Vanno molto
gli stinchi di maiale, che sono
grossi e costano poco. Per fortuna
con l’immigrazione dall’Est sono ripresi
i consumi di parti che gli italiani
disdegnano: fegato, cuore,
piedino, codino”.

Midicono che molti allevatori tengono
i maiali al buio e li nutrono
versando litri di clintòn nel pastone.

“Mai saputo. Nella mia azienda laviamo
due volte le budella con aceto
di Prosecco prima di insaccare:
è antisettico e dà sapore. Il vino si
mette nell’impasto di
maiale e pepe, perché
facilita l’acidificazione,
i microorganismi
riescono ad attaccare
meglio i residui
zuccherini delle
carni. Ogni 100 chili
di macinato, noi aggiungiamo
un litro di
brûlé fatto con Cartizze,
cannella e chiodi
di garofano, ovviamente
dopo averlo
raffreddato”.

Il suo colesterolo a
quanto sta?

“E chi lo sa?”.

Secondo lei quante
volte a settimana si
possono mangiare i
salumi?

“Che discorsi: tutti i
giorni. È quello che
fanno gli italiani, senza
saperlo. Faccia caso:
il prosciutto nel
tramezzino al bar, il
salamino piccante sulla pizza...
Tant’è vero che dai 25 chili di salumi
pro capite che consumavamo
nel 1980 oggi siamo saliti a 35,
mentre la carne bovina nello stesso
periodo è scesa da 28 a 24”.

C’èda fidarsi dei salumi industriali
già affettati e venduti in buste
sottovuoto?

“Sotto il profilo igienico sì. Basta
leggere con attenzione l’etichetta:
sale, pepe, spezie, nitrati. Tutto il
resto è in più. Se ci trova nitriti,
destrosio, saccarosio, fruttosio, significa
che si tratta di carni congelate
e che il produttore vuol ridurre
il calo di peso o simulare una
stagionatura inadeguata”.

Che cosa pensa dei vegetariani?

“Li vedo sempre tristi”.

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