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Il mercato Usa sorride al vino italiano, ma non senza criticità. E i dazi sembrano più lontani

A Slow Wine Fair, Mirella Menglide (Ice), Giuseppe Lo Cascio (Lucidity Wine), Luca Venturelli (Colangelo & Partners) e Alessio Piccardi (Fieramente)
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Il mercato Usa sorride al vino italiano. E i dazi sembrano più lontani

Non c’è dubbio che per i vini italiani il mercato Usa sia, storicamente, una garanzia e sinonimo di solidità. Lo dicono i numeri, determinanti, che esprimono più di una certezza: ad oggi, secondo i dati dell’Osservatorio Federvini in collaborazione con Nomisma, i vini italiani esportati negli Stati Uniti corrispondono al 29% delle esportazioni totali, per un valore di 939 milioni di euro nel primo semestre 2024, in aumento sia in valore che in volume (2,5%) sullo stesso periodo 2023. E se, come dimostrano i recenti dati Istat, analizzati da WineNews, nei primi 11 mesi 2024, le spedizioni all’estero dei vini tricolore hanno superato i 7,5 miliardi di euro, a +5,4% sullo stesso periodo 2023, per 2 miliardi di litri (+3,3%), è evidente il peso rilevante degli Stati Uniti che si conferma, per distacco, il primo mercato partner per le cantine italiane, con un +9% nei primi 11 mesi dell’anno, che si traduce in 1,76 miliardi di euro in valore. I numeri, però, vanno anche guardati in profondità e devono essere interpretati. E questo perché, nonostante sia trainante, il mercato americano è tutt’altro che semplice. I produttori italiani si trovano di fronte a regole che cambiano da Stato a Stato, vivono la paura, che al momento è solo una ipotesi dei dazi (vale sempre la pena ricordarlo, mentre intanto arrivano speranze sulla non applicazione), al contrario di mode e gusti che sono invece già in fase di trasformazione, guidati dai giovani che hanno perso il feeling con il vino, in uno scenario in cui appare evidente come ci sia un problema di comunicazione che il settore vitivinicolo non riesce ad affrontare in modo efficace. E poi c’è la competizione con le cantine americane, con cui i produttori di vino italiani condividono molti problemi, come le conseguenze dei cambiamenti climatici e le difficoltà nel trovare la manodopera. Tanti i temi affrontati a Slow Wine Fair 2025, a BolognaFiere, nella conferenza “Il vino italiano negli Usa: stato dell’arte, aspettative e paure” dove ci si è chiesto se “gli Usa continueranno ad essere il primo mercato per i vini italiani”.
Moderato da Roberto Fiori, giornalista de “La Stampa” e “Il Gusto”, l’incontro ha visto alternarsi i contributi di Mirella Menglide, International senior trade analyst food & wine all’Italian Trade Commission New York (Ice), Giuseppe Lo Cascio, co-founder & managing partner Lucidity Wine, Luca Venturelli, account director Colangelo & Partners, e Alessio Piccardi, fondatore e ad Fieramente.
Nel suo intervento, Mirella MenglideInternational senior trade analyst food & wine all’Italian Trade Commission New York (Ice)ha spiegato come per i vini italiani il mercato Usa è cresciuto nell’ultimo anno, con il 2024 che dovrebbe chiudersi con una crescita “del 6% in valore e volume. Gli importatori ci hanno detto che non tutti hanno fatto scorte nei mesi scorsi e questo perché c’è fiducia che i dazi per i vini italiani ed i prodotti agroalimentari non saranno applicati anche se al momento noi non abbiamo avuto notizie ufficiali. I consumi, però, sono calati, le persone pensano maggiormente al benessere e, quindi, a consumare meno alcol e cibi grassi. I giovani oggi non bevono, in particolare la Gen Z ed i Millennials: magari comprano una buona bottiglia al mese oppure ogni due settimane, ma questo non porta in alto i consumi. Bevono di meno, ma meglio. C’è anche la questione della marijuana legale, che non si porta dietro i commenti negativi (per gli alcolici invece succede, ndr) tanto che per i giovani sembra una soluzione ideale. I vini bianchi rappresentano la metà dei vini italiani importanti negli Usa, e c’è, inoltre, da registrare la crescita dei prodotti no e low alcol. Il fenomeno della premiunizzazione esiste, ma non fa decollare i consumi, ed anche i ristoranti sono in difficoltà per i prezzi. Noi come Ice spingiamo per un consumo di vino durante i pasti e non come occasione particolare. Cosa si può fare per cambiare rotta? Intanto conoscere i player sul mercato; inoltre negli Usa sono noti i vini di alcune regioni come Piemonte, Toscana, Veneto e Lazio, ma non i prodotti di quelle più piccole: bisognerebbe portarli negli States per farli conoscere. Servono comunque investimenti sul mercato americano, e il contributo da parte dei produttori può portare vantaggi a tutti. I vini italiani andranno sempre bene o comunque meno male degli altri. Noi consigliamo alle aziende di avere un sito web curato e di fare investimenti nella promozione e nella comunicazione”.
Giuseppe Lo Cascioco-founder & managing partner Lucidity Wine, ha portato il suo punto di vista in un’ottica di importazione e distribuzione. “Il mercato degli Stati Uniti rimane imprescindibile per le aziende italiane. Va affrontato in un altro modo, diversamente da vent’anni fa quando viaggiava con il vento in poppa. Servono dei cambiamenti”. Per Lo Cascio la figura dell’importatore va considerata come “un partner e non come un cliente”, mentre per lo scenario di mercato “l’America è dinamica, e non penso vedremo una recessione a breve. Va piuttosto affrontato il cambiamento demografico cercando di ritornare alla gioia di condividere una bottiglia di vino. Abbiamo reso ancora più complicato un prodotto che già lo era, i giovani non hanno voglia di andare in enoteca e sentirsi riempire la testa di concetti: semplificare il messaggio è fondamentale”. Per quanto riguarda le azioni che hanno fatto seguito al timore di eventuali dazi, Lo Cascio ha spiegato che “abbiamo riempito un container di vini che vanno in mescita, tra i 5 ed i 9 euro, quelli di fascia più bassa insomma, mentre quelli più cari non sono stati toccati. Per quanto riguarda, invece, la ristorazione, non vedo un effetto di sostituzione con i vini americani e questo perché la ristorazione italiana è di qualità e ci permette di essere vincenti nei confronti di Paesi come Argentina e Cile, per esempio”.
Luca Venturelli, account director Colangelo & Partners, una delle agenzie di riferimento per il marketing del vino negli Stati Uniti, “due milioni di Boomers ogni anno escono dal mercato e per quelli che entrano non viene trovato il linguaggio giusto. Troppo complicato, è necessario semplificare. Il volersi distinguere va bene per la premiumizzazione, ma dobbiamo mantenere anche il livello di entrata per attirare il consumatore. Serve saper raccontare la storia del vino, la sostenibilità ai giovani piace, ma non esiste più un messaggio unico per tutti, occorre imparare tante lingue perché ogni persona è ricettiva in qualcosa di diverso. Tanta gente viene in Italia per un viaggio e non si ferma a fare l’aperitivo, ma va al ristorante: la bottiglia va seguita fino all’ultimo miglio e bisogna essere sempre pronti a raccontare il vino”.
Per Alessio Piccardi, fondatore e ad Fieramente, ormai riferimento della logistica del vino italiano, ma anche importatore in Usa, “serve ripartire attraverso la comunicazione, oggi manca quell’ottimismo di cui i giovani sono pieni. I servizi di logistica devono essere considerati non come concorrenza, ma come opportunità di comunicazione. Il vino lo vedo sempre più legato all’hospitality, alle vendite dirette, e qui l’Italia ha un grande vantaggio, ci metto anche la ristorazione che rientra in questo filone. Togliamo la parola paura e trasformiamola in opportunità. Oggi il consumatore medio negli Stati Uniti ha una cultura del vino più importante rispetto al passato, altro aspetto che può favorire l’Italia, ma bisogna conoscere bene il mercato”.

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