Il mondo del vino italiano perde un altro dei suoi grandi padri. Ieri è morto, all’età di 86 anni, Antonio Mastroberardino, ancora impegnato nell’azienda di famiglia.
Un uomo che ha inciso direttamente sulle sorti del vino campano, a partire dalla sua ostinata difesa dei vitigni di antica coltivazione, contribuendo in prima persona alla stesura dei disciplinari di produzione del Taurasi, del Greco, del Fiano, fino al recupero della memoria enoica del Vesuvio, troppo spesso sepolta non più dalla lava, ma dal cemento.
La cantina Mastroberardino, per anni, è stata praticamente la sola portabandiera della vitivinicultura di qualità campana, soprattutto grazie al suo lavoro paziente di diffusione fuori dai confini regionali e da quelli nazionali di un patrimonio varietale, quello dell’avellinese, peraltro assai ben presente, per esempio, ai francesi, che ricorsero massicciamente alle uve irpine subito dopo il disastro della fillossera.
Antonio Mastroberardino, nominato nel 1994 Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica Azelio Ciampi, arriva in azienda negli anni Cinquanta del Novecento, riuscendo da subito a compiere scelte strategiche innovative e impensabili per quell’epoca, prima fra tutte, la fedeltà ai vitigni autenticamente irpini di per sé poco produttivi e “sconsigliati” in un’epoca tutta votata alla quantità. Una decisione che tenne ferma anche quando alla quantità si sostituì la qualità, e siamo alla metà degli anni Ottanta, espressa però “solo” dai vitigni internazionali.
Ne sono testimoni prima di tutto i vini prodotti dalla cantina di Atripalda fondata nel 1878. Sfogliando il “Catalogo Bolaffi dei vini del mondo”, edizione 1968, l’unico Taurasi segnalato era quello di Mastroberardino (ancora non Riserva e non battezzato Radici). Un vino che, per chi ha avuto la fortuna di assaggiarlo, racconta ancora oggi come lo faceva oltre quarant’anni fa, uno stile preciso, fedele e alla prova del tempo di successo.
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