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IL POMODORO E’ DI CASA A PARMA: IL MUSEO DELL’“ORO ROSSO” APRE LE PORTE AI CURIOSI. FOCUS: ALLE ORIGINI DEL POMODORO. IN EVIDENZA: L’“ORO” DI PARMA. INTERVENTI: DA TULLIO GREGORY A CARLO CAMBI. LA CURIOSITA’: I “MUSEI DEL CIBO” E QUELLO DEL VINO ...

Collocato in un centro di trasformazione alimentare di epoca medievale - la Corte di Giarola, ex sede di un’industria di conserva di pomodoro nei primi 60 anni del ’900 - è organizzato in sette sezioni tematiche: si parte con la storia e l’arrivo in Europa nel ‘500 e la diffusione successiva, per proseguire con lo sviluppo dell’industria di trasformazione a Parma (dal prodotto secco alla conserva, dai concentrati ai passati, dai sughi pronti ai succhi da bere), quello delle tecnologie produttive, il prodotto finito e gli imballaggi come latte e tubetti d’epoca, lo sviluppo dell’industria meccanica, i protagonisti (tra cui la “Fiera delle conserve alimentari”, progenitrice di Cibus) ed i lavori in fabbrica, fino al percorso culturale “Mondo Pomodoro” con pubblicità, dipinti, sculture, citazioni, ricette e lo storico “matrimonio” con pasta e pizza. Ecco il Museo del Pomodoro di Collecchio, l’esposizione dedicata all’“oro rosso”, che arricchisce il circuito I Musei del Cibo della Provincia di Parma, insieme a quelli del Parmigiano Reggiano, Salame e Prosciutto e Salumi (info: www.museidelcibo.it).

“I Musei del Cibo di Parma - sottolinea il presidente del circuito Giampaolo Mora - completano, con l’allestimento del Museo del Pomodoro, il panorama museale dei quattro grandi prodotti del nostro territorio. Il pomodoro riveste un’importanza del tutto particolare nel nostro comparto agroalimentare, sia per la qualità del prodotto sia per le trasformazioni industriali che hanno raggiunto livelli di assoluta eccellenza”. Di origine notoriamente americana, è proprio in provincia di Parma infatti che il pomodoro ha trovato terreno fertile e ora anche la propria casa, e se il principale distretto di produzione del pomodoro per polpe e passate si trova in Emilia, è qui che si è sviluppata anche la tecnologia per l’industria conserviera, esportata e conosciuta in tutto il mondo.


Focus - Alle origini del pomodoro

Il pomodoro selvatico, o Solanum racemigerum, è originario del Sudamerica occidentale e ancor oggi è presente in forma spontanea sulle montagne del Perù, dell’Ecuador e del Cile settentrionale. Portato nell’America centrale, fu messo a coltivazione dai Maya, i quali svilupparono il frutto nella forma più grande che conosciamo oggi, a sua volta adottato dagli Aztechi, che lo coltivarono nelle regioni meridionali del Messico. Fu qui che Hernán Cortés (1485-1547) lo vide durante l’occupazione della regione, fra il 1519 ed il 1521. Dal Messico i semi giunsero in Spagna al seguito di coloni e missionari, che prendendo a prestito il termine tomatl usato dagli indigeni, denominarono tomate il nuovo frutto.

I dizionari fissano intorno al 1532 la prima attestazione in spagnolo della parola tomate. Ma in realtà i tomate giunti dall’America erano due. La parola azteca tomatl definiva genericamente una cosa rotondeggiante e rigonfia. A seconda del diverso prefisso, indicava il pomodoro (xi-tomatl) o il tomatillo (mil-tomatl), un frutto piccolo e tondo, sempre appartenente alle solanacee. Gli studi botanici della seconda metà del ’500 testimoniano come pomodoro e tomatillo venissero regolarmente confusi tra di loro. Uno dei pochi autori del XVI secolo a distinguere tra le due piante è il fiorentino Giovanvettorio Soderini (1526-1596), che usa due voci distinte nel suo trattato agricolo del 1590.

Il pomodoro, sbarcato in Spagna non vi trovò subito fortuna. Si è ipotizzato che le prime varietà introdotte in Europa contenessero solanina in quantità così elevata da risultare indigeste. Per questo fu utilizzato come pianta ornamentale o medicinale e a scopo di studio negli orti botanici con una diffusione assai limitata. Solo successive selezioni varietali portarono il pomodoro alla sua completa commestibilità. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere il pomodoro, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca e ai domini spagnoli su territorio italiano. La diffusione del pomodoro nel nostro Paese, fu tuttavia assai lenta. La diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche, relegandolo fra le piante ornamentali. Solo nel ’700, alla lunga fase “botanica” sarebbe seguito il periodo della “sperimentazione” gastronomica.

Un’analisi linguistica dei termini utilizzati per denominare la nuova specie, ci può aiutare nel ricostruire, in via ipotetica, i suoi percorsi di diffusione geografica: la Sicilia, che usa il termine Pumurammuri, di derivazione dal francese Pomme d’amour, fu verosimilmente la prima regione italiana che conobbe la nuova pianta, grazie alla diretta influenza spagnola sull’isola; infatti da questa regione provengono le ricette italiane più antiche a base di pomodoro, soprattutto sughi e conserve essiccate. La Sardegna, possedimento spagnolo fino al 1720, ed il Nord Italia che usano il termine, variamente declinato, derivato dallo spagnolo Tomate. Il Centro-Sud Italia che usa il termine colto Pomo d’oro - modificato in Pommarola a Napoli - derivato dalla letteratura classica e dal colore dei primi frutti (tomatillos?) pervenuti.

La storia “ufficiale” e documentata del pomodoro in Italia inizia il 31 ottobre 1548 a Pisa quando Cosimo de’ Medici riceve dalla tenuta fiorentina di Torre del Gallo un cesto di pomodori nati da semi donati alla moglie, Eleonora di Toledo, con ogni probabilità dal padre, Viceré del Regno di Napoli. Dalla Sardegna, invece, il pomodoro raggiunse probabilmente Genova, all’epoca il principale porto del Tirreno, diffondendosi, anche grazie al clima, in tutta la Liguria e da qui, varcato l’Appennino, nella pianura, a Piacenza, a Milano, a Novara e a Torino. È storicamente dimostrato che le prime varietà di pomodoro giunsero nel Parmense, verosimilmente negli ultimi anni della dominazione francese, da Genova, attraverso Piacenza, provenienti dalle città marinare, come traspare dalle loro denominazioni: Riccio Nizzardo e Costoluto Genovese. Da queste varietà sarebbero derivate il Riccio o Quarantino Parmigiano, impiegato principalmente per il consumo da tavola e il Ladino di Panocchia, prescelto mezzo secolo più tardi da Carlo Rognoni per la produzione della conserva di pomodoro.

Alla Corte di Parma, il credenziere di Maria Luigia, Vincenzo Agnoletti (1776-1834 post), scrive: “I pomodori si preparano in diverse maniere. Sono di diverso gusto, purché siano rossi e freschissimi”. Nel 1832 nel suo Manuale del cuoco e del pasticcere descrive la preparazione di una “conserva di pomidoro al fresco” costituita da polpa di pomodoro setacciata due volte, messa in bottiglia coprendola con poco olio, sigillando poi le bottiglie con turaccioli incatramati e facendole bollire a bagnomaria per sedici minuti. E dai registri dell’amministrazione di Maria Luigia sappiamo che nel 1844, tre anni prima della sua morte, si fecero ottanta “vasi di conserva” per un peso complessivo di 309 chili.

La prima azienda di trasformazione del pomodoro del Parmense fu costituita da un gruppo di agricoltori locali nel 1874 con il nome di Società anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomodoro e univa competenze agricole e spirito imprenditoriale. Quello spirito che porterà, sul finire dell’Ottocento, complice l’improvviso calo del prezzo del grano per l’arrivo dei primi piroscafi dall’America, all’ampia diffusione della coltura del pomodoro e al decollo del comparto agroalimentare parmense. Una storia, tutta parmigiana, che trova, nel Museo del Pomodoro ampi approfondimenti e che merita di essere riscoperta per capire il nostro presente.


In evidenza - L’“oro rosso” di Parma

Il comparto conserve di pomodoro ha un valore storico industriale importantissimo per Parma, non solo perché rappresenta un tassello fondamentale del sistema Food Valley ma anche perché ha favorito lo sviluppo di tecnologie per la lavorazione dei prodotti degli altri comparti alimentari (a Parma oggi si producono macchine per la lavorazione di tutte le conserve vegetali, anche della frutta, della carne, del pesce, del latte). Inoltre alcune aziende dalle tecniche per la lavorazione e conservazione del pomodoro hanno ampliato la loro attività lavorando altri prodotti vegetali, sviluppando la loro esperienza anche su prodotti pronti per l’uso in cucina o piatti già cucinati pronti per il consumo.

Nel 1912 esistevano 61 stabilimenti che lavoravano 1,5 milioni di quintali di pomodoro, nel 1990 erano 14 con 5,5 milioni di prodotto lavorato per poi scendere nel 2009 a 10 stabilimenti con oltre 10 milioni di quintali lavorati. Non solo la concentrazione ha consentito la crescita dei quantitativi lavorati ma ha permesso al comparto parmense di mantenere e migliorare la propria quota a livello nazionale: nel 1990 Parma lavorava il 14% del prodotto nazionale, nel 2009 la percentuale è salita al 17%.

Sempre nel 2009 la provincia di Parma dedicava alla coltivazione del pomodoro circa 5.000 ettari di terreno, nello stesso anno la produzione era destinata per il 42% al concentrato, 28% alla polpa, 28% alla passata e 2% ai sughi pronti. In realtà la provincia di Parma, trasforma più pomodoro di ciò che produce: i pomodori provengono principalmente dalla Regione Emilia Romagna, il 65% del quale solo dai territori di Parma e Piacenza, mentre la restante quota arriva soprattutto dal mantovano, dal cremonese e dall’area romagnola.

In provincia di Parma le aziende conserviere, sia a carattere cooperativo che privato, producono per conto di terzi e a marchio proprio, immettendo sui mercati nazionali e internazionali prodotti rinomati per l’elevata qualità. Parma da sola lavora 1 milione di tonnellate, ovvero più della metà del trasformato dell’intera regione Emilia Romagna. Parma opera in una ambito territoriale in cui si intrecciano storicamente relazioni e conoscenze sull’arte conserviera, e collabora con le altre importanti realtà regionali: Piacenza (24% del dato regionale), Ferrara (15%) che negli ultimi anni si è imposta come realtà emergente del settore, Modena (4%), Ravenna (2%) e Forlì-Cesena (2%).

Il territorio delle province di Parma, di Piacenza, di Cremona e di Mantova, dagli inizi del 1900 ha sviluppato in modo sinergico un importante polo per la produzione e la trasformazione del pomodoro da industria. I soggetti economici della filiera si sono dotati di un insieme di conoscenze e di una rete di relazioni che hanno reso forte la filiera, lavorando a stretto contatto con la ricerca, i servizi, la divulgazione, l’assistenza tecnica e anche le istituzioni pubbliche presenti sul territorio. Nel luglio 2007 i soggetti della filiera del pomodoro e le Province dei territori di Parma, Piacenza Cremona e Mantova hanno costituito una Associazione denominata “Distretto del Pomodoro da Industria”, volta a creare uno spazio di confronto e discussione delle problematiche comuni. Partecipano al Distretto le organizzazioni dei produttori il settore industriale e cooperativo della trasformazione, le Province, le Camere di Commercio delle Province interessate, i centri di ricerca e le organizzazioni professionali. Le finalità del Distretto rispondono alla necessità di promuovere tutte le forme di confronto, collaborazione e coordinamento tra le parti coinvolte nella filiera del pomodoro da industria, elaborando strategie comuni nella filiera del pomodoro al fine di rafforzarne la competitività e di affrontare al meglio i cambiamenti di mercati. Ultimamente diversi soggetti della filiera del pomodoro del Nord Italia hanno manifestato interesse ad aderire e partecipare attivamente all’attività del Distretto, per ragionare in modo congiunto sulle problematiche e sulle strategie da adottare nel settore. Il distretto sta quindi allargando i propri confini oltre al territorio delle quattro province.

Nelle province di Parma, Piacenza, Cremona e Mantova sono coltivati ben 20.000 ettari a pomodoro e nei 15 stabilimenti siti nelle stesse province viene trasformato circa 1,5 milioni di tonnellate. Nel Distretto si trasforma il 35% dell’intero lavorato italiano. Parma si connota in particolare per la lavorazione del pomodoro mentre la vicina Piacenza per la produzione in campo di pomodoro. Non per ultimo, l’andamento del mercato mondiale dei trasformati di pomodoro, che è positivo: nel 2009 la richiesta è aumentata del 3% a livello mondiale.


Gli interventi

Tullio Gregory, direttore Enciclopedia Italiana “Treccani”

Conosciuti in Europa nella seconda metà del Cinquecento, i pomodori tardano ad affermarsi per usi gastronomici e sono piuttosto usati come piante ornamentali. È solo con il Settecento che lentamente il pomodoro entra in cucina, stante alla testimonianza dei grandi manuali dell’epoca, anche se certamente lungo il Seicento dovette cominciare a diffondersi l’utilizzazione del pomodoro per varie preparazioni gastronomiche. Si afferma pienamente fra Settecento e Ottocento quando abbiamo anche le prime testimonianze, non solo letterarie, di un ampio uso del pomodoro, sempre tuttavia come elemento di cottura di carni per ragù e per composizioni varie. Forse dalla cucina napoletana viene la prima ricetta di «viermicielli co’ le pommadore», ma la pasta col solo sugo di pomodoro resta del tutto marginale. Parallelamente anche la pizza si tinge di rosso. Pellegrino Artusi (1891) segna la piena codificazione del sugo, distinto dalla salsa di pomodoro. A Parma la salsa di pomodoro era molto gradita a Maria Luigia ed è qui che si affermano le prime rigorose ricerche sulle varie specie di pomodoro e le tecniche di conservazione.

Leone Arsenio, medico esperto in alimentazione dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Parma

I pomodori hanno un frutto carnoso di colore rosso o giallo, che, quando maturi, presentano un colore rosso per la presenza di licopene o giallo per la presenza di carotene; contengono (per 100 g): poche calorie (17 kcal) e soprattutto acqua (94%), hanno pochi carboidrati assimilabili (2,4%), 1,8% di fibre, vitamine (vit. C 25 mg, caroteni 820 mcg, vit. E 800 mcg, vit. PP 530 mcg, pantotenico 310 mcg, B6, B1, B2, folati, biotina), minerali (potassio 295 mg, fosforo 25 mg, magnesio 20 mg, calcio 14 mg), l’acido ossalico è presente nel pomodoro immaturo. In definitiva è un ortaggio poco calorico, ma contenente licopene, carotenoidi, vitamina C, e polifenoli, con potente azione antiossidante. Da questi elementi discende una ampia adattabilità agli usi gastronomici, mutati nel corso del tempo e oggi sempre più ampi e variegati.

Giancarlo Gonizzi, coordinatore Musei del Cibo della Provincia di Parma

I prodotti tipici di un territorio rappresentano le opere d’arte della sua gente che li crea a partire da pochi elementi base forniti dalla natura; sono sculture lavorate dalla memoria di una comunità e rese eccellenza. Se il prodotto tipico è un’opera d’arte, un museo è la sua casa; ma un museo che vive del territorio e della sua vitalità, che il museo può e deve contribuire a rinvigorire. Il pomodoro sta dunque a pieno titolo nel circuito museale che valorizza i prodotti tipici del parmense, ultimo nato di quel sistema dei Musei del Cibo che già vede in funzione il Museo del Parmigiano Reggiano a Soragna, del Salame a Felino, del Prosciutto a Langhirano e in futuro, del Vino a Sala Baganza. Anche la sede del Museo all’interno della Corte di Giarola, si colloca, significativamente, in un centro di trasformazione agroalimentare d’epoca medievale. Sede di un’industria di trasformazione del pomodoro per i primi sessant’anni del ’900, oggi è anche sede del Parco Fluviale Regionale del Taro, e si trova a 3 km dal Museo Guatelli della Civiltà Contadina, ricco di testimonianze della cultura materiale e anche della coltivazione del pomodoro.
Carlo Cambi, docente di marketing del turismo e giornalista gastronomico

C’è la credenza che il pomodoro sia un marcatore della cucina meridionale, non è così: è forse il Nord Italia l’area del paese che ha tributato maggiore onore al pomodoro anche se l’uso popolare si deve come alla Sicilia. Senza i conservifici di Parma e senza il signor Cirio il pomodoro non avrebbe avuto la sua diffusione borghese. Ma senza la straordinaria biodiversità italiana il pomodoro non avrebbe avuto le sue svariate forme e colorazioni. È possibile dunque ipotizzare un turismo del pomodoro che unisce le preparazioni gastronomiche alla cultivar italiane. Da Pachino (che italiano non è venendo da Israele ma qui si è acclimatato) alla Sardegna, dal Sanmarzano al costoluto, dal cuore di bue all’insalataro, dal pomodoro del piennolo o vesuviano al perino si potrebbe disegnare una geografia del pomodoro in Italia. Credo che tre cose si dovrebbero fare: diffondere la conoscenza dei pomodori in rapporto agli usi di cucina e ai terrori; conservare il germoplasma della nostra straordinaria biodiversità e dare al pomodoro una funzione di marcatore territoriale per rispettarne il valore antropologico culturale, per preservarne il legame con l’agricoltura di specialità, per esaltarne il valore economico.


La curiosità - I Musei del Cibo della provincia di Parma: un progetto di qualità per la promozione e la conservazione di un territorio di qualità

73.432 visitatori dall’apertura ad oggi, 14.995 nel solo 2009, il doppio rispetto ai 7.013 visitatori del 2004, anno in cui hanno aperto i Musei del Cibo ed in crescita anche sul 2007. Al sito Internet www.museidelcibo.it, che si compone attualmente di oltre trecento pagine web, costantemente aggiornate ed implementate, si sono rivolti circa 930.000 visitatori virtuali per circa 400 visite giornaliere, divenendo autorevole punto di riferimento per chi voglia approfondire la storia e la cultura dei nostri prodotti d’eccellenza. Numeri che dimostrano non soltanto la qualità del lavoro svolto e l’energia che tutti vi hanno investito, ma anche quanto questo territorio sia ricco di interesse per il pubblico, locale e nazionale. Il legame con il territorio appunto è ciò che sta alla base della filosofia dei Musei del Cibo, i quali si propongono come luoghi di fonti e racconti di grande fascino, centri dell’accoglienza, dell’esperienza dei sensi e di approfondimento della cultura dei prodotti tipici del territorio, perché non se ne perdano storia e tradizioni.

I Musei del Cibo della provincia di Parma sono un circuito dedicato ai prodotti tipici del territorio parmense. Ne fanno parte: il Museo del Parmigiano-Reggiano a Soragna, il Museo del Prosciutto e dei Salumi di Parma, a Langhirano, il Museo del Salame a Felino. Sono in corso di allestimento il Museo del Pomodoro alla Corte di Giarola, presso Collecchio, ed il Museo del Vino a Sala Baganza. A Langhirano è possibile fare una sosta alla Prosciutteria del Museo per una ricca degustazione, mentre a Felino il Ristorante del Castello offre uno speciale menu con il salame protagonista, e tutti i Musei dedicano attività alle scuole.

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