Antinori, Biondi Santi, Borgo del Tiglio, Caprai, Ca’ del Bosco, Case Basse (Soldera), Aldo Conterno, Giacomo Conterno, Dal Forno, Fattoria di Felsina, Feudi di San Gregorio (new entry 2007), Frescobaldi, Gaja, Galardi (Terra di Lavoro), Bruno Giacosa, Isole e Olena, Lisini (new entry 2007), Ornellaia, Poliziano, Prunotto (Antinori), Quintarelli, Castello di Rampolla, Rivetti (La Spinetta), San Giusto a Rentennano, Schiopetto, Vie di Romans (new entry 2007), Voerzio Roberto: queste le “griffe d’eccellenza” del vino italiano che conquistano le mitiche “quattro stelle” nel “Libro dei Vini” dell’inglese Hugh Johnson (il wine writer più famoso del mondo), definito dalla rivista Usa “NewsWeek”, “forse l’unica guida dei vini di cui si sente davvero la necessità”, venduta in tutto il mondo in 5 milioni di copie.
Il libro (Edizioni Rosenberg & Sellier, pagine 370, euro 16,30) inserisce anche nell’olimpo del vino italiano dei singoli vini: il Vin Santo di Avignonesi, l’Annamaria Clementi di Ca’ del Bosco, le vecchie annate del Marsala, il “Percarlo” di San Giusto a Tentennano, i due vini culto di Piero Antinori, il Solaia e il Tignanello, ed il Sassicaia della Tenuta San Guido di Bolgheri.
Hugh Johnson indica anche quali sono le “denominazioni” più autorevoli ed importanti d’Italia: Barbaresco, Barolo, Bolgheri, Brunello di Montalcino, Chianti Classico, Colli Orientali del Friuli, Collio, Franciacorta, Picolit, Sagrantino di Montefalco, tutti insigniti con le “quattro stelle”, il massimo del punteggio.
La selezione dei 10 vini italiani per il 2007 di Hugh Johnson, una sorta di “borsa della spesa” per intenditori esigenti, vede:
Aglianico del Vulture Riserva Don Anselmo 2001 Paternoster
Barolo Riserva 1999 Schiavenza
Barolo Campé 2001 La Spinetta
Brunello di Montalcino Riserva 1999 La Fuga
Cervaro della Sala 2003 Antinori
Dedicato a Walter 2003 Poggio al Tesoro
Gladius 2003 Adolfo Spada
Poggio ai Chiari 2003 Colle Santa Mustiola
Radicosa 2003 Coppadoro
Romangia Bianco Dettori
Questa “bussola” tascabile (che si avvale anche, per l’Italia, della collaborazione del giornalista e degustatore Daniel Thomases), indispensabile per scegliere le migliori bottiglie dei più celebrati territoril del mondo, analizza anche, con intelligenza, le diverse e nuove tendenze del mondo del vino. Quest’anno Hugh Johnson commenta come “il gusto è cambiato: i vini dei climi caldi oggi sono la norma, non più un’aberrazione, come un tempo. Se da un lato il Nord fatica a maturare le uve, dall’altro il Sud le fa maturare su ordinazione. Livelli inferiori di acidità, tannini meno astringenti e gradazione alcolica più elevata sono tutti elementi molto facili da ottenere e molto diffusi. La tentazione di fare vini secondo questo gusto è grande, e i critici americani ripagano con le loro lodi i produttori che si lasciano tentare. In fin dei conti, il punto cruciale è quel che si vuole dal vino. Una bevanda per soddisfare la sete? Un bene di investimento? Un trofeo da mettere in bella mostra? Il perfetto compagno del pasto, un oggetto fatto ad arte, sviluppato da francesi e italiani nel corso di secoli di amorevoli ricerche? Apparentemente c’è poca concordia sulla risposta, sia per chi il vino lo beve che per chi lo produce. In ogni altro settore, lo spettro della scelta si va restringendo. Con la globalizzazione, si dice, la varietà è al capolinea: tutti i vini, alla fine, avranno lo stesso medesimo gusto”.
“Ma, a mio parere, l’esplorazione dei significati - aggiunge lo scrittore inglese - che un vino può avere per ogni persona è solo all’inizio. Le risorse in termini di stile e sentori sono ben più ampie di quanto possiamo immaginare. Stiamo cominciando a scoprire le varietà greche, e quelle siciliane, ma l’Est dell’Europa è ancora in crescita e il Medio Oriente totalmente inesplorato. Cosa sappiamo del gusto che ci può offrire la Georgia, ad esempio, che conserva la varietà di uve forse più antica del mondo, e come verranno interpretati questi sentori da popolazioni che addirittura ancora non conoscono il vino? Un giorno la Cina avrà una cultura vinicola, e l’India pure, e forse, in un giorno lontano, anche i paesi dell’Arabia. Recentemente, ho bevuto un vino tailandese, da uve coltivate sulle isole tropicali nel delta del Mekong: questo assaggio ha ribaltato tutte le mie aspettative. Il gusto era diverso, ma era vino e mi piaceva. Se non mi sbaglio, tra altri trent’anni il formato tascabile di questa guida non troverà tasche abbastanza grandi da ospitarla”.
Hugh Johnson scrive anche “quanto alcol dovrebbe esserci in un vino? È possibile che ce ne sia troppo poco? E, ancor più importante, quando possiamo dire troppo?
La questione è di fondamentale importanza, perché la gradazione alcolica dei vini continua ad aumentare, e in verità continua a farlo da oltre quindici anni. Ma ciò che all’inizio era sembrata una tendenza, del tutto ammirevole, a creare vini di maggior maturità, oggi appare chiaro che si tratta di un’ossessione vera e propria per la surmaturità di vini e uve: una convinzione malfondata che, nel vino, più ce n’è (di qualsiasi cosa) meglio è. I vini che vent’anni fa avevano 12 o 12,5 gradi alcolici oggi raggiungono uno schianto alcolico di 14,5 o 15 gradi e più: svanisce l’equilibrio e la bevibilità è considerata tuoi cosa da femminucce. Come muscoli da culturisti, spesso dilatati dagli steroidi, questi vini servono a molto poco, se non a vincere gare e competizioni”. “Naturalmente, anche il clima ci mette del suo. Le regioni vinicole - commenta ancora Johnson - di tutta Europa registrano, ormai da dieci o quindici anni, estati più calde: i vinificatori ne approfittano e moltiplicano gli effetti di questo caldo sulle uve, talvolta esasperando il più possibile il carattere dei vini. Ma un vino rosso è migliore se somiglia a un Porto? Un bianco è migliore se ha il sapore di pesche e brandy?”. Interrogativi che il giornalista-scrittore e master of wine lascia, forse, volutamente aperti … .
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