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Internazionale

…Bianchi e rossi invadono la Cina… Evan Osnos, The New Yorker, Stati Uniti La nuova borghesia cinese comincia ad apprezzare il vino. Le importazioni sono in continua crescita e nascono scuole per intenditori. Il merito è di due imprenditori canadesi. L’inchiesta del New Yorker… Donald St. Pierre senior ha fondato l’Asc fine wines a Pechino nel 1996, insieme al figlio Donald St. Pierre junior, che tutti chiamano Don junior. A quell’epoca i St. Pierre non erano né produttori di vino né sommelier. Il padre, che da giovane aveva lavorato nel settore automobilistico a Detroit, a Pechino e in altre città, era più il tipo che apprezzava “un hot dog e un bicchiere di bourbon”, per usare le parole di un suo ex collega. Ma i due sapevano vendere. Nel corso degli anni i St. Pierre hanno venduto - o preso in considerazione l’idea di vendere - prodotti per neonati, maschere antigas, fotocopiatrici, guanti da golf, rottami di ferro, biancheria, zucchero, pistacchi e munizioni cinesi e russe. Quando hanno cominciato a importare vino, dopo aver acquistato una società di Hong Kong chiamata Asia solutions corporation, hanno creato anche un loro prodotto. La famiglia era originaria del Canada, ma St. Pierre ha pensato: “Sfruttiamo il nostro cognome francese”. Così è nato lo Chàteau St. Pierre, un vino rosso californiano imbottigliato da una fabbrica di Pechino. Sull’etichetta c’era il disegno di un castello che gli importatori avevano copiato da un libro. Una bottiglia costava 45 yuan, meno di sei dollari. Quasi tutto quello che St. Pierre sapeva sul vino lo aveva imparato bevendolo. Da quel punto di vista era molto preparato, ma dopo aver messo tutti i risparmi della sua vita in quell’impresa, ha scoperto che non aveva più nulla. “Quell’idea geniale che avevamo avuto non era stata poi così geniale”, dice Don junior. I cinesi non erano molto interessati al vino. Un giorno St. Pierre ha ordinato una bottiglia in un ristorante di Pechino e si è accorto che i camerieri si sforzavano di stapparla con un apriscatole. A quel punto ha cominciato a regalare cavatappi. Due anni dopo, quando padre e figlio sono andati a Bordeaux per il Vinexpo, la più grande fiera di vini del mondo, nessuno li ha presi molto sul serio. Alcune regioni della Cina si trovano sul 45° parallelo, alla stessa latitudine di Bordeaux, e il paese produce una piccola quantità di vino dai tempi della dinastia Han, ma il vino non è mai stato una bevanda popolare. Molti cinesi lo chiamano il liquore rosso, per distinguerlo dal liquore bianco o baijiu, un fortissimo distillato di cereali che è molto più diffuso. Per decenni le enormi aziende vinicole statali avevano mescolato l’uva con prodotti chimici e coloranti, e il risultato aveva fatto passare la voglia di bere vino ai pochi cinesi che avevano osato assaggiarlo. Ma da quando la Cina ha cominciato ad aprire i suoi mercati, le prospettive del commercio di vino sono migliorate. Il ministero dell’agricoltura stava cercando di svezzare la popolazione dal baijiu per poter destinare i cereali all’alimentazione invece che alla produzione di alcol. Nel 1996 il consiglio di stato ha vietato il consumo di baijiu ai banchetti ufficiali. La Cina si stava anche preparando a entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio, e questo avrebbe comportato una riduzione dei dazi sulle importazioni, facendo scendere il prezzo dei vini stranieri. I cinesi di solito diluivano il vino con le bibite analcoliche (secondo un detto popolare, “vino rosso e Sprite, più ne bevi e più diventi dolce”). Ma i ragazzi la consideravano un’abitudine da cafoni e tra i produttori di vino stranieri qualcuno aveva cominciato a pensare che la sempre più numerosa borghesia cinese avrebbe potuto imparare ad apprezzare il vino per apparire più raffinata, come avevano fatto gli statunitensi negli anni sessanta. Alla fine del 1998 St. Pierre ha avuto un’idea: una confezione regalo per il capodanno cinese con due bottiglie di vino e un paio di slip da donna che si intravedevano da un riquadro di cellophane. I suoi dipendenti gli hanno fatto notare che la Cina non era ancora pronta per questo e gli hanno suggerito di metterci una cravatta all’occidentale, che stava diventando di moda. St. Pierre si è accordato con una fabbrica che gli ha fornito uno stock di cravatte a 60 centesimi l’una. Ha preparato 200 confezioni regalo e le ha mandate a PriceSmart, una catena di supermercati di Pechino e Shanghai. “Il primo giorno che le hanno messe in vendita, sono andate tutte esaurite”, ricorda. “Niente male”. Prima che finissero le feste l’Asc aveva venduto duecentomila scatole. L’anno dopo e quello successivo l’iniziativa promozionale è stata ripetuta. “È stata la nostra salvezza”, dice St. Pierre. A sessantotto anni St. Pierre ha i capelli grigio-biondi, la barba e la voce arrochita dal fumo. Gli piacciono i vestiti costosi e le cravatte larghe, uno stile vistoso che ricorda i tempi d’oro del suo vecchio capo alla Chrysler, Lee Iacocca. Gli uomini della sua generazione e della sua classe sociale preferiscono non accendersi da soli la sigaretta se c’è una cameriera disposta a farlo in cambio di una strizzatina d’occhio. “Lui e mia madre non hanno mai risparmiato un centesimo”, dice il figlio. “Non voglio neanche pensare quante volte hanno rischiato di restare senza i soldi per pagarmi la scuola. Non è che giocasse d’azzardo. Spendeva i soldi per noi. Si godeva la vita. È uno di quelli che se hanno mille dollari in tasca si sentono dei signori e li spendono per una buona cena”. Non è raro, di sera, trovare St. Pierre sul secondo sgabello a sinistra del bar del Capital Club, un locale esclusivo che accoglie sia cinesi sia stranieri al cinquantesimo piano di un grattacielo da cui si vede un ampio panorama di Pechino. Qualche anno fa ha trovato una cinese di nome Zhu Wen seduta al suo posto e la prima cosa che le ha detto è stata: “Sono Don St. Pierre. Lo chieda a chiunque. Quel posto è mio”. Lei lo ha mandato a quel paese. Due anni dopo si sono sposati. Il primo matrimonio di Don, durato 39 anni, era finito nel 2004.

Il segreto del suo successo

Qualche tempo fa, quando ci siamo incontrati in quel bar, quasi tutti quelli che passavano si fermavano a salutarlo. “Come stai, stronzo?”, rispondeva con un sorriso, e per lui era un complimento. Questo atteggiamento aggressivo emerge anche nel suo unico hobby, il golf. Nel 1997, durante un torneo di beneficenza, accusò la squadra avversaria di barare. Il gruppo era composto da quattro alti funzionari del Partito comunista, tra cui un generale dell’esercito e il presidente di una grande fabbrica di armi. I suoi amici lo invitarono a lasciar perdere, ma lui prima di farlo alzò il dito medio e disse: “Andate a farvi fottere, imbroglioni!” (le sue proteste convinsero gli organizzatori del torneo a dare alla sua squadra una quota del premio). Ho chiesto a St. Pierre se non ha mai pensato di essere troppo aggressivo. Ha aggrottato la fronte e mi ha risposto: “Che significa troppo aggressivo? Devi far fuori i tuoi avversari o no?” Con la sua tattica, l’Asc è diventata la più grande importatrice divino in Cina e i suoi profitti superano i 70 milioni di dollari all’anno. Jancis Robinson, un famoso esperto londinese, ha scritto che i St.Pierre hanno raggiunto “una posizione nel mercato del vino cinese pari a quella dei Gallo negli Stati Uniti”. “È stata l’Asc a introdurre il vino in Cina”, dice Patricio de la Fuente Saez, un importatore rivale. “Sono stati loro i pionieri. Hanno fatto un lavoro incredibile. Probabilmente senza l’Asc metà dei cinesi che oggi bevono vino non lo comprerebbero”. Nel 1998 Gernot Langes-Swarovski, l’erede dell’impero del cristallo austriaco, ha comprato il 49 per cento delle azioni della società (in seguito è arrivato al 70 per cento), e l’Asc ha usato quei soldi per espandersi. Nel 2001 sono arrivati i primi profitti. I St. Pierre hanno approfittato delle dimensioni della loro azienda per attirare le etichette più prestigiose sottraendole ai loro concorrenti. Gli importatori di vino stavano aumentando, oggi sono più di mille, ma nel frattempo l’Asc aveva firmato accordi con più di cento fornitori. La concorrenza era ormai così forte che, a volte, somigliava a una guerra: i dipendenti dell’Asc raccoglievano informazioni sulle navi sospette che attraversavano il Pacifico per scoprire se c’erano ditte che compravano un carico di vino e lo mandavano in Cina aggirando gli importatori locali. Dal 2004 al 2008 i profitti dell’Asc sono cresciuti in media del 46 per cento l’anno. L’azienda è cresciuta così rapidamente che Campbell Thompson, ex responsabile del marketing, dice: “Gran parte del lavoro consisteva nel cercare di non farsi prendere la mano”. Il Chàteau Latour è un Bordeaux molto richiesto e nel 2007 i St. Pierre ne hanno comprato più di chiunque altro al mondo. Poi, il 6 marzo del 2008, l’ufficio per la prevenzione del contrabbando delle dogane cinesi ha avviato un’indagine sugli importatori di vino perché sospettava che “falsificassero i prezzi”. I suoi agenti hanno cominciato a perquisire tutte le ditte per controllare anni di documenti alla ricerca delle prove che gli importatori abbassavano il prezzo dichiarato dei vini per pagare meno tasse doganali. Anche la Asc fine wines, che aveva trasferito la sua sede a Shanghai, è stata presa di mira. Negli ultimi tempi era Don junior, che ormai aveva 42 anni ed era padre di due figli, a occuparsi quotidianamente della società di cui era diventato l’amministratore delegato. Gli piaceva indossare abiti fatti su misura, occhiali di tartaruga e, ogni tanto, un paio di pantaloni rosso vivo. Aveva conosciuto sua moglie Monica Xu, originaria di Shanghai, a una presentazione di vini, e i loro figli erano bilingui. Rispetto a suo padre era più sobrio, ma mascherava1a sua forza. “Non ho mai conosciuto nessuno così determinato”, dice Joel Thevoz, che ha studiato con lui alla George Washington University. L’ufficio di Don junior era meticolosamente ordinato ma allegro, pieno di calici a stelo e costose bottiglie divino. Di solito era lì alle otto di mattina, ma per caso il giorno in cui sono arrivate le autorità doganali non c’era. Poco dopo la loro visita, lo hanno invitato a presentarsi per fargli qualche domanda. Due giorni dopo, quando è tornato a Shanghai, ha chiesto al suo autista di portarlo all’ufficio della dogana. Da lì, è stato portato al centro di detenzione di Shanghai e messo in una cella con altre cinque persone: tre cinesi, un uomo di Hong Kong e un nigeriano. Due aspettavano di essere processati per reati violenti. Don St. Pierre ha contattato i suoi amici influenti per chiedere aiuto. Ha scritto una lettera aperta all’esperto londinese Jancis Robinson in cui, a proposito di suo figlio, diceva: “Mi è stato assicurato che nel giro di pochi giorni tornerà nel suo ufficio e questa storia farà la stessa fine di tante altre che mi sono capitate nei 22 anni che ho passato in Cina. Sarà dimenticata”. Donald St. Pierre è nato su un’isola del fiume Ottawa, in una fattoria senza elettricità, riscaldamento né acqua corrente. D’inverno la famiglia dormiva in cucina per stare vicino alla stufa. Quando Don aveva nove anni, suo padre, un installatore idraulico, trovò lavoro a Windsor, nell’Ontario, sulla sponda canadese del fiume davanti a Detroit. Il suo primo impiego fu all’ufficio corrispondenza della Ford. Di sera seguiva le lezioni di scienze politiche ed economia all’Henry Ford community college dell’università di Windsor, ma non si laureò mai. A diciannove anni, conobbe a una festa Patricia Collison, un’aspirante hostess di Windsor che se l’era svignata da un ballo della Ywca. “Faceva progetti per il futuro più di tutti gli altri miei amici”, racconta Collison. “Era così sicuro di sé e diceva che se avessi avuto fiducia in lui, ci saremmo divertiti molto insieme”. Quattro anni dopo si sposarono. Lei era hostess di terra alla Pan Am, mentre lui si faceva strada nella Ford. Ebbero un figlio, Don junior, e nel 1976 si trasferirono a Detroit. Nel 1982 St. Pierre era già responsabile delle forniture per il reparto esteri della Jeep all’American Motors e la società lo mandò in Indonesia. A Jakarta Don junior, che all’epoca frequentava le scuole superiori, fu conquistato dall’Asia. Adorava Tai Pan, il romanzo di James Clavell sulle imprese di un mercante di Hong Kong dell’ottocento che girava sempre con “un coltello nei pantaloni e uno nello stivale destro”. All’università, studiò il mandarino e parlava tanto spesso del libro di Clavell che lo soprannominarono Tai Pan. Nel giro di qualche anno, St. Pierre fu promosso presidente di una pionieristica joint venture chiamata Beijing Jeep, che aveva come scopo assemblare le jeep Cherokee in Cina e aprire la strada a rafforzare i rapporti commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti. Ma incontrò una serie di problemi burocratici, soprattutto perché il governo cinese non voleva spendere i suoi preziosi dollari americani per importare i pezzi di ricambio. Come avrebbe scritto più tardi Jim Mann nel suo libro BeijingJeep, St.Pierre diventò famoso perché rivelò i suoi problemi alla stampa. Quando scrisse una lettera al premier cinese Zhao Ziyang per avvertirlo che l’azienda stava fallendo, il funzionario del Partito comunista assegnato all’impresa lo rimproverò. St.Pierre perse la pazienza e, a quanto scrive Mann, gridò: “Continuerà a fare quello che sto facendo!” Il funzionario rispose: “Lei è fortunato a non essere cinese, altrimenti sarebbe nei guai”. St. Pierre chiese ai suoi capi di tenere duro, dicendo: “Non possono permettersi di lasciarci andar via di qui”. E aveva ragione. I negoziatori cinesi cedettero. St. Pierre apparve in televisione mentre stringeva la mano a Zhao e si fece amici preziosi come Zhu Rongji, il funzionario che sovrintendeva alla BeijingJeep, il quale in seguito sarebbe diventato primo ministro. Non tutte le iniziative imprenditoriali di St. Pierre sono andate così bene. Ma St. Pierre è citato in almeno cinque libri sulla storia dei rapporti economici con la Cina. All’inizio degli anni novanta, con l’aiuto delle loro conoscenze altolocate, St. Pierre e suo figlio si imbarcarono nella nuova impresa di importare negli Stati Uniti parti di ricambio di certe armi, soprattutto casse peri fucili Sks e accessori per le pistole Makarov. Nessuno dei due aveva mai sparato con niente di più pericoloso di un fucile ad aria compressa, mi ha raccontato St. Pierre, e alcuni dei loro nuovi soci erano “al limite della legalità”, ma “gli affari sono affari”. Presto si accorsero che si poteva guadagnare molto di più con le munizioni e cominciarono a importare proiettili calibro 7,62 per armi semiautomatiche, granate e pallottole calibro 5,56. Nel maggio del 1995 agenti dell’Fbi, dell’Atf (Bureau of alcohol, tobacco, firearms and explosives), del servizio dogane e di altre agenzie statunitensi fecero irruzione nel deposito dei St. Pierre a Santa Clara, in California, e sequestrarono tutto, accusandoli di importare illegalmente munizioni che erano state vietate un anno prima. Settantaquattro milioni di pallottole, “il più grande sequestro di munizioni mai compiuto negli Stati Uniti”, disse un agente federale. Le imputazioni, tra cui quelle di un possibile complotto, contrabbando e importazione di merce illegale, sarebbero state formulate nel giro di pochi giorni. La notizia finì su tutti i giornali, l’attentato di Oklahoma City era avvenuto solo qualche settimana prima e un agente federale aveva paragonato il deposito dei St. Pierre all’arsenale di un piccolo stato. I St. Pierre risposero alle accuse mostrandosi indignati, quella storia era “assolutamente ridicola”, dichiarò all’epoca Don
junior a un giornalista del San Francisco Chronicle. Il governo li aveva accusati d importare munizioni cinesi illegali, ma padre e figlio insistevano nel dire che la loro merce era russa, non cinese. Cinque settimane dopo, le autorità ritirarono le accuse: “Un fiasco storico”, lo definì il Mercury News. Venne fuori che i St. Pierre avevano anticipato il divieto di importazione di munizioni cinesi e avevano cominciato a comprare dai russi un anno prima dell’incursione degli agenti. Anche se furono prosciolti, il periodo di chiusura forzata fu così costoso che decisero di tentare un’altra strada. Avevano ancora un milione e mezzo di dollari da investire e morivano dalla voglia di importare qualcosa in Cina. Pensarono alle noccioline (ma il settore era troppo affollato), allo zucchero (troppo corrotto), alle mazze da golf (troppo limitato). Stavano indagando sul commercio dei rottami di metallo quando qualcuno accennò al fatto che la fabbricazione dei tralicci che sostengono le viti in Cina sarebbe costata di meno. Se dobbiamo occuparci di tralicci, pensò St. Pierre, perché non occuparci direttamente di vino? Alcuni suoi amici nell’industria automobilistica avevano rapporti con i produttori di vino californiani, italiani e australiani, e i St. Pierre misero insieme un piccolo catalogo di bottiglie da importare. Negli ultimi anni, ogni volta che sono tornati al Vinexpo, i St. Pierre hanno avuto molti contatti con i produttori di vino europei. In Europa il consumo di vino sta ormai diminuendo da quarant’anni, perché le nuove generazioni ne bevono sempre meno delle precedenti. I francesi adulti bevono in media 43 litri divino all’anno, più o meno un bicchiere al giorno rispetto ai tre degli anni sessanta. La stessa cosa sta succedendo in Italia, in Spagna e in altri paesi, quindi l’Europa ha un’eccedenza che nel settore viene chiamata “lago di vino” e che nel 2006 era di circa 1,5 miliardi di litri, l’equivalente di quattro bottiglie per ogni cittadino europeo. Per correre ai ripari, l’Unione europea ha sponsorizzato un programma di “distillazione di crisi”, che prevede la trasformazione del vino in eccesso in bioetanolo e prodotti per le pulizie, e incoraggia alcuni agricoltori a sradicare le viti e ritirarsi dall’attività “in modo dignitoso”, per usare le parole del commissario all’agricoltura. Vendere alla Cina, naturalmente, sarebbe una soluzione più allettante. Oggi la Cina è all’ottavo posto tra i paesi del mondo che consumano vino e, secondo Vinexpo, sta battendo la Spagna. I cinesi bevono ancora soprattutto il loro vino, che è migliorato, anche perché nel 2003 il governo ha vietato l’uso di addensanti, saccarina, ciclamato, coloranti artificiali e altri additivi. Le importazioni costituiscono meno del 15 per cento dei consumi, ma per i produttori francesi è “più di un Eldorado”, mi ha detto il presidente della Château Latour, Frédéric Engerer. I produttori bordolesi non si sono mai fatti tentare dai clienti esotici. “All’inizio degli anni ottanta c’era una grande richiesta dal Texas, e in Francia dicevamo: “Questi texani non sanno bere il nostro vino, sono dei barbari”, mi ha raccontato Engerer. “Poi, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, sono arrivati i giapponesi, e non lo bevevano nemmeno, lo regalavano. Anche quello ci faceva ridere. Adesso ci sono i cinesi”. Ma oggi, dice Engerer, la Francia non può permettersi di essere arrogante. “Dovremmo stare calmi e dire: “Vi siamo grati di aver deciso di comprare una cosa che non appartiene alla vostra cultura”.
Mentre molti europei e americani ormai comprano vini da pochi dollari a bottiglia, i cinesi sono in una fase di esibizionismo consumistico (“Nei nostri negozi, se abbiamo un prodotto che non si vende alziamo il prezzo”, mi ha detto un importatore). Robert Parker - Pa Ke peri suoi fan cinesi - ha fatto la sua prima visita in Cina l’anno scorso, compresa una cena da 2.300 dollari a testa sulla Grande muraglia. La cena prevedeva sette portate, gli invitati dovevano essere vestiti da sera e i tavoli erano stati sistemati tra due delle antiche torri in pietra e mattoni della sezione Badaling della Muraglia, un e0x avamposto militare che è stato ristrutturato ed è servito da una funicolare.
Una sera di non molto tempo fa ho partecipato a una cena organizzata dall’Asc per i suoi clienti a Shanghai, in un ristorante chiamato Exquisite Bocuse, arredato con mobili di legno scuro, vetrate liberty e vasi greci. Ero seduto a uno dei tanti tavoli rotondi di fronte a Bob Miao, uno dei dirigenti di un’azienda che vende pezzi di ricambio per auto. Era un uomo sui 35 anni con gli occhiali e i capelli a spazzola. Aveva scoperto il vino una decina di anni prima, mi ha detto, quando lavorava per una impresa francese. Nella primavera scorsa ha investito 70 mila dollari dei suoi risparmi in fitures di vini. Spera che almeno in parte si riveli un investimento saggio. “Il resto lo berrò io”, dice scherzando.

Effetto Bordeaux

Ai bevitori cinesi piace particolarmente lo Chàteau Lafite Rothschild, uno dei Bordeaux più costosi (un Lafite del 1982 costa più di tremila dollari). Ogni anno i cinesi ne comprano tante bottiglie - il produttore non ha voluto dirmi esattamente quante - da far salire il prezzo in tutto il mondo, un fenomeno che qualcuno ha definito “effetto Lafite”. Qualche tempo fa, laChâteau Lafite Rothschild ha annunciato che sta per aprire un’azienda vinicola nella provincia dello Shandong per produrre il primo “grand cru cinese”. Sarà nella città portuale di Penglai, che per attirare i turisti si è data il soprannome di Nava valley. Il Lafite sta entrando nella cultura popolare cinese come il Cristal era diventato lo champagne di quella hip hop americana. Alla periferia di Pechino un costruttore ha eretto una copia del castello di Lafite che può essere affittato per matrimoni e altre occasioni. Nel film d’azione Giovani e pericolosi parte V ,girato a Hong Kong, un personaggio dice a un capo mafioso: “Porta un po’ di bottiglie di Lafite dell’82 e chiama le ragazze più carine!”. Nel centro di detenzione di Shanghai, le luci rimanevano accese giorno e notte. Oltre a Don junior la polizia aveva arrestato Carne Xuan, una dei vice presidenti dell’Asc, che era detenuta in un’altra prigione. Gli arresti avevano scatenato commenti poco lusinghieri sul commercio di vino in Cina. Simon Tam, un consulente di vini di Hong Kong, scrisse un paio di articoli sul sito web di Jancis Robinson in cui parlava di quella che definiva “la pratica comune, da parte di certi importatori di vino, di abbassare sistematicamente il prezzo dichiarato delle bottiglie di più del 50 per cento”. Citava fonti doganali francesi, secondo le quali nel 2007 era stato esportato in Cina molto più vino di quanto ne risultasse alle dogane Cinesi. Come altri aspetti dell’economia emergente cinese, il commercio del vino era cresciuto troppo in fretta perché la legge potesse stargli dietro. Secondo l’importatore, il 70 per cento dei vini pregiati, compresi quelli il cui valore viene sottovalutato alla dogana, entra in Cina di straforo. Con tanta concorrenza e il contrabbando che fa scendere i prezzi, dice, “il problema è che se rispetti la legge non riesci a essere competitivo”. L’8 aprile 2008, 28 giorni dopo il suo arresto, Don junior fu rilasciato. L’Asc ammise un numero limitato di sottovalutazioni e accettò di pagare le tasse arretrate per un totale di 1,8 milioni di yuan, circa 264 mila dollari, una somma relativamente modesta rispetto al volume d’importazioni della società. Don junior non fu mai incriminato. Carrie Xuan era stata rilasciata tre giorni prima. Più di un anno dopo, quando le ho chiesto di quel periodo in carcere, è scoppiata a piangere. Lavora ancora all’Asc, ma sua sorella le ha chiesto di lasciare l’azienda. Non ha mai detto ai genitori di essere stata in prigione. “Sono troppo vecchi per sopportarlo”, dice. L’indagine sul vino si allargò e, secondo il quotidiano di stato Fazhì Ribào, alla fine dei 2008 portò a 29 condanne, per 25 milioni di dollari di vino non dichiarato. Le aziende furono accusate di aver falsificato le fatture e la documentazione passando attraverso Hong Kong, dove non ci sono dazi sulle importazioni di vino. I St. Pierre non hanno mai fatto niente del genere, mi ha detto un pomeriggio Don junior nel suo appartamento di Shanghai. “Quando arrivi in Cina, nessuno ti dice: questa è la legge. Molti pensano che non li riguardi! Ma adesso sanno che non è così”. Nei mesi successivi al suo rilascio, Don junior ha trasformato l’Asc in una società cinese convenzionale: ha assunto come direttore generale un ex funzionario del governo che ha molti contatti e conosce la legge. Da anni gli stranieri si lamentavano dell’assenza di una normativa, ma intanto la sfruttavano. Oggi, dice Don, “penso che quello che è successo a noi dimostri chiaramente che se ti metti in affari sei soggetto alle stesse regole degli altri” (nel marzo del 2010 il gruppo giapponese Suntory ha acquisito il 70 per cento delle azioni di proprietà della Swarovsky, Don si è ritirato dall’azienda e il figlio è stato nominato amministratore delegato).
In fondo alla strada che ospita gli uffici dell’Asc c’è la Wine Residence, un circolo “per raffinati amanti del vino” situato in un edificio tranquillo e restaurato da poco. I soci possono conservare le bottiglie in armadietti di legno scuro, con una targhetta in ottone che porta il loro nome, in una cantina a temperatura controllata. È aperto al pubblico per i pasti e per corsi che l’Asc chiama di “educazione al vino”. Una mattina ho partecipato alla lezione di un corso intermedio e mi sono seduto a un lungo tavolo apparecchiato con una serie di bicchieri vuoti. Intorno al tavolo c’erano dieci studenti cinesi, uomini e donne che andavano dai venti ai quarant’anni. Alcuni si erano iscritti di propria iniziativa, altri lavoravano per ristoranti di lusso ed erano stati mandati lì dai datori di lavoro. A ognuno era stato consegnato un pacco di libri in inglese e cinese, ne ho sfogliato uno e ho trovato questo test “Su una bottiglia di Riesling tedesco la scritta ‘Beerenauslese’ significa che il vino è a) prodotto con uve provenienti da vigneti diversi, b) frizzante, c) invecchiato in bottiglia per un lungo periodo, d) fatto con uve molto mature”. Il tentativo di tradurre in cinese tutta la cultura occidentale del vino ha prodotto strani risultati. I nomi di alcuni tipi di uve e di alcune regioni sono stati resi foneticamente (Château Margaux è stato tradotto per praticità “Ma ge”), altri idiomaticamente (Châteauneuf du Pape è diventato Jiaohuang xin bao, “la nuova fortezza del pontefice”).

A scuola di vino

In aula c’era molta apprensione. L’insegnante, un uomo alto in camicia bianca a maniche corte che chiamavamo “Maestro Hao”, cercava di semplificare le cose. “Come fate a riconoscere i nomi italiani?”, ha chiesto in cinese. Nessuno ha risposto. “Se finisce per ‘a’ o per ‘o’, probabilmente è un vino italiano”. I miei compagni di classe apparivano soddisfatti. Poi Hao ci ha mostrato come aprire una bottiglia con il cavatappi in modo discreto “per non offendere l’ospite”. “E se vedete un’etichetta in cinese”, ci ha consigliato, “non compratelo perché non è importato”. Abbiamo assaggiato un Crozes-Hermitage, un Chianti classico, un barbaresco, un tempranillo, un Freixenet, uno sherry e un porto, e fatto una rapida rassegna di brandy, whisky, rum e tequile. Io non lo risputavo e a metà pomeriggio cominciavo a sentirne le conseguenze. A quel punto ci ha insegnato ad aprire una bottiglia di champagne. “È meglio farlo rumorosamente o con discrezione?”, ci ha chiesto Hao. David, un giovane maître con un taglio di capelli alla moda, ha provato a rispondere. “Meno rumore facciamo e meglio è, dev’essere come un tranquillo sospiro di piacere”, ha detto. “Giusto, ma di solito”, ha spiegato il maestro, “nei bar lo champagne si stappa rumorosamente, perché tutti devono sapere chi lo ha ordinato”. Una ragazza si è fatta avanti per stappare una bottiglia di prosecco. L’ha presa in mano con cautela, come se fosse una pistola carica. “Adesso cosa faccio?”, ha chiesto nervosamente mentre i miei compagni si allontanavano. “Posso allentare la presa?”. Pop! Ed è scoppiata a ridere. li vino ha cominciato a uscire a fiotti e lei ha scattato una fotografia.

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