La crisi economica da una parte, che ha reso sempre più difficile la sopravvivenza delle piccole aziende, e le esigenze del mercato, che richiede aziende di sempre maggiori dimensioni con adeguate disponibilità finanziarie dall’altra, hanno provocato l’uscita dal mercato delle aziende importatrici più piccole e la fusione di quelle di medie dimensioni spinte ad unirsi per poter meglio affrontare le esigenze di un mercato complesso quale quello degli Stati Uniti. Sono queste le cause “scatenanti” di questa nuova tendenza, se così può essere definita, che ha individuato l’Italian Wine & Food Institute, dopo la recente fusione fra due noti importatori di vini italiani (Winebow e The Vintner Group, che ha dato luogo al The Winebow Group, assurto a vero e proprio “colosso” dell’importazione da 1.200 dipendenti e 600 milioni di dollari di fatturato, operante in 15 Stati Usa, che rappresentano più del 50% dei consumi di vino negli Usa; accordo che Winenews ha dato in anteprima, ndr).
Una tendenza, che è tornata in primo piano, ma che, in realtà, è in atto da alcuni anni sul mercato statunitense. La ristrutturazione in corso, con la scomparsa dei piccoli importatori essenziali nell’introduzione di nuovi vini, “sta acquistando notevole rilevanza date le conseguenze che comporta”, secondo il presidente dall’Italian Wine & Food Institute, Lucio Caputo, per il gran numero di aziende italiane che desiderano esportare verso gli Stati Uniti. Che se non proprio un allarme, lancia comunque alcuni importanti avvertimenti al mondo italiano del vino, storicamente primo attore del mercato enoico a Stelle e Strisce.
Le aziende importatrici, specie quelle che emergono da fusioni e/o acquisizioni, si vengono a trovare infatti con dei portafogli vini di notevoli dimensioni che, nella maggior parte dei casi, sono sproporzionate per eccesso alle esigenze del mercato. Ne deriva che queste aziende importatrici sono costrette a cancellare o a congelare i rapporti con quelle aziende italiane i cui prodotti hanno minori possibilità sul mercato Usa e a non avere alcun interesse ad acquisire altri produttori.
Il problema è poi reso più complesso dal fatto che le aziende importatrici hanno molto più interesse a spingere quelle aziende e quei vini che incontrano il favore del mercato concentrando su questi tutte le risorse disponibili e sempre meno interesse ad introdurre nuovi prodotti il cui lancio e la cui introduzione sul mercato comporta notevoli costi che difficilmente potranno essere recuperati.
Risulta infatti più facile, meno costoso e più redditizio puntare all’aumento delle vendite di quei vini che già si vendono in un considerevole volume, che sono sufficientemente conosciuti e per i quali esiste una domanda da parte dei consumatori.
Questa situazione porta a limitare sempre più il numero delle case vinicole presenti sul mercato statunitense privilegiando quelle case che, negli anni, investendo sul proprio marchio lo hanno fatto conoscere ad un largo segmento di consumatori locali e che sono riuscite a presentare vini di qualità a costi contenuti investendo in attività promozionali a favore della propria produzione e che hanno sostenuto ed incoraggiato i propri importatori.
In questa difficile fase di transizione occorre, secondo Caputo, “prestare la massima attenzione al mercato statunitense, che è di primaria importanza, e che gli Enti preposti sostengano le esportazioni italiane con azioni promozionali di largo respiro che contribuiscano a far meglio conoscere i vini italiani, ad ampliare la domanda per la produzione italiana e ad ulteriormente migliorarne l’immagine”.
E’ da evitare invece, nel modo più assoluto, che si ricorra ad attività tendenti ad introdurre nuove aziende, senza aver prima ampliato la domanda, che finirebbero per creare azioni di disturbo, provocando una indebita concorrenza fra le aziende italiane che finirebbe con il danneggiare l’intero settore.
Del resto, l’“American Wine System” è un complicato mosaico dove una bottiglia di vino (italiano, ma anche francese, spagnolo ...) riesce ad arrivare, osservando tutte le regole di una filiera lunga e costosa ed assai diversa da quella europea, attraversando almeno tre passaggi obbligati: importatore, distributore e retailer (ristoranti e enoteche), con le “tappe” che ogni volta fanno lievitare i costi (tasse, trasporti, magazzino …). Ogni Stato ha poi una propria autonoma legislazione in materia, e ciò vuol dire 50 modi diversi, quanti sono gli Stati Usa. Il vino, in generale, negli Stati Uniti, si può consumare al ristorante, oppure si può acquistare in enoteca o nelle cantine, mentre i ristoratori e gli enotecari possono comprarlo solo da distributori domiciliati nello Stato. L’importatore, a sua volta, non può vendere direttamente né ai consumatori né ai ristoratori né agli enotecari, ma solo ai distributori. La strozzatura più evidente del sistema americano sta dunque proprio nella distribuzione che, negli ultimi anni, ha subito una concentrazione notevole: negli anni Novanta, i grossisti erano 10.000, a fronte di 400.000 retailers di vario tipo (ristoratori, enoteche ...); oggi i grossisti, tra grandi e piccoli, sono 700 (e da soli, i cinque grossisti rappresentano il 48% del volume di affari, anche se la loro attenzione è rivolta ai liquori), a fronte di 550.000 retailers.
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