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L'espresso

Dinasty in cantina ... Seimila chilometri di viti e una storia lunga 190 anni. Che si intreccia con quella d’Italia. E che ora punta al mercati globali... Ogni famiglia ha la sua piccola saga, la sua narrazione privata che la lega al passato. Ma è soltanto quando una generazione svetta sulle altre e accende su di sé i riflettori del successo, che nasce la dinastia. Allora la narrazione si fa epica, mette insieme il suo pantheon e lo presenta al mondo. Così oggi Gianni Zonin, al traguardo dei 190 anni di una vigna atavica, e alla vigilia di un Vinitaly dove sarà ancora presente come maggiore produttore italiano, avrebbe tutti i numeri per farsi vanto di un passato radicato nella storia.
Ma l’uomo è diretto, franco e poco propenso alle mitizzazioni. “In realtà siamo stati poveri a lungo, come tutti i contadini veneti. Poi, negli anni Venti, uno zio ha avuto inventiva e io ho continuato la sua opera”, dice subito e dirotta l’attenzione su un presente imprenditoriale fatto di ricerca, tecnica, investimenti e, soprattutto, di una creazione tutta sua: il coordinamento centralizzato di aziende tipicamente regionali.

Un’idea da testimonial dell’unità d’Italia

“Amo questo paese e lo voglio unito. Possiedo 1.800 ettari distribuiti in sette regioni e in nove aziende. A ciascuna ho lasciato la sua etichetta, la sua tradizione e i suoi vitigni storici, ma il comando strategico deve essere unico. Certo, ci è voluto parecchio coraggio”.

Addirittura coraggio? Non bastano buoni investimenti?

“No, perché ogni regione è quasi una nazione a sé. A parte Veneto e Friuli che sono simili per vicinanza, non si possono applicare gli stessi metodi in Lombardia e, per esempio, in Puglia, dove le donne vogliono vendemmiare distanti dagli uomini. Si tratta di popoli che hanno mentalità e tradizioni completamente diverse. Se ho bisogno di lavorare il sabato e la domenica, perché magari sono gli unici giorni in cui non piove, non posso mica chiederlo ovunque!”.

Dov’è che è più facile?

“In Piemonte, dove c’è gente pronta a lavorare anche il giorno di Natale. I piemontesi hanno il dovere nell’anima, sono dei soldati. Ultimamente a una cena aziendale hanno cantato con le lacrime agli occhi l’inno nazionale”.

Non ci dica anche lei che gli sfaticati sono tutti al Sud.

“Niente affatto, i pugliesi sono altrettanto virtuosi, mentre i più intelligenti sono i siciliani, anche se vanno presi per il verso giusto. È in Toscana, dove ho tre aziende, che ho trovato maggiori difficoltà. Lì ho capito che non devo ragionare da veneto ma adattarmi alle diversità”.

Allora perché tanta fatica? Non le conveniva comprare mezzo Veneto?

“Intanto perché fare l’unità d’Italia attraverso i vini è una sfida affascinante e poi perché nel marketing non va sottovaluto l’aspetto commerciale della varietà. Quando vado nel mondo, non presento mica vino italiano. Illustro il Pro- secco o l’Amarone veneti, il Barbera piemontese, il Chianti o la Vernaccia toscana, il Fiano del Salerno... E racconto implicitamente le meraviglie di questo nostro Paese”.

Con migliaia di ettari non si rischia comunque di privilegiare la quantità sulla qualità?

“Se metto in fila tutte le mie viti faccio 7 mila chilometri e copro la distanza da qui all’Argentina. Ma è proprio questo che mi permette di sfatare il preconcetto del “piccolo è bello”, molto radicato in Italia. Al contrario, quando uno ha davvero il vino nel sangue, è solo la quantità che permette di migliorare la qualità”.

Lei capovolge un’idea comune, che è stata difesa a lungo anche da Veronelli. Ora deve convincerci.

“Guardi che, alla fine, anche Veronelli sospettò di avere torto, tanto che cominciò a occuparsi soprattutto di olio. La grande azienda permette di assumere bravi enologi, aggiornare la tecnologia, fare ricerca e sperimentazione, chiamare consulenti di prestigio. Il preside della facoltà di enologia di Bordeaux, che ci assiste da tempo, non si sposta certo per una vigna di cinque ettari, I grandi vini non si improvvisano. Una volta si diceva che solo il contadino fa il vino buono: balle. Già negli anni Settanta ho fatto un Carosello con un contadino che si piegava ai tempi dicendo: Zonin compra le mie uve e io compro il suo vino”.

Ha funzionato?

“Molto bene. Quarant’anni fa era un’idea vincente. Era l’epoca in cui i Zonin acquistavano ancora vino dai produttori e io avevo preso da poco in mano l’azienda. Anzi me l’aveva data il mio grande zio Domenico, nominandomi presidente a 29 anni”.

Si capisce che ha voglia di parlare del fondatore. Ci racconti dl lui.

“Un uomo straordinario, che da giovanissimo si ribella a un destino di contadino bloccato a coltivare una frazione di vigna, si fa liquidare la sua piccola quota di eredità e mette su una sua piccola distribuzione con sette carrettieri che partivano di notte per consegnare il vino
Vicenza, a Padova, a Verona. Ma andavano a piedi perché il cavallo non poteva trainare anche il loro peso. Era il 1921 e già due anni dopo lo zio Domenico vinceva una medaglia d’oro a una mostra di vini e liquori a Roma”.

La sua era una famiglia numerosa. Come mal è stato lei l’unico erede dell’azienda di suo zio?

“Perché gli sono stato tra i piedi fin da piccolo, parcheggiato da mia madre che era sempre incinta, perché ha voluto che studiassi enologia a Conegliano strappandomi dal ginnasio dove mi avevano iscritto, perché ha seguito da vicino i miei studi fino a organizzare una magnifica festa nel castello di Giulietta e Romeo a Montecchio il giorno dei mio diploma... Insomma per amore, credo”.

È stato difficile sentirsi all’altezza di questa Investitura?

“Più che un’investitura è stata una sfida. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: “Ti lascio l’azienda senza debiti ma non ti lascio neanche un soldo. Altrimenti ti adagi e non corri per farla crescere”. Con i soldi ha fatto beneficenza in tutto il territorio, ha costruito un asilo e un pensionato per vecchi: cento posti ciascuno dotati di un patrimonio immobiliare che li rende sicuri nel tempo”.

Gambellara, 3 mila abitanti e un grande patron. Sembra quasi una piccola Ivrea.

“E in parte lo è, con caratteristiche tutte venete, diciamo più cattoliche e caritatevoli rispetto alla città degli Olivetti. Per tutti gli anni della guerra, zio Domenico ha dato un pasto a 200 persone in difficoltà, ogni giorno. In seguito ha continuato ad aiutare il prossimo senza tanto clamore. È morto nel 2000, all’età di 101 anni”.

Ma è stato lei, li nipote, a fare della Zonin l’azienda leader dl oggi. Si riconosce del talento?

“Mi riconosco fiuto e voglia di crescere, ma anche una certa capacità di percepire il mercato. Perché il vino è anche una moda e i consumi si spostano ogni dieci anni circa. Quando ho cominciato, facevano furore i vini toscani, poi sono arrivati i piemontesi, poi i veneti con Soave e Valpolicella, poi i friulani e così via. In questi ultimi tre o quattro anni è esploso il Prosecco. Me lo sentivo e quando, dieci anni fa, l’ho fatto piantare nella mia tenuta in Friuli, mi hanno preso tutti per ubriaco o per rimbambito. E invece...”.

Sentiamo allora quali saranno i prossimi.

“Sto pensando a due vini che, nel mercato estero, sostituiranno il Pinot grigio in fase discendente. Sono il Fiano, che già produco in Puglia, e il Vermentino. Li porterò anche in Cina, dove stanno imparando a bere, anche se per ora scelgono il vino francese”.

Zonin, lei è anche presidente della Banca Popolare di Vicenza. Che scelta è per un viticultore?

“Ho cominciato per fare un piacere a mio suocero e poi sono rimasto perché penso che un territorio debba avere i suoi sportelli e servire al meglio la clientela del luogo”.

Però ci ha preso gusto, ha fondato una banca anche in Sicilia.

“Sì, con la Popolare di Trapani e altre acquisizioni siamo passati da 110 a 680 sportelli. Che vuole? Come per il vino, se ho una cosa non riesco a tenerla ferma”.

Non le hanno mai proposto dl entrare in politica?

“Più volte e da fronti opposti, ma lì non ci casco. Conosco troppi imprenditori che sono scappati via delusi”.

Dalla sua posizione, come vede il federalismo fiscale prossimo venturo?

“Le rispondo da imprenditore: se ho un’azienda grande che non funziona, faccio di tutto per rimetterla in sesto. Sarei un pazzo se la dividessi in tante piccole aziende per vedere se qualcuna va bene e qualcuna no”.

Zonin, lei ha una villa palladiana in Veneto, una rinascimentale in Toscana, una residenza in Virginia che apparteneva al governatore. È un cultore del lusso?

“Amo la campagna, non il lusso. Di queste residenze mi piace il fatto che siano al centro di un territorio che le riguarda. Le belle aziende di una volta avevano sempre una villa o un castello. Quando le compro, le trovo già così e restauro le residenze”.

Con tre figli trentenni, prima o poi dovrà porsi il problema della successione. Come sceglierà?

“I miei figli sono tutti e tre in azienda. Due di loro sono già vicepresidenti. Si dividono i compiti tra la produzione, il marketing e gli aspetti legali. Per ora li osservo. Vorrei restare ancora qua”.

Da Tokyo a New York ... La Casa Vinicola Zonin, primo produttore italiano e secondo In Europa, dirama le sue vigne su nove tenute In sette regioni. Oltre all’originario Podere Il Giangio a Gambellara nel vicentino, nel tempo ha acquisito Castello d’Albola, Abbazia di Monte Oliveto e Rocca di Montemassi in Toscana; Ca’ Baiani In Friuli; Castello del Poggio in Piemonte; li Bosco in Lombardia; Feudo Principi dl Butera In Sicilia; Masseria Altamura in Puglia. La decima tenuta, Baboursville Vineyards, è invece stata impiantata direttamente in Virginia fin dagli anni Settanta.
La produzione complessiva è di 24 milioni dl bottiglie, li 60 per cento delle quali Indirizzata al mercato estero. Di recente l’attività si è estesa anche ai wine bar chiamati Gustavo, già attivi a Tokyo e in apertura a Manhattan e a Londra. Forte del premio “Granvinitaly 2010”, Zonin presenta alla manifestazione dl quest’anno alcune anteprime, fra le quali il nuovo Aquills 2010, Sauvignon Bianco in purezze del Friuli e il Delleila 2009 cru di Nero d’Avola. I 190 anni della casa saranno invece festeggiati con le bollicine del prosecco cuvée 1821.

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