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L’intervento di Carlo Cambi - “Giacomo Tachis. O del vino assoluto. È il primo Vinitaly senza il più grande degli enologi. L’eredità tecnica e umana e l’insegnamento più profondo: fare vino con rispetto e umiltà. “Piante” difficili oggi da coltivare”

Italia
Giacomo Tachis

Sarà il primo Vinitaly senza Giacomo Tachis ed è doveroso non solo ricordarlo, ma testimoniarlo. Ora “Mino”, come amava farsi chiamare dagli amici, coltiva la vigna celeste e ho la presunzione di ritenere che stia insegnando anche lì come si fa. Per uno che ha creato vini paradisiaci, fare vini in Paradiso dev’essere uno scherzo! Quando ci ha lasciati molti hanno detto: è stato l’uomo del Rinascimento del vino. È vero, ma ho avuto la sensazione che quella definizione gliela abbiano appiccicata come un’etichetta facendo anche un po’ di confusione tra il risorgere del nostro vino dopo lo scandalo del metanolo e l’opera che già decenni prima Mino aveva iniziato e compiuto. Basta considerare che il primo Sassicaia firmato Tachis è la vendemmia ’68, il primo Solaia è di dieci anni più tardo e il Tignanello uscì con l’annata ’71. Ciravegna avvelenò il vino nell’86.
Tuttavia è vero che Giacomo Tachis è stato uno scienziato totalmente rinascimentale. Abbiamo passato giorni a discutere attorno a Marsilio Ficino e a quell’idea dell’uomo che coltiva e anima il creato con il suo spirito. Del pari Giacomo è stato totalmente rinascimentale perché non ha mai anteposto la tecnica all’anima - prima fra tutte l’anima della terra - e ha avuto dell’enologia non una visione finalistica bensì olistica: produrre vino come somma del tutto. La prima innovazione che Tachis ha introdotto in Italia è senza dubbio questa enologia colta: tecnicamente impeccabile, ma intellettualmente determinata e fondata su di un’eccezionale sensibilità. Per Giacomo produrre un vino eccelso era prima di tutto ricercare l’armonia da cui si sprigionasse la luce che aveva inondato i vigneti. L’ho visto fare le analisi del vino ascoltando Bach, l’ho sentito imparare greco e latino per poter leggere i classici - la sua biblioteca ora custodita da Chianti Banca e di cui si farà, forse, fondazione culturale, è una summa di tutto ciò che intellettualmente profuma di vino - ho camminato con lui chilometri di vigne semplicemente osservando la luce, annusando la terra, fiutando il vento. Aveva un sacro rispetto del naturale e lo indagava per trarne insegnamento. Anche in questo era rinascimentale.
Quattro, a mio modo di vedere, sono i lasciti enormi di Tachis alla nostra enologia e che hanno fatto fare un enorme salto di qualità ai nostri vini. Nascono tutti da una passione che in Mino era quasi un’ossessione: capire l’infinitamente piccolo, da cui era affascinato, per produrre qualcosa di veramente grande. Una consecutio che lo ha accompagnato anche nelle pratiche professionali: dalle micro-vinificazioni compiute con perizia certosina del Pinot Nero allevato sui fianchi vulcanici dell’Etna, ai tagli di decine di migliaia di ettolitri dettati al cantiniere per telefono semplicemente decrittando i dati analitici. Credo che tutto sia nato dal suo primo approccio professionale quando affascinato dalla distillazione - e questa vena druidica non lo ha mai abbandonato - voleva sapere tutto sulle essenze (le usava per fare Vermouth), sulla catena terpenica, sui legami molecolari degli zuccheri. Poi l’incontro con Emil Peynaud e la lettura approfondita di Pasteur gli hanno aperto l’orizzonte della microbiologia, della vita e del lavoro dei lieviti. Si spiega così l’ appassionata attenzione che Mino ebbe per i vin santi: comprendere come i batteri lavorano in condizione di quasi saturazione. Quando finalmente approdò all’Antinori ebbe modo di mettere in pratica le prime curiosità con i secondi studi. Da qui nasce l’eredità di Tachis. È stato il primo a praticare e poi a insegnare la fermentazione malolattica. Ma questo ha comportato non avere vini troppo acidi - da cui un lavoro in vigna orientato alla piena maturazione e alla concentrazione - e saper controllare le fermentazioni allungando al contempo le macerazioni e soprattutto gli affinamenti ottenendo in cambio vini dai tannini morbidi e dotati di souplesse, quella che Mino ha sempre ricercato. Ed ecco la seconda innovazione: la barrique. Intesa non come addizione di profumo, ma come vaso vinario in cui la micro-ossidazione è perfetta ed è data dall’equilibrio tra quantità di vino e superficie di contatto.
La terza innovazione è stata - soprattutto per i bianchi – la considerazione della catena terpenica per l’estrazione massima delle componenti aromatiche che Mino raccomandava doversi fare con le criomacerazioni. Vi è poi la quarta intuizione che ancora rimanda all’infinitamente piccolo e al suo invaghimento per Galileo Galilei: la luce. Non il sole per far maturare le uve, ma la frequenza della luce per attivare la fotosintesi interessava a Giacomo. Per questa ragione era innamorato della Sicilia, della Sardegna, della Maremma, delle piccole isole. Sulla frequenza di luce Mino fondava la supremazia - annunciata - del vino italiano rispetto a quello francese.
Vi è una quinta intuizione di cui però galileianamente - la scienza, disse il grande pisano, procede per prova ed errore - Tachis si era pentito: i vasi vinari in acciaio. Sono sterili, consentono un facile controllo delle temperature di fermentazione, agevolano i rimontaggi e perciò le macerazioni. Ma studiando a fondo i lieviti si era convinto che l’acciaio con le micro-correnti galvaniche finisse per isterizzare il vino. Così negli ultimi anni era tornato a benedire il cemento vetrificato. Era un’ulteriore avvicinamento all’armonia del naturale.
Ora però resta l’ultimo grande insegnamento, quello davvero universale e di cui pesante si fa l’eredità. Giacomo Tachis di sé diceva: sono un mescolavino e a fronte di lodi e lusinghe rispondeva con Dante: “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. Ecco l’insegnamento più profondo: fare vino con rispetto e umiltà. Due piante difficilissime da coltivare ai tempi nostri!
Carlo Cambi

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