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L’Italia ribadisce il suo no alla “liberalizzazione” dei nomi dei vitigni in Ue. Lo dirà oggi il Ministro Martina al Commissario all’Agricoltura Hogan. Cagiano, dg Federvini: “serve un piano nazionale, l’Italia deve essere modello e leader in Europa”

No alla “liberalizzazione” dell’uso del nome di vitigni che sono intimamente e storicamente legati all’Italia e ai suoi territori. Lo ribadirà il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, nell’incontro di oggi a Bruxelles con il Commissario all’Agricoltura Phil Hogan, dove si discuterà, tra l’altro, di questa che è stata ribattezzata una vera e propria “deregulation”. Una questione atavica, in realtà, e che parte dal fatto che l’impianto normativo europeo sulla tutela delle denominazioni del vino protegge le indicazioni geografiche, ma non i singoli nomi dei vitigni o varietali. Anche nel caso, come spesso accade in Italia, che questi siano implicitamente associati non solo al Belpaese, ma anche ad una particolare Regione o territorio (è il caso del Lambrusco in Emilia Romagna, del Nero d’Avola in Sicilia o del Primitivo in Puglia, per fare degli esempi). Eppure il rischio c’è, perché su questo tema “la posizione della Commissione Europea sta diventando sempre più morbida e chiara - spiega, a WineNews, il dg Federvini, Ottavio Cagiano - e, cioè, che l’indicazione geografica è il valore da tutelare, mentre il nome del vitigno è libero. Concetto contro il quale l’Italia deve essere ferma, ovviamente. Ma va tenuto conto che oggi l’Ue è fatta di 28 Paesi, e che i paesi produttori storici di vino sono in minoranza. Senza contare che questo legame, spesso implicito, tra vitigno e territorio, è una prerogativa soprattutto italiana, perché Francia e Spagna, che sono gli altri due big, sono da sempre orientati sul concetto delle denominazioni legate alla geografia, e non al vitigno. Quindi la situazione non è semplice, e la preoccupazione più volte espressa la filiera, e di cui si è fatto carico il Ministro Martina, è più che giustificata”.
In sostanza, nei pensieri dell’Europa, vini come Lambrusco, Vermentino, Sangiovese, solo per citarne alcuni, potrebbero essere prodotti anche in altri Paesi Ue ed etichettati come tali. Un’operazione non applicabile quando si parla di vini che riportano un luogo geografico nella propria denominazione, come ad esempio il Prosecco o il Chianti, ma potenzialmente attuabile per vitigni diversi. Tema sul quale, nelle settimane scorse, avevano richiamato all’attenzione organizzazioni come la stessa Federvini, Unione Italiana Vini e Confagricoltura, chiedendo anche una maggiore attenzione al Governo. Anche perché le ricadute sarebbero evidenti per l’Italia, in termini economici e di immagine, con una sorta di “italian sounding” autorizzato, come sarebbe evidente, con vini dal chiaro richiamo a vitigni italiani, ma prodotti, legalmente (se la “deregulation” si concretizzasse”) in altri Paesi. Che fare dunque?
“Prima di tutto dobbiamo guardarci all’interno dei confini nazionali, capire cosa abbiamo sbagliato, talvolta (vedi la proliferazione di vitigni storicamente legati ad un territorio che poi si sono diffusi per tutta la Penisola, ndr), correggerlo dove possibile, ma anche pensare che non tutto e ovunque è tutelabile, al di là delle singole sensibilità di campanile. E poi a Bruxelles, dobbiamo ribadire e confermare che siamo un Paese leader, nel settore del vino. E i leader in qualche modo dettano l’agenda, diventano modelli di riferimento, e non inseguono continuamente i vari dossier come se fossero sempre all’ultima spiaggia. Ma per fare questo, dobbiamo chiarirci prima tra di noi, discutere e mettere in piedi un piano nazionale coerente e coordinato per la filiera, che in realtà invochiamo da tempo”.

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