Quando il mondo del vino pensava di aver capito ormai tutto sul mercato cinese, diventato in breve una sorta di approdo ideale per ogni Paese produttore, la bolla è esplosa, vittima di una crescita disordinata ed incontrollata. Oggi, dopo almeno un anno e mezzo con il freno a mano tirato, le importazioni del Dragone tornano a crescere. Nel primo trimestre 2015, come svelano i dati di “Decanter China” (www.decanterchina.com), analizzati da Li Demei, docente di Wine Tasting ed Enologia all’Università di Pechino, e tra i più grandi conoscitori della Cina enoica, la crescita è stata addirittura del 30%, un balzo che ha portato valori e volumi importati più o meno sui livelli del 2013.
Un dato che, purtroppo, non vale per l’Italia, che continua a fare fatica e, se anche in termini di volumi torna a crescere leggermente, resta comunque distante da Francia, Spagna, Cile ed Australia, mentre il valore dell’export tricolore verso il gigante asiatico continua ad arretrare.
Ma cosa è cambiato in questo periodo? Innanzitutto, come racconta l’analisi di Li Demei, c’è stato un enorme problema di approccio da parte di molti Paesi, “convinti che la montagna che stavano scalando, seppur impervia, rispetto alle montagne circostanti fosse sempre troppo bassa”. Una sorta di complesso di inferiorità che ha spinto molti Paesi produttori a puntare sulla Cina senza grande strategia, ma solo con la forza di un buon prezzo e grandi volumi. Ma non basta per spiccare il volo. Uno dei limiti più grandi di questo mercato, infatti, è lo sbilanciamento tra l’andamento delle importazioni e quello dei consumi, creato da una mancanza di consapevolezza, da parte degli importatori, del proprio mercato, per cui non necessariamente ciò che è “buono” (specie a livello di opportunità economica) per chi importa lo è anche per chi consuma. Ad esempio, la crescita maggiore nei primi tre mesi 2015 è stata quella dell’Australia, che sta vivendo un ottimo momento in termini di prezzo medio, agevolata, così come il Cile, da un accordo tra Governi che in pochi anni porterà a zero i dazi. Sul mercato reale, però, non c’è la corsa all’acquisto di vini australiani, ed il rischio è che si ricrei, in maniera diversa, la situazione vissuta dai vini di Bordeaux nel 2009, quando i prezzi schizzarono alle stelle a causa di buyer improvvisati, che abbandonarono il business del vino alle prime difficoltà, inguaiando non poco i wine merchant, che si ritrovarono con i magazzini pieni di vino da vendere.
Ma non è detto che sia il caso dell’Australia che, alla crescita delle proprie esportazioni verso la Cina, sta accompagnando una massiccia campagna di comunicazione, marketing e, soprattutto, formazione, perché è solo attraverso la conoscenza che la presenza del vino australiano può diventare strutturale e stabile. Come insegna, del resto, l’esperienza francese che, al di là della bolla speculativa esplosa con i grandi cru di Bordeaux, negli anni è stata capace di costruirsi una credibilità tale da non avere nulla da temere dalla crescita dei propri concorrenti, forte di un nome diventato brand, e tra i più forti.
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