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DIBATTITO

La pubblicità degli alcolici non ha alcun effetto causale sulla crescita dei consumi

Lo studio dell’Institute of Economic Affairs, think tank ultra liberale britannico, contro le posizioni delle lobby anti alcol
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Una vecchia pubblicità di Gallo Winery

Il dibattito sul rapporto tra vino e salute, e sulle regole che, eventualmente, devono o dovrebbero normarlo, è sempre molto vivace, specie in Europa. L’etichetta irlandese, alla ribalta delle cronache ormai da mesi, non è che la punta di un iceberg enorme, in cui le spinte, in un verso o nell’altro, si fanno sempre più forti. Da un lato c’è la posizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha ribadito come non esista una soglia di consumo che si possa definire sicura. Dall’altra il mondo produttivo, che sostiene invece il consumo consapevole e l’importanza economica, storica, culturale di vino, birra e whisky.

In mezzo, il campo di confronto è sconfinato, e riguarda principalmente aspetti legislativi e fiscali. L’Europa, ad esempio, nel suo “Beating Cancer Plan” ha messo la lotta al consumo di alcolici al primo posto, ma è già dal 2006 che la Ue si muove attivamente per ridurre i danni da alcol. La stessa Oms Europa, giusto qualche settimana fa, ha indicato nel modello Nord Europeo la risposta vincente: monopolio delle vendite e tasse molto alte, infatti, hanno fatto crollare i consumi di Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia.

C’è, evidentemente, un tema di libertà di scelta, talvolta compressa da leggi molto restrittive, ma anche di ruolo dei Governi nazionali, con decisioni più da Stato etico che da Paese liberale. Di esempi ce ne sono, su tutti la famosa Legge Evin, che in Francia, dal 1991, vieta la pubblicità degli alcolici in Tv e ne limita la promozione su qualsiasi altro mezzo. Nel 2018, anche la Lituania ha adottato una legge simile, persino più restrittiva, tanto da coprire manualmente le pubblicità degli alcolici nei magazine stranieri. Ciclicamente, proposte del genere vengono presentate, e qualche volta dibattute, in diversi Paesi europei, anche in Gran Bretagna, dove le lobby salutiste ed anti alcol hanno un peso importante.

A fare da contraltare, a Londra, c’è uno dei più influenti think tank al mondo dedicato alla promozione del libero mercato: l’Institute of Economic Affairs. Che, al rapporto tra pubblicità e consumo di alcolici, ha dedicato lo studio “Alcohol Advertising - What does the evidence show?”, curato da Christopher Snowdon, a capo del settore Lifestyle Economics all’Institute of Economic Affairs. Uno studio particolarmente interessante, perché poggia su una raffinata operazione di debunking di uno degli articoli più citati, negli ultimi tempi, dall’Institute of Alcohol Studies: “The Relationship Between Exposure to Alcohol Marketing and Underage Drinking Is Causal” di James Sargent e Thomas Babor, che sostiene, appunto, la causalità tra esposizione alla pubblicità e crescita dei consumi.

In sostanza, scrive Christopher Snowdon - citando le conclusioni di uno studio ben più solido, firmato nel 2014 dalla Cochrane Review, “Restricting or banning alcohol advertising to reduce alcohol consumption in adults and adolescents” - i risultati degli studi citati dalle lobby anti alcol non rispettano neanche uno dei nove criteri individuati dal grande epidemiologo Austin Bradford Hill (che, nel 1965, ha dimostrato il rapporto causale tra fumo e cancro ai polmoni) nella più conosciuta delle sue conferenze: “L’ambiente e la malattia: associazione o causalità?”. L’associazione tra pubblicità e consumo, infatti, è piuttosto debole, poco coerente, e la pubblicità non è che uno dei tantissimi fattori che influenzano le scelte del consumatore.

Inoltre, è quasi impossibile dimostrare la consequenzialità tra esposizione alla pubblicità e consumo, così come il reale impatto, perché un consumatore di alcolici (così come di qualsiasi altro prodotto) sarà maggiormente predisposto, e quindi sensibile, al messaggio pubblicitario, e perciò tenderà a ricordarlo più a lungo di chi non consuma alcolici. Si chiama “recall bias”, ed è forse il limite maggiore degli studi volti a dimostrare il nesso causale tra esposizione al messaggio pubblicitario e consumo di alcolici: chi beve di più rivela un’attenzione maggiore alle pubblicità degli alcolici rispetto ai bevitori più moderati. Se, invece, guardiamo ai semplici dati, un aumento della pubblicità degli alcolici non comporta una crescita della vendita di alcolici.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la spesa pubblicitaria degli alcolici è aumentata di quasi il 400% in termini reali tra il 1971 e il 2012, ma il consumo pro capite di alcol ha registrato pochi cambiamenti. In Gran Bretagna, la spesa pubblicitaria per gli alcolici è diminuita del 10,8% in termini reali tra il 1991 e il 2001, ma il consumo di alcol è aumentato del 15,8%. Il vino, che non è stato molto pubblicizzato in Gran Bretagna, e comunque decisamente meno di birra e superalcolici, dal 1970 ha registrato un enorme aumento delle vendite, cui ha fatto da contraltare un enorme calo delle vendite di birra e nessun cambiamento nelle vendite di superalcolici.

Allargando il campo alla letteratura economica, continua lo studio di Christopher Snowdon, citando tra gli altri Tim Ambler, uno dei più grandi esperti di marketing della storia, “la pubblicità influisce solo sulla quota di marca, e non ha alcun impatto sul consumo complessivo”. Ossia, restando nell’esempio che ci interessa: in un mercato dei consumi maturo, com’è il caso degli alcolici nei Paesi europei, la pubblicità non serve ad allargare la platea dei consumatori, ma a conquistarne la fetta maggiore possibile. Del resto, l’industria degli alcolici non è un monolite, e ogni azienda o grande gruppo del settore investe in pubblicità per attirare nuovi clienti. Non è un caso, uscendo dall’analisi di Snowdon, che brand come Tanqueray stiano puntando così forte sul Gin analcolico: un modo per conquistare nuovi clienti, ma anche per promuovere, tra chi consuma alcolici, il proprio marchio, senza promuovere il consumo di alcolici.

In definitiva, secondo l’Institute of Economic Affairs è impossibile dimostrare il nesso causale tra pubblicità e consumo di alcolici, e a livello generale, citando il “New Palgrave Dictionary of Economics”, “la pubblicità tende a ritardare leggermente i cambiamenti ciclici del consumo totale, non a guidare tali cambiamenti ... Nel complesso, la pubblicità non emerge dalla letteratura empirica sulla domanda dei consumatori come un elemento determinante del comportamento dei consumatori”. Ovviamente, è il punto di vista, interessato, di una delle lobby più influenti ed attive nella difesa e nella promozione del libero mercato, ma è un contributo assolutamente interessante in un dibattito che certo non si esaurirà a breve.

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