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La Repubblica

Tra le colline dove il Barolo è re ... Da qui, dalle Brunate, si ha una visione puntuale della Bassa Langa. Di fronte si distendono le trame armoniose dei Cannubi, vigneti altrettanto famosi del Nebbiolo da Barolo; sullo sfondo l´alta Langa e le Alpi Marittime; disseminati qua e là, in cima alle colline, i castelli di Castiglion Falletto, Serralunga, Perno (dove era conservato l´archivio della casa editrice Einaudi) e infine quello di Grinzane Cavour. La geografia dunque ci viene incontro, riassumendo plasticamente buona parte della storia che ruota attorno a un vino celeberrimo e al paesino che gli ha dato nome: quel Barolo dove, secondo le parole del mio amico anfitrione vignaiolo, Beppe Rinaldi, vivono «settecento anime, comprese le galline». Aiutandomi un po´ con le parole di Beppe, un po´ con volumi di storia locale (Barolo tra storia e memorie, Il paese del Barolo), vengo a sapere che sull´origine del nome l´ipotesi più accreditata è che derivi dal celtico «Bas-reul», ovvero «basso luogo», come conferma la sua posizione al fondo di una conca. Anche se, appoggiandosi alla più bella delle scienze - la filologia fantastica - v´è chi azzarda, attraverso l´allaccio alla radice indoeuropea «bar», una genealogia più brusca, immediata: là dove si beve. Il luogo si presta a ininterrotti détours mentali, e ancor più vi si presta caratterialmente il mio interlocutore. Così la nostra divagazione comincia con la leggenda del Castello di La Volta e del suo smodato castellano, che un certo giorno - come leggo in Barolo tra storia e memorie - fece degenerare un festino a base di vino in una vera e propria orgia, conclusasi catastroficamente: il pavimento sprofondato, gli invitati - neanche a dirlo, «ignudi» - inghiottiti dalle macerie e di lì a poco trasformati in altrettanti fantasmi che allieterebbero a tutt´oggi le notti di chi passa da quelle parti. Ma il castello, oggi in deprecabile abbandono, è importante anche perché luogo ideale di villeggiatura prescelto da Silvio Pellico, «segretario-bibliotecario» della marchesa Giulia Colbert, moglie dell´ultimo rappresentante dei Falletti, indiscussi domini della zona. Anche se poi, a ben vedere, la marchesa vandeana finirà per assumere un ruolo di gran lunga superiore a quello del marito, il marchese Tancredi: ultimo rappresentante della casata, visto che la coppia non lasciò eredi. Nel salotto torinese della dama si incontravano infatti figure di primissimo piano, da Cesare Balbo a Camillo Benso conte di Cavour. In ogni campo Giulia esercitò il suo impegno filantropico: fece costruire asili (i primi d´Italia), pensionati per giovani operaie, orfanotrofi; organizzò attività di recupero per carcerati e prostitute, ospedali infantili, collegi. Senza contare, da ultimo, il fondamentale ruolo svolto sempre dalla marchesa nella valorizzazione del vino langarolo, come dimostra la vicenda che la vide protagonista assieme al re Carlo Alberto; il quale, a un certo punto, le chiese esplicitamente di poter bere quel prezioso nettare direttamente alla sua mensa. Detto e fatto: di lì a poco trecentoventicinque carri, ciascuno con a bordo una carrà (lunga botte di sei ettolitri), viaggiavano da Barolo alla volta di Torino. La scelta del numero di trecentoventicinque non era affatto casuale: una per ogni giorno dell´anno, tolti i quaranta della quaresima. La marchesa, non dimentichiamolo, era molto religiosa. E in quei giorni predicava la più rigida astinenza. Il tuffo nel passato, nel frattempo, si è concluso. Rinaldi, molto attento alla storia locale, lo è nondimeno verso la preservazione del territorio; una battaglia, questa, che ha condotto per anni assieme a pochi altri produttori: dal cugino Bartolo Mascarello, mitica figura di Langa scomparsa proprio l´anno scorso, a Baldo Cappellano, principe del Barolo Chinato. Beppe ci tiene a farmi vedere le bellezze, ma anche le ferite della sua terra, qui perfettamente percepibili: le nuove palazzine geometrili, la disinvolta operazione tardo pop compiuta da due artisti americani alla Cappella delle Brunate, l´invadente capannone-cantina che compare in fondo alla valle. «Tutto ciò in Borgogna sarebbe inconcepibile, come se tra il Clos de Vougeot e i vigneti di Romanée-Conti ci infilassero un capannone», commenta sconsolato Rinaldi. E mentre con l´auto saliamo verso la Morra la sua analisi si specifica e si aggrava. «L´assalto al territorio è avvenuto negli ultimi quindici anni, forse anche meno. Si è affermata una monocoltura devastante, grazie alla nuova possibilità legislativa di impiantare viti in sostituzione di altre lasciate in abbandono in altre regioni. Mi spiego: essendo proibito aumentare la superficie vitata in ambito Ue, non si fa altro che piantare nuove vigne qui, al posto di quelle dismesse, che so io, nelle Marche piuttosto che in Sicilia. Risultato: se dalla nascita dell´appellazione Barolo (1966) gli ettari vitati sono sempre stati 1200, ora vanno verso i 1800. E la produzione della zona del Barbaresco è quasi raddoppiata. Tutto ciò come frutto di una triste commistione tra viticultori, enti e politica». Con l´auto saliamo ancora verso la cima, passando davanti ai ciabot (casotti per attrezzi e merende) e a fascinose abitazioni sette-ottocentesche finite in rovina dopo l´inurbazione nei paesi; abitazioni che stanno nel bel mezzo di terreni il cui costo, all´apice della qualità (in zona Cannubi), arriva alla stratosferica cifra di seicentocinquantamila euro per ettaro. Quali sono i guasti della monocoltura?, chiedo al mio ospite. «Molteplici. Il disboscamento facilita smottamenti e frane. Scassi e livellamenti alterano la struttura geologica della marna sedimentaria marina. Il terreno si impoverisce perché viene a mancare la necessaria varietà microbica e di essenze, piante, erbe. Sradicando noccioleti e boschi diminuiscono gli insetti e gli uccelli con tutto lo squilibrio che ne consegue. Senza contare le nuove malattie della globalizzazione legate a nuove tipologie di viti importate (shiraz, cabernet, pinot nero): fino a pochi anni fa qui la flavescenza dorata non esisteva. Ma non trascurerei ulteriori fattori negativi: la nuova monotonia del paesaggio e la nuova monotonia esistenziale di chi lo abita, decisamente impoverito nelle sue conoscenze e nella pratica quotidiana». Rinaldi abita alle porte del paese, nella vecchia casa costruita dal nonno. Subito al di là della strada c´è l´edificio liberty di Napoleone Burdizzo, un famoso veterinario di Barolo che all´inizio del Novecento inventò la "tenaglia Burdizzo", rivoluzionando nel mondo intero la pratica della castrazione dei vitelli. Beppe legge con partecipazione e ironia uno scritto in cui si ricorda come in India, per fare un esempio, soltanto Guglielmo Marconi potesse vantare, tra gli italiani, una fama pari a quella di Burdizzo, il quale aveva risolto un immenso problema in perfetta consonanza con la religione indiana. L´interesse di Rinaldi per la pinza Burdizzo è accentuato dai suoi trascorsi di veterinario dedicato ai bovini (ancor oggi - in cambio di uova, peperoni e letame - aiuta le vacche di amici allevatori a partorire). Per contro, la viticoltura è iscritta nell´albo di famiglia sin dal tempo dei trisnonni. «È una vicenda assolutamente tipica della zona. I miei trisnonni erano servi dei Falletti e con grande fatica, alla fine del marchesato, cominciarono a comprare i terreni dove avevano lavorato da sempre. Poi, nel 1870, fondarono la Barale-Rinaldi, che ai tempi era la più grossa cantina di Barolo. Lo sforzo - ripeto - fu immenso, ma denunciava i limiti della frantumazione della proprietà, i cui effetti si fanno sentire a tutt´oggi. A differenza della Francia, qui non si è mai dato l´intervento di una borghesia illuminata, e quindi è mancato a lungo un serio progetto mercantile, che ebbero solo i Falletti, i quali non a caso vinsero un premio a Parigi e fecero conoscere i nostri vini nelle grandi mense d´Europa. Mio nonno, che pure fu tra i promotori del Consorzio Barolo-Barbaresco, organo di tutela dei nostri vini, in viaggio di nozze al massimo sarà andato a Savona, non certo a Parigi!». Ritorna, inevitabile, il paragone con la Francia, che già alla fine del Settecento fece dello champagne il primo vino al mondo oggetto di attenzione del legislatore. In Italia bisognerà aspettare il 1926 perché si dia avvio all´Albo vigneti. «Ma la prima legge per Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino e Nobile di Montepulciano arriva nel ‘66 con l´istituzione della Doc, a imitazione della "appellation" francese. E non è bastata nemmeno quella: qualche anno fa si è dovuto introdurre la Docg, denominazione di origine controllata e garantita, visto che si producevano comunque più bottiglie di Barolo di quanto fosse consentito dall´Albo vigneti!». Anche questi ritardi, per Rinaldi, rimandano alla storica carenza di un intervento grande-borghese e ai limiti progettuali connessi alla frantumazione proprietaria. Il che non gli impedisce di essere tenacemente attaccato alle radici e alla tradizione familiare. La Barbera, il Dolcetto, il Nebbiolo e il superbo Barolo che escono dalla sua cantina sono lavorati nello stesso identico modo in cui li lavorava il padre, primo enologo del paese e sindaco dal ‘70 al ‘75. «Non appena il Barolo è diventato giustamente, anche se tardivamente, famoso nel mondo, si è affacciata un lobby di produttori rampanti che volevano farne un vino accattivante, che piacesse a tutti i costi, anche a palati non educati. Anche al prezzo di inquinarlo con altri vitigni non autoctoni e utilizzando una tecnica enologica non nostra, che prevede la barrique». Mentre Beppe stappa una bottiglia del 1989, naturalmente affinata in botte, e con simpatetica precisione - indenne da qualunque affettazione - ne descrive la complessità del bouquet, mi racconta la storia della barrique. «È un piccolo recipiente di legno francese della capienza di 225 litri che consentiva un trasporto facile su nave allietando i banchetti dei coloni degli imperi inglese e francese. Durante il trasporto il vino cambiava, maturava, migliorava e assumeva le essenze del legno, imponendo progressivamente un certo tipo di gusto e profumo che si è definito poi internazionale. Così, per indebito scimmiottamento, nella nostra zona c´è chi ha teorizzato che anche il Barolo doveva diventare un vino internazionale, invecchiato non più nelle grandi botti ma nelle barrique. Si fece così la fortuna dei bottai francesi e sono nati vini imbellettati, incipriati, passati in profumeria. Ma si è talmente esagerato da indurre i più a invertire la rotta. Nella giusta convinzione che è il vino a dover dominare, non il legno. Altrimenti si dà vita a un vino-segatura, a un vino-truciolo, che non sai più da dove viene, di quale territorio è figlio». Il primo a intraprendere la battaglia contro la barrique è stato Bartolo Mascarello. Con la solita inventività, la solita fantasia. Era il 2001 quando mise in commercio una bottiglia di Barolo con l´etichetta «no Barrique-no Berlusconi», unendo assieme due obiettivi di un´unica battaglia. Ma qualche solerte sostenitore di Forza Italia avvisò della cosa i carabinieri e le bottiglie, incredibile a dirsi, finirono «agli arresti domiciliari». Da parte mia ne ho conservata una da stappare in occasione della fine del berlusconismo e la sera fatidica del 10 aprile, a fronte di un risultato elettorale che andava via via peggiorando per il centro-sinistra, un amico mi consigliò di aprirla, comunque. Aveva ragione lui: l´ottimo Barolo di Mascarello, come per miracolo, ha finito per schiudere le porte della vittoria dell´Unione, ottenuta per un soffio. O meglio, per un fondo di bottiglia. (arretrato dell'11 giugno 2006)
Autore: Franco Marcoaldi

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