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La Repubblica

Chi minaccia il paesaggio ... È pronto il Piano strategico nazionale. Parla Mauro Agnoletti, che lo ha coordinato... Il paesaggio italiano rischia il degrado a causa del cemento che l' invade. è un' aggressione diventata negli ultimi anni impetuosa. Il valore del mattone cresce a rotta di collo e le amministrazioni pubbliche cedono con facilità alle pressioni degli immobiliaristi. Meno vistose, ma molto insidiose sono altre minacce: il paesaggio rurale italiano sta perdendo le caratteristiche che da secoli lo rendono riconoscibile anche per il modo in cui si sviluppano certe produzioni agricole e persino a causa di un' eccessiva invadenza di alcuni tipi di bosco che si espandono sui terreni un tempo coltivati e ora abbandonati, riducendo la varietà di colori, di profili e di vegetazione che l' Italia ha vantato per millenni.
Il bosco che minaccia il paesaggio? Detta così brutalmente potrebbe sembrare una grottesca provocazione. Ma è una provocazione che Mauro Agnoletti accetta di chiarire. Agnoletti è un professore fiorentino che insegna al dipartimento di Scienze e tecnologie ambientali e forestali. è il coordinatore di un gruppo di ricercatori che ha redatto il documento sul paesaggio per il Piano strategico nazionale di sviluppo rurale organizzato dal ministero dell' Agricoltura nell' ambito delle politiche comunitarie. E questa è già una novità. Per la prima volta nel fissare le politiche agricole del prossimo settennato (questa la durata del Piano presentato a Bruxelles) si è deciso, dopo molti contrasti, di includere anche il paesaggio. Stabilendo azioni finanziate con soldi europei (all' Italia spettano 8 miliardi di euro), la tutela del paesaggio assume un ruolo determinante: non è una battaglia in nome di valori estetici, pur fondamentali, ma un elemento essenziale per lo sviluppo economico dell' agricoltura. Agnoletti e i suoi collaboratori (Biancamaria Torquati, Andrea Sisti, Giuseppe Barbera, Tommaso La Mantia, Paolo Nanni e Rossella Almanza) hanno tracciato un quadro storico del paesaggio italiano, dal 1870. Ne hanno definito le trasformazioni. E hanno indicato gesti concreti da compiere, che spetta alle Regioni mettere in pratica.
Soffre molto, professor Agnoletti, il paesaggio italiano? «Soffre molto. Intanto accade ancora spesso di sentir descrivere il paesaggio come il frutto di una pura percezione soggettiva, priva di elementi oggettivi, quasi che i suoi valori fossero solo immateriali, senza concreta rappresentazione nella struttura del territorio. Manca per il paesaggio la stessa considerazione di cui godono i centri storici, una considerazione acquisita nel tempo, prodotto di una maturazione culturale che ancora stenta nei confronti di un terrazzamento, di un castagneto da frutto o di un filare di aceri e viti».
Quali sono i punti più critici? «Per avere un quadro definito occorre ragionare regione per regione. Ma in linea generale nella maggior parte del nostro territorio il paesaggio rurale si è drammaticamente semplificato. Si è persa moltissima della biodiversità che l' ha distinto fino ad alcuni decenni fa rispetto al paesaggio di altri paesi europei e del mondo. Posso fare un esempio concreto?».
Certamente. «In certe zone collinari della Toscana, fino a tutto l' Ottocento, in un' area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi arborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 "tessere" di un ricchissimo mosaico paesaggistico. Ora sa quanti diversi usi del suolo possiamo contare su quella stessa estensione? 18».
Cosa è cambiato? «I pascoli e le colture promiscue sono quasi scomparsi. Fino ai primi del Novecento nella pianura padana si potevano avere anche 150-160 piante arboree per ettaro. Oggi in molte zone se ne possono notare solo alcune a bordo campo». Questo fenomeno è causato da che cosa? «In parte da un massiccio abbandono delle aree agricole e pastorali. Le estensioni coltivate sono passate da 23 milioni di ettari degli anni Trenta ai 13 milioni attuali. E poi dal procedere dell' agricoltura industriale, che impone coltivazioni specializzate, riducendo le colture promiscue, la varietà, appunto. A questo dobbiamo aggiungere l' intensificazione produttiva, cioè l' aumentata densità delle piantagioni oppure la trasformazione di ettari di terreno che prima ospitavano diverse coltivazioni in monoculture: tutto grano, tutto mais, tutto vite. Per non parlare delle produzioni non alimentari, la soia, la colza, il girasole, che hanno ulteriormente semplificato il mosaico paesistico».
Detta legge il mercato? «L' aumento della produzione, attraverso la meccanizzazione e i concimi chimici, ha avuto effetti determinanti per l' abbandono delle aree agricole marginali. Su molte colline è diffusissimo il cosiddetto "rittochino": i trattori procedono per l' aratura in verticale, dal basso verso l' alto e viceversa. In questo modo tendono a sparire i terrazzamenti oppure le tradizionali coltivazioni che attraversano orizzontalmente le pendici collinari favorendo un migliore deflusso delle acque. Il risultato di questo modo di fare agricoltura sono state produzioni eccedenti e aiuti comunitari per ridurre le produzioni eccedenti...». Un paradosso. «Un paradosso che conferma il fallimento delle politiche impostate sulla quantità, che non reggono alla competizione internazionale».
E poi c' è il propagarsi spontaneo del bosco. «Esattamente. Nei primi decenni del Novecento la superficie dei boschi in Italia era di circa 3 milioni e mezzo di ettari. Oggi i boschi occupano 10 milioni di ettari. è un fenomeno che ha cambiato il volto di intere regioni».
È quindi sbagliato parlare di deforestazione? «I dati nazionali sono inequivocabili, anche se le realtà regionali sono diversificate».
E questa riforestazione non è un processo positivo? Non è un modo per arrestare comunque l' incedere del cemento? «La riforestazione ha sicuramente portato vantaggi, non tanto economici quanto ambientali. Ricordiamoci però che il paesaggio rurale italiano reca fortissima l' impronta umana, è il luogo in cui la storia ha costruito un insieme di valori che la cultura occidentale gli ha riconosciuto almeno dal Settecento in poi. L' aumento del bosco è avvenuto soprattutto nelle regioni di montagna e di collina, su ex pascoli e terreni coltivati. Dei quali il bosco ha preso il posto, a causa dell' abbandono da parte di chi li lavorava. I vecchi boscaioli ci dicono che un tempo il bosco era coltivato come un giardino. è stato un processo di rinaturalizzazione spontanea. E spesso di banalizzazione paesaggistica. Non è utile avere boschi estesi, ma abbandonati. Negli ultimi anni si è spesso identificata la conservazione del paesaggio con la conservazione della natura, due questioni spesso coincidenti, ma che possono anche divergere».
Può spiegarsi meglio? Difendere un paesaggio non è la stessa cosa che difendere la natura? «Può non essere la stessa cosa. Salvaguardare un paesaggio non significa ricercare il più alto grado di naturalità, ma piuttosto mantenere i rapporti uomo-ambiente, tipici delle identità culturali che il paesaggio rappresenta. Prenda, di nuovo, il caso della Toscana».
Cosa sta succedendo in Toscana? «Abbiamo condotto un' indagine su 13 aree. In centosettant' anni si è perso circa il cinquanta per cento della biodiversità legata al paesaggio, in gran parte per effetto dell' abbandono, ma anche per l' avanzare delle monoculture. In pianura sono sparite molte alberature, mentre i vigneti che in certe aree di grande pregio non superavano i 20-25 ettari sono arrivati a costituire accorpamenti di più di 200 ettari, spesso eliminando terrazzamenti e alberature, considerati poco adeguati a moderni standard produttivi».
I vigneti sono una ricchezza. «Certamente. Ma dal punto di vista paesaggistico il modo in cui li realizziamo rischia di deformare assetti consolidati nel tempo, di stravolgere un paesaggio la cui qualità è strettamente connessa alla qualità del prodotto».
È il rischio di tanta agricoltura industriale: molta quantità, fin oltre l' eccedenza, e poca qualità. «Lo stesso si può dire degli uliveti, cresciuti di circa il 30 per cento, soprattutto dopo gli anni Sessanta. Grazie agli incentivi europei sono sorti uliveti con alberi fitti e disposti molto regolarmente, anche mille piante laddove ce n' erano alcune decine. Sostituiscono gli uliveti promiscui, nei quali l' ulivo si coltivava in filari, e fra un filare e l' altro si seminavano cereali e altre colture. Lungo il filare si associava la vite, qualche volta alberi da frutto a varie specie, i peschi, i peri, i meli, i gelsi. Questi sono esempi di paesaggi storici, in cui la presenza del lavoro umano definisce l' assetto del territorio. Non bisogna però generalizzare: in alcune regioni, come la Puglia o la Sicilia, densi uliveti ed estese monocolture a grano sono considerabili come paesaggi tradizionali».
Però il vino e l' olio toscano si vendono bene e in tutto il mondo. Come si fa a tornare indietro?
«La salvaguardia del paesaggio ha benefici proprio sul successo di alcuni prodotti. Chi negli Stati Uniti compra un vino del Chianti o della Sicilia lo compra anche perché attratto dai paesaggi legati a quelle produzioni».
Di recente ne ha parlato anche l' economista Francesco Giavazzi. «Ma su questo non c' è sufficiente consapevolezza. Eppure si tratta di un elemento "competitivo" che l' Italia possiede e altri no. Mentre noi industrializziamo sempre di più l' agricoltura, altre regioni europee più avvedute, come il Tokaj ungherese, chiedono l' inserimento del loro paesaggio nelle liste dell' Unesco. Il Chianti non è ancora riuscito a trovare un accordo».
In concreto come si fa a salvaguardare queste diversità paesaggistiche? Pensate a dei vincoli? «Niente vincoli. Dall' Europa arriveranno molti soldi, utilizziamoli intanto per sviluppare la conoscenza dei paesaggi locali e delle loro caratteristiche. E poi per incentivare chi favorisce il restauro di pratiche tradizionali, come le canalizzazioni, le sistemazioni del terreno, le siepi, gli edifici in pietra, i sentieri, i muretti a secco, i recinti, i pagliai e persino l' uso di materiali antichi, come il legno per la paleria o per le recinzioni. E per garantire un reddito a quegli imprenditori che rinunciano a certe produzioni, a chi pone limiti alle colture continue, a chi converte terreni in prati e pascoli di seminativo. Insomma a chi abbandona un' agricoltura industriale più orientata sulla quantità e certi ordinamenti delle colture non compatibili con i paesaggi tradizionali e tipici del luogo».
(arretrato de La Repubblica del 18 dicembre 2006) 


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