02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

La Repubblica

Quel che resta del vecchio bar ... Questa settimana anche la Turchia ha detto addio al fumo nei sui caffè. Il paese dei narghilè aderisce così al divieto che in gran parte del mondo occidentale ha mutato l’aspetto dei locali pubblici. Con in bistrot francesi in via di estinzione e i pub inglesi in crisi profonda, nell’era di Facebook cambia definitivamente un altro spazio dedicato allo “stare insieme”... “Di quanti editti imperiali, di quante dispute di teologi e lotte sanguinose è stato cagione questo “nemico del sonno e della fecondità”, come lo chiamavano gli ulema austeri; questo “genio dei sogni e sorgente dell’immaginazione”, come lo chiamavano gli ulema di manica larga, ch’è ora, dopo l’amore e il tabacco, il conforto più dolce... Ora si beve il caffè sulla cima della torre di Galata e della torre del Seraschiere, il caffè in tutti i vaporini, il caffè nei cimiteri, nelle botteghe dei barbieri, nei bagni, nei bazar”. Così Edmondo De Amicis nel suo resoconto ottocentesco di viaggio Costantinopoli. L’autore di Cuore era impressionato dalle “file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco “la quarta colonna della tenda della voluttà” dopo il caffè, l’oppio ed il vino, o “il quarto sofà dei godimenti”, anch’esso, come il caffè, fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftì, e cagione di torbidie di supplizi, che lo resero più saporito”. Per pagine e pagine quasi non parla d’altro: “Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di latakié d’Antiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della più fina, di tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore, se il fumo non giungesse alla bocca purificato dall’acqua del narghilè, è chiuso in boccie di vetro come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli esteri e del Seraschierato; alle volte vi dà una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttà della chiacchiera e del fumo”. Ad Apollinaire, che faceva il soldato nella Istanbul occupata, i caffè gli ricordavano quelli della sua Parigi. Mentre per l’americano Curtis erano come i saloon di Chicago, con la sola differenza che vi si serviva raki anziché whisky. Per secoli ai viaggiatori la Turchia, anzi l’Oriente più in generale apparivano come immensi bar caffè e tabaccheria insieme. “Ci sono luoghi in cui la storia è inevitabile come un incidente automobilistico - luoghi in cui la geografia provoca la storia, la voluttà del caffè si accompagna a quella del fumo. Uno è Istanbul, alias Costantinopoli, alias Bisanzio”, si potrebbe dire parafrasando il Nobel Iosif Brodskij. Tutto torna, prima o poi, come sempre. Anche gli editti e le dispute più o meno teologiche. Non so quanto i turchi rimpiangeranno la sigaretta, il “puro” o il narghilè al caffè. Penso che se ne faranno una ragione. E forse con meno drammi di quanto ci immaginiamo. Anche perché il divieto arriva con mano pesante: 5.600 Yeni Turk Lira, 2.600 euro di multa per ristoranti e locali che non applichino il divieto, 69 lire, 32 euro per, come dire, gli “utilizzatori finali”, ben cinquemila sbirri e delatori, agenti speciali formati dal Ministero della sanità, per controllare l’applicazione delle nuove norme. “Farsi occidentali” ha un prezzo. Specie se si è meno europei e meno americani di quanto si dovrebbe su altre cose più di sostanza. Si comincia sempre da dove si può. Atatürk aveva cominciato abolendo con estrema severità il fez, il velo, tonache e turbanti dei religiosi in pubblico. Nei miei ricordi d’infanzia le sue fattezze sono associate più alla bottiglia di raki marca Klup, dove era ritratto in impeccabile smoking, e ai pacchetti di sigarette, che al resto. Ma è evidente che il percorso della modernità democratica è stato molto più lento e complicato. C’è in tutto questo qualcosa di già visto e già sentito. Quando l’anno scorso passò definitivamente in Francia la proibizione del fumo in tutti i luoghi pubblici, la stampa del resto del mondo era sgomenta. Come, niente più fumo al Cafè de Flore o ai Deux Magots o alla Brasserie Lipp che sono passate ai libri di storia - e alle guide turistiche - grazie alla frequentazione di fumatori accaniti come Jean-Paul Satrte e Simone de Beauvoir? Si lamentò la fine di una cultura, si derise il fatto che la Bibliotheque Nationale arrivasse al punto di falsificare i ritratti in cui Sartre o Malraux comparivano con la gauloise in bocca. Da noi ci sono norme analoghe, si erano accesi per un momento gli animi, ma ora è come se non ci fossimo mai accorti del cambiamento. In America praticamente non si vede più fumare, non solo in pubblico ma anche nelle case, da molti anni. Esattamente come non si vede più bere alcol, grazie all’ipocrisia, credo ereditata dal protezionismo, per cui la bottiglia in pubblico viene nascosta dai sacchetti di carta. Se ti invitano a cena, neanche a pensarci, a meno di assentarsi furtivamente, come un tossicomane, all’aria aperta. Ricordo ancora gli sguardi di odio e sospetto assassino che suscitai una volta che mi ero messo in fila in posta: avevo gli abiti ancora impregnati di toscano. Mi feci l’idea che il disprezzo pubblico nei confronti di Clinton per aver dissacrato l’Oval office nella faccenda Lewinsky si fondasse sulla voce che aveva tirato fuori il famigerato sigaro cubano, sia pure per farne un uso improprio, ancor più che sul resto. Paese che vai usi che trovi, ma su una cosa non ci piove: se non sta bene fumare (o derubare l’erario, o mentire, o andare a puttane), deve valere per tutti,e più ancora per chi sta più in alto. Eppure, non credo affatto che i nuovi divieti turchi si debbano catalogare nel faldone del “molto rumore per nulla”. Ho anzi l’impressione che tocchino un argomento più profondo e universale, il senso di perdita, la nostalgia di qualcosa che faceva parte del nostro modo di vivere, che in qualche modo, talvolta anche inconsciamente, permane nella nostra memoria collettiva,e di cui continueremo a sentire la mancanza. Qualcosa che abbiamo vissuto - vale per i più anziani - o che magari abbiamo solo letto nei romanzi o visto al cinema. Non mi riferisco alla sigaretta, che a questo punto può anche essere considerata un dettaglio, anzi un pretesto, come lo era la madeleine inzuppata nella tazza di tè di Proust. Intendo un certo modo di stare insieme. Ci sono modi di stare insieme che hanno dato il sapore ad intere epoche, e che ci sono scivolati tra le dita talvolta senza che nemmeno ce ne accorgessimo. I pub in Inghilterra non erano solo un luogo per farsi una birra, fornicare con le servette, erano nati con la libertà di stampa, erano il luogo dove si discuteva, si facevano affari, e si leggevano i giornali. Ho letto l’altro giorno in un gustoso servizio del New York Times che stanno scomparendo, negli ultimi anni hanno chiuso al ritmo di tre al giorno, metà dei villaggi inglesi non ne hanno più nemmeno uno. Nella Turchia di fine impero ottomano, checché ne dicessero i viaggiatori in cerca di folklore orientale, i caffè erano spesso “saloni di lettura”, kiraathane. Il sultano Murad IV nel 1633 (così come di tanto in tanto i suoi successori) li avevano fatti chiudere non certo per ragioni teologiche, ma perché vi si discuteva di politica. Lo zar Michele di R u s s i a proibì il fumo, sotto pena di fustigazione , taglio del naso, deportazione in Siberia e persino morte, non certo perché ce l’avesse col tabacco, ma perché incoraggiavano “crimini” ben più pericolosi per lo Stato. Il secolo dei Lumi e la Rivoluzione francese erano maturati tra il fumo del Procope e degli altri caffè parigini. La grande cultura europea del Novecento sarebbe inconcepibile senza i caffè di Berlino, Vienna, Praga e Budapest. Non ci sarebbe Simenon, non ci sarebbe Maigret, non ci sarebbe la Francia che resiste al nazismo senza le sale fumose della Rive gauche, che gli ufficiali igienisti delle Ss evitavano come la peste. Ma ho letto che in Francia nell’ultimo mezzo secolo bar e bistrot da 200mila che erano sono scesi a poco più di 38mila. Colpa anche, dice qualcuno, dell’invasione di “le sandwich”. Hitler, notoriamente, non fumava e denunciava il tabacco come “punizione dell’Uomo rosso nei confronti dell’Uomo bianco, giusta vendetta per averlo avvelenato con l’alcol”. Fidel Castro ha smesso di fumare sigari dal 1986, ma non per questo Cuba è diventata democratica. Il fatto è semplicemente che non si sta più insieme come lo si faceva una volta. Nelle campagne cinesi di trent’anni fa avevo fatto ancora in tempo a vedere le ultime case da tè dei villaggi, dove i contadini si recavano all’alba, per fare quattro chiacchiere e magari una partita a mahjong prima di recarsi nei campi. Il fumo delle candele si mischiava a quello del tabacco, all’umidità del fiato e del sudore. A Pechino le case da tè sono tornate a migliaia, ma non è la stessa cosa. Mia madre amava sedersi ai tavolini del Biffi in Galleria a Milano per “vedere la gente”. Non sono nemmeno sicuro che ci sia ancora,e comunque non c’è più niente e nessuno da “vedere”. Quando arrivammo a Milano da Istanbul negli anni Cinquanta scoprimmo un fenomeno unico e irripetibile: le serate al bar di quartiere, tutti a vedere Lascia o raddoppia?. Ora la televisione la si guarda in casa, in atroce solitudine. Sì, certo, si chatta al computer e c’è Facebook, ma ho l’impressione che sia un modo per stare ancora più soli, non un modo per “stare insieme”. In Italia abbiamo ancora qualcosa di meraviglioso, di cui non ho trovato l’eguale in nessuna altra parte al mondo, nemmeno dopo il boom degli Starbucks: un bar a quasi ogni angolo. Non so se si fanno ancora le discussioni interminabili al bar sulla partita. Non vorrei che fossero state del tutto soppiantate da quelle che si sentono fare in tv, come avviene per la politica ai talkshow. Il vecchio biliardino sarà stato stupido, e certo rumoroso, ma consentiva di “stare insieme” più dell’andare su e giù per il corso o della gimcana coi motorini. Per anni, quando ero più giovane, passavo le mie estati alle Feste dell’Unità, è lì che incontravo le ragazze, altro che i festini. Nessuno le ha proibite, ma è un dato di fatto che non ci sono più, o comunque non sono quelle di una volta. Il fumo è il dito, temo che sia caduta la luna, e non ho idea di come sarà quella nuova.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su