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LAUREA HONORIS CAUSA IN ATROPOLOGIA CULTURALE A CARLO PETRINI, PRESIDENTE DI SLOW FOOD.

Italia
Carlo Petrini

Laurea honoris causa in Antropologia Culturale a Carlo Petrini, presidente di Slow Food, oggi 10 luglio, a Napoli, conferita dall’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il professor Marino Niola, incaricato della Laudatio, ha ricordato che Slow Food nasceva nel momento in cui si stilava l’atto di morte dell’agricoltura italiana, “grazie all’intuizione e alla genialità di Petrini, costituendo un baluardo per la conservazione della parte migliore della scienza del popolo”.
Carlo Petrini ha letto una Lectio Brevis dai forti toni politici, molto legata a temi d’attualità quali l’introduzione degli Ogm in Europa, il ruolo del Wto e le istanze che la Commissione internazionale sul Futuro del Cibo. “La nuova agricoltura esiste e va sostenuta come sistema locale di produzione, un sistema che garantisce rispetto per l’ambiente e per le identità culturali dei popoli. L’agricoltura deve tornare patrimonio dei contadini: non va confusa con il ruralismo reazionario o con la nostalgia pastorale. E’ qualcosa che è già un’alternativa efficace ai sistemi di produzione massivi, di cui in Europa emerge ormai con evidenza il fallimento. Con modestia, con lentezza, noi di Slow Food ci stiamo lavorando …”.
Il rapporto privilegiato tra Slow Food e la Campania si rafforzerà con l’organizzazione, a Napoli, del Congresso mondiale di Slow Food, in programma dal 4 al 9 novembre 2003, evento che vedrà riuniti delegati provenienti da 42 Paesi.


Ecco la Lectio Brevis di Carlo Petrini
Identità e socialità delle nuove comunità rurali

Le scelte che la comunità internazionale è chiamata a fare sul fronte del cibo e della sicurezza alimentare sono, in questo inizio di secolo, quanto mai complesse e controverse. Sul tappeto si confrontano colossali interessi economici che propongono modelli di sviluppo tra loro incompatibili e lo scontro coinvolge la politica agricola di Stati sovrani e il destino di milioni di uomini e donne.
L’anno che stiamo trascorrendo con l’appuntamento di settembre a Cancun dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, evidenzia gli interessi contrapposti della politica statunitense rispetto alle scelte europee in merito all’utilizzo degli Organismi Geneticamente Modificati in campo agricolo.
Il terzo polo, quello dei cosidetti terzo e quarto mondo, è terreno di conquista, blandito da multinazionali senza scrupoli che non esitano a porsi come risposta al problema della fame nel mondo. Questa soluzione tecnica verso i problemi della fame e del sottosviluppo è falsa perché non tiene contro degli aspetti economici, sociali e politici nonché dell’organizzazione degli scambi. L’introduzione del riso transgenico nel continente asiatico ha fortemente industrializzato l’agricoltura; ha ridotto la gamma delle varietà di riso impoverendo milioni di contadini che non possono riseminare con i semi del proprio raccolto. Si è favorito, in tal modo, l’esodo dalle campagne con l’inurbamento selvaggio che crea nuovi problemi di sottoalimentazione.
Il tentativo di addossare la responsabilità del sottosviluppo e della fame all’Europa è il segnale di un’offensiva senza precedenti. Tutto ciò avviene nel momento in cui il Vecchio Continente incomincia a prendere atto del declino irreversibile dell’agricoltura industriale, dove l’uso smodato della chimica e dei pesticidi è oggetto di critiche da parte di un crerscente numero di agronomi, chimici, biologi e fitopatologi.
Appare evidente a quale vertice di assurdità scientifica ed economica si sia posizionata l’agricoltura del nostro tempo. L’agricoltura industriale e ancor più le coltivazioni transgeniche necessitano dell’uso massiccio di risorse idriche. La stima che in Francia il 50% dei nitrati venga dilavato dalle acque, contaminando falde acquifere con gravi danni per la salute degli animali e degli uomini, non è un’ipotesi di qualche associazione ambientalista, ma l’analisi scientifica de l’Institut National de Recherche Agronomique.
Cosicché l’acqua, il cui uso è cresciuto del 350% a livello mondiale dal 1950 ad oggi, con il 73% impegnato in agricoltura, sta diventando la risorsa più preziosa del nostro presente e del nostro avvenire. Tutto ciò ci fa riflettere su quanto afferma Piero Bevilacqua: "La pratica agricola è al centro di questo insostenibile paradosso: è la maggiore consumatrice delle risorse idriche mondiali, ed è la principale fonte di avvelenamento delle medesime".
Dinanzi a queste dinamiche sempre più ingovernabili la cosidetta comunità internazionale ha prodotto nuove istituzioni per assicurare la legalità del libero scambio. Organizzazione Mondiale del Commercio, Codex Alimentarius sono le istituzioni che regolano il commercio e la sicurezza alimentare. Nato nel 1962 il Codex Alimentarius stabilisce le norme sanitarie "allo scopo di proteggere la salute dei consumatori e di assicurare la legalità delle pratiche adottate nel commercio dei prodotti alimentari". L’Unione Europea e gli Stati Uniti rappresentano il 60% dei delegati, per un 15% di popolazione mondiale. Inutile dire come la lobby dell’industria agro-alimentare svolga un ruolo primario all’interno di questa istrituzione. Basti ricordare che nel 1997 il Codex Alimentarius aveva posto all’ordine del giorno, una proposta degli Stati Uniti per impedire la circolazione internazionale di prodotti elaborati a base di latte crudo. Le basi stesse dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sono fortemente inique e antidemocratiche. Il dogma del libero scambio è antitetico ad uno sviluppo sostenibile, basato sull’assunzione che l’intero pianeta e le future generazioni possano consumare le risorse ai livelli dei paesi più ricchi senza indurre un collasso ecologico.
Confondendo lo sviluppo con la crescita si confonde la qualità della vita con l’accumulazione materiale e la rincorsa spasmodica verso un maggior profitto che non necessariamente genera un miglioramento qualitativo. Interpellata una cuoca della Langa astigiana sul perché si ostinasse a tenere chiuso il locale per il servizio serale e nei giorni festivi, visto il consenso unanime dei clienti per la sua cucina, lei rispondeva che non ambiva a divenire la più ricca del cimitero.
Uno sviluppo sostenibile può essere uno sviluppo senza crescita e ciò non implica la fine delle scienze economiche. Come sostiene Herman Daly dell’Università del Maryland: "Queste scelte rappresentano l’economia raffinata e complessa del mantenimento, del miglioramento qualitativo, della condivisione, della frugalità e dell’adattamento ai limiti naturali". È un’economia del "meglio", non del più grande.
Su questo terreno il mondo agricolo può rappresentare un esempio di profonda trasformazione, abbandonando l’agricoltura industriale per sposare in modo definitivo l’agricoltura contadina. Questa agricoltura rende coerente lo statuto di contadino, con la rendita e con la qualità dei prodotti nel rispetto delle risorse naturali. L’agricoltura contadina non va quindi confusa con un ruralismo reazionario e con la nostalgia pastorale; essa è l’attività più praticata al mondo, merita considerazione e rispetto.
Bisogna quindi sostenere con forza il diritto dei popoli a provvedere alla propria alimentazione e a scegliere liberamente e democraticamente il tipo di agricoltura che preferiscono. L’agricoltura contadina diviene fondamentale per riaffermare la lotta agli OGM, la biodiversità, la sovranità alimentare, il mantenimento dei contadini, l’occupazione del territorio, la protezione dell’ambiente, la lotta contro le multinazionali dell’agrochimica e dell’agroalimentare.
Fino a quando assisteremo inermi alla pirateria genetica? all’espropriazione delle sementi? all’arrembaggio delle nostre industrie alimentari nei paesi in cui i costi sono ridotti e le normative meno attente alla protezione sociale? Questa pratica crea squilibri nelle agricolture locali e riversa altro cibo a basso costo sulle nostre economie sazie di beni alimentari massivi e di bassa qualità. Per contro nei paesi del Sud del mondo si registra una parte crescente di popolazione che soffre la fame e la malnutrizione. Per questo motivo il documento sul Futuro del Cibo redatto da un gruppo di scienziati di varie nazioni, e che verrà sottoposto all’attenzione delle delegazioni governative presenti a Cancun, sottolinea con determinazione non solo la sovranità alimentare dei singoli stati, ma anche il vincolo di questi ultimi a non favorire esportazioni di prodotti alimentari se nei loro confini sussiste il flagello della fame e della sottonutrizione.
La complessità di queste tematiche e il dispiegarsi di forze antagoniste ben determinate, sostenute da ingenti capitali, rendono queste battaglie difficili a condursi, anche se la protesta si esplicita in imponenti manifestazioni. Ma tutto ciò non è sufficiente a mutare i rapporti di forza e a sensibilizzare milioni di contadini, spesso ignari del loro destino, soggetti ad un bombardamento mediatico che tende a depeuperare la loro storia e la loro identità.
Dire agricoltura contadina e sovranità alimentare significa ricostruire il tessuto delle comunità rurali e produttive basate su patti sodali forti in grado di realizzare su piccola scala una nuova economia agricola rispettosa dell’ambiente, per dare dignità e qualificazione ai contadini e alle loro famiglie. L’esperienza dei Presidi che Slow Food va realizzando anche nel Sud del mondo dopo i successi ottenuti in Italia, mi conforta su questa prospettiva.
Ci dissero che eravamo dei sognatori e che il nostro settore di intervento era marginale e irrilevante rispetto ai grandi trend dell’agricoltura europea. Oggi quelle intuizioni si sono realizzate e marciano non solo con le nostre gambe, ma anche attraverso nuove aggregazioni del mondo rurale.
Gli economisti della Bocconi studiano i nostri Presidi, le regioni d’Europa riscoprono con questo genere di sviluppo agricolo la possibilità di fare filiera a sostegno dei territori.
Con questo tipo di sviluppo la proposta di coltivare OGM c’entra come i cavoli a merenda. La stessa coesistenza di due generi di coltivazioni così diverse diventa improponibile nella misura in cui gli OGM svolgono un’opera infestante verso i campi viciniori. I nostri territori sono troppo piccoli per garantire la coesistenza del biologico e dell’OGM.
Bene ha fatto la Regione Piemonte a distruggere i campi abusivi di mais transgenico e il buon senso richiederebbe alle altre regioni di fare controlli similari, poiché la politica del fatto compiuto è la più criminale nei confronti di contadini ignari.
Forse solo negli Stati Uniti sarà possibile la politica della coesistenza, poiché la fertile California si sta convertendo al biologico con enormi appezzamenti ortofrutticoli e con i vigneti di pregio delle valli di Napa, Sonoma e Mendocino. Al contempo al di là delle Montagne Rocciose e della catena degli Appalachi le distese di mais sono ormai tutte transgeniche. La contaminazione tra questi due territori così diversi e distanti non esiste.
Ma tornando al concetto di comunità rurale e produttiva, un ruolo importante è assegnato alla scienza e alla capacità di quest’ultima nel raffrontarsi con le culture contadine. Per ottemperare a questo scopo occorre riformare l’organizzazione della ricerca e la formazione degli scienziati. La ricerca è sempre più complessa, ma sempre più settorializzata. Non esiste un luogo di confronto dei gruppi di ricerca, si privilegia una dimensione frammentaria rispetto a una pluridisciplinare. Elaborare un modello di agricoltura, dare forza alle comunità rurali e produttive esige un confronto serio e completo tra l’agronomia, la zootecnia, la sociologia, l’economia, l’antropologia e l’etnologia.
Nell’humus di questa pluridisciplinarietà risorgerà la più bistrattata delle scienze umane: la gastronomia. Relegata dal mondo accademico in un ambito folcloristico, essa assisteva inerme allo sviluppo delle scienze nutrizionistiche, all’affermazione delle tecnologie alimentari e all’invadenza dei legulei ministeriali e paraministeriali codificatori di denominazioni e sottodenominazioni, artefici di regolamenti, leggi e prebende.
Nel gioioso recinto di una gourmandise autocompiacente si affinavano le capacità sensoriali e le conoscenze organolettiche dei cibi e delle bevande di una nuova generazione di gourmet, ma al contempo dilagava sui media un livello di cialtroneria senza precedenti. La televisione in particolare continua a propinarci programmi totalmente avulsi da quei saperi contadini che ci hanno consegnato straordinari patrimoni gastronomici. Il grande cuoco ridotto a macchietta, il talk show che esibisce prodotti tipici con commenti ignoranti, le valutazioni delle guide scorporate in centesimi a beneficio di telespettatori un po’ onanisti. Tutto ciò è ridicolo dinnanzi alla situazione drammatica della perdita sistematica di specie vegetali e di razze animali.
La nuova Università di Scienze Gastronomiche con sede a Pollenzo e Colorno darà maggiore dignità al comparto favorendo un processo formativo per migliaia di giovani provenienti da ogni parte del mondo, sarà al servizio della nuova ruralità e della produzione del cibo.
Se è vero che la tendenza della singola comunità è di rinchiudersi in se stessa riaffermando la propria identità, è altrettanto vero che il cibo è mediatore tra culture diverse. "Esattamente come il linguaggio," sostiene Massimo Montanari, "la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell’identità di gruppo. Costituisce pertanto uno straordinario veicolo di autorappresentazione e di comunicazione. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni.
"Identità e scambio stanno alla base di qualsiasi dinamica della vita delle comunità; più lo scambio è vivo, più l’identità non è un fenomeno stabile e inamovibile. Molte volte il cibo si identifica fortemente con le realtà nazionali. La baguette, i formaggi e il vino sono simboli di francesità; così come il fish and chips fa subito pensare all’Inghilterra e la pasta e il pomodoro a Napoli. Ciò detto, occorre riaffermare che le identità non esistono al di fuori dello scambio e che tutelare la "biodiversità culturale" non significa chiudere ciascuna identità in un guscio, bensì metterle in rete.
Questo concetto dinamico dell’identità fa giustizia rispetto a tutti coloro che vedono nel nostro lavoro di recupero delle tradizioni e della nozione di territorio un’operazione antiquata, quasi di sapore archeologico. Al contrario, la riscoperta delle tradizioni e il rapporto tra culture locali e mercato globale, rapporto apparentemente conflittuale che tuttavia non esclude ampi spazi di convivenza, è quanto di più moderno si possa realizzare.
Riaffermando con forza questi concetti dell’identità, dello scambio, della difesa della biodiversità rappresentata dal patrimonio storico delle nostre comunità, il nostro lavoro di salvaguardia dei prodotti tipici e tradizionali ha trovato ascolto e interesse. Avevamo colto nel segno, questi prodotti sono parte del nostro Dna. L’omologazione, l’appiattimento del gusto e la produzione industriale massiva non ci avevano fatto perdere la memoria di questi saperi e di questi sapori.
Da qui a far divenire queste produzioni veri soggetti economici il passo è stato breve e, ancorché questa battaglia non sia ancora del tutto vinta, le premesse sono più che positive e questo è riscontrabile non soltanto nell’impegno delle comunità a sostenere questi prodotti, ma anche nei primi segni di ritorno verso il mondo agricolo da parte dei giovani. Forti di questi risultati, al Salone del Gusto dello scorso anno abbiamo voluto estendere l’esperienza dei Presìdi a livello internazionale.
È questo un approdo logico e consequenziale per un movimento internazionale come il nostro. Da quattro anni abbiamo istituito un Premio per la Difesa della Biodiversità con un parterre di 700 giurati in rappresentanza di 86 paesi. I premiati, in massima parte contadini, pescatori, allevatori, vengono da esperienze molto simili a quelle dei nostri Presìdi. Spesso soli, senza alcun aiuto istituzionale, hanno preservato specie vegetali e razze animali minacciate di estinzione; hanno raccolto, difeso e diffuso un grande patrimonio di sementi; ci hanno tramandato conoscenze e metodologie di lavoro preziose per l’artigianato alimentare.
Dalle montagne andine alle zone desertiche del Maghreb, dalla foresta amazzonica alle grandi pianure siberiane, il lavoro umile di questa bella umanità ci ha convinti del valore immenso del patrimonio di cui sono depositarie le loro comunità.
Proprio intervenendo nel Sud del mondo si evidenzia la complessità delle tematiche economiche e sociali che bisogna affrontare in Paesi dove la prima e la seconda colonizzazione hanno fatto tabula rasa di pratiche agronomiche e di prodotti della terra. Laddove la conquista coloniale ha trovato civiltà forti, pur non favorendo una politica dello scambio, ha adottato molti cibi e molte materie prime che sono entrate nella vita quotidiana dei popoli colonizzatori. Basti pensare al curry, che è divenuto un ingrediente diffuso nella cucina britannica, o alla famosa salsa Worchester che è di origine indiana.
Viceversa nel continente nero l’atteggiamento dei colonizzatori è stato di totale distacco verso le materie prime e i piatti del gruppo considerato inferiore, dei colonizzati. Il piatto più diffuso dell’Africa sub-sahariana è il fufu, una massa acida che ricorda il puré di patate ed ha come ingredienti cereali, verdura e frutti: esso è stato completamente ignorato, perché ritenuto volgare alimento delle popolazioni indigene.
Come sostiene Jack Goody nel suo lucido saggio sul cibo africano nella cultura bianca e nella cultura nera: "Il procedimento di scambio avveniva a senso unico fra i rappresentanti dei poteri metropolitani, ciascuno dei quali aderiva alle proprie forme nazionali, vino e roquefort nei territori francofoni, birra e cheddar nei territori anglofoni. I francesi giunsero al punto di far venire i propri fornai a vendere baguettes e anche dei cuochi per aprire dei ristoranti".
Ma il danno più grave avvenne con la seconda colonizzazione e l’imposizione di diete e abitudini alimentari totalmente estranee al territorio. Con queste diete furono imposte tutta una serie di materie prime di nuova importazione, rendendo le comunità fortemente dipendenti dai costi di questi prodotti, disperdendo un patrimonio di conoscenze tramandato dalle generazioni precedenti. L’incidenza di queste importazioni sugli esili bilanci dei nuovi stati post-coloniali è stata dirompente e ha generato nuove sacche di miseria.
È di questi giorni la presa di posizione delle organizzazioni contadine del Senegal contro quella che chiamano "tirannia del riso importato". Le abitudini alimentari imposte dai colonizzatori hanno portato al consumo su larga scala del riso, cosicché il Senegal vede la sua bilancia commerciale sempre più gravata dal peso delle importazioni di riso e cereali. Se ogni senegalese sostituisse il riso con il miglio una volta la settimana, il Senegal risparmierebbe 4 miliardi di franchi l’anno. Se ogni senegalese sostituisse il riso importato con il riso locale una volta la settimana, il Senegal risparmierebbe 13 miliardi di franchi l’anno. Ma il danno più grave, dicono le organizzazioni contadine, è stato quello di mettere in crisi i modelli agricoli a dimensione familiare, fondamento di stabilità della famiglia stessa, garanzia di continuità produttiva e di presidio del territorio. L’esodo rurale e l’emigrazione verso i paesi occidentali sono segnali più evidenti del problema della sopravvivenza di queste popolazioni.
Come vedete, le implicazioni di una politica agricola di tipo industriale ci coinvolgono direttamente; se i tanto auspicati interventi dell’Occidente in questi paesi sono di questa natura, la fuga dalle comunità di origine sarà inarrestabile. Ancora una volta la libertà dei popoli nella scelta delle pratiche agricole, l’equità del commercio, la sovranità alimentare sono gli unici valori per una politica di sviluppo. La strada da percorrere è lunga e non ci sono scorciatoie per queste popolazioni rurali dimenticate da Dio e dai Santi.
Chi mai potrà convincere le multinazionali del cioccolato che il prezzo che esse pagano per la materia prima è ridicolo rispetto ai loro budget pubblicitari? Esse sono depositarie dei saperi che trasformano le fave fermentate di cacao in tavolette di cioccolato dalle diverse qualità organolettiche. Un prodotto degno di entrare nelle più belle boutiques di cioccolato, dove i maestri cioccolatieri personalizzano il prodotto finito.
Se fossimo presi per incantamento da queste oasi del piacere termocondizionato, o mentre ad occhi chiusi ci facciamo un’overdose di Nutella, per essere trasportati in una piantagione dell’Africa occidentale dove, secondo un rapporto dell’Istituto Internazionale di Agricoltura Tropicale reso noto alla fine dello scorso luglio, 300.000 minorenni sono vittime di trafficanti crudeli e senza scrupoli, in condizioni di lavoro che mettono a serio rischio le loro vite, ci accorgeremmo di quanta avarizia c’è nel mondo del cacao?
I dati riportati sul numero di marzo della nostra rivista Slow Ark evidenziano come nella lunga catena d’intermediari, esportatori, e trasformatori, i contadini del cacao sono soltanto il primo e il più fragile anello. Il prezzo è stabilito dalla borsa di Londra, che segue logiche di politica economica talvolta estranee ai produttori e ai loro paesi. L’80% del mercato del cioccolato è controllato da sei multinazionali. Se i produttori di cacao fossero 100, 70 sarebbero africani, 20 asiatici e 10 latino-americani. 90 coltiverebbero meno di cinque ettari, 10 sarebbero proprietari di grandi piantagioni. Ma il dato che più mi sconcerta, e che evidenzia quanto sia grande l’estraneità dei contadini rispetto a questo prodotto, è che su 100 produttori ben 75 non avrebbero mai assaggiato una tavoletta di cioccolato.
È vero che viviamo in un mondo complesso e la complessità riserva molte sorprese, ma se non coltiviamo la dignità di scandalizzarci e non guardiamo in faccia queste storture, ben poco potremo capire dalla realtà che ci circonda. Ma è proprio la complessità che ci invoglia a non abbandonare il campo; dubito che esistano grandi strategie politiche ed economiche in grado di dipanare una situazione così complessa. Per questo motivo il contributo di un piccolo movimento come Slow Food, nel porre al centro della questione agricola il contadino e la sua comunità rurale, è un modesto tassello di una nuova politica.
La comunità rurale con i suoi riti, le sue feste, i suoi rapporti sociali, le sue pratiche agronomiche, le sue credenze, non è soltanto un soggetto di analisi antropologica, ma può incidere sulla politica, sull’economia e sulle scienze con risultati straordinari e inaspettati.
Napoli, che ospiterà dal 6 al 9 novembre il Congresso Mondiale di Slow Food, con i delegati che converranno da 46 paesi, sarà la sede dove queste tematiche saranno approfondite e discusse. In questa terra che fu crocevia dell’enologia europea, dove antiche civiltà agropastorali ci hanno consegnato formaggi come il Conciato Romano (forse il più antico formaggio italiano), dove i gamberetti e le alici portano i nomi di antichi attrezzi dei pescatori come la nassa e la menaica, dove il limone "sfusato" amalfitano, ecotipo derivato dalla cultivar "femminiello comune", si trova raffigurato negli affreschi delle case pompeiane, dove le viti del comune di Taurasi fruttificano dopo 150 anni di vita, ebbene, proprio da questa terra può partire un messaggio di speranza.
A Napoli prenderà corpo questa nostra idea d’incontro delle diverse comunità rurali del pianeta; sbaglia chi pensa che il mondo contadino sia attraversato da figure folcloristiche, dominato da ritmi lenti poco produttivi, caratterizzato da gruppi destinati a vivere ai margini della storia, ancorati a tradizioni orali nel mondo delle news, figli di un’economia di sussistenza. È questa una visione etnocentrica basata sul tempo e sul denaro, o meglio: sul tempo che è denaro.
Noi che abbiamo assunto la lentezza come medicamento omeopatico diffidiamo, come afferma Franco Cassano, degli economisti "teorici dell’homo currens, medici sapienti che non si stancano mai di ripetere che per la nostra salute è necessario correre in ogni momento della giornata e in ogni momento della vita. La nostra salute dipende da quanto corriamo e le nostre città sono piene di patetiche figure felici di correre anche nel tempo libero.
Questa religione affannata e paonazza, questa preghiera mattutina o del crepuscolo recitato, sudando all’ombra dei grattacieli, serve a riempire tutti i pori della nostra mente e ad impedire che un altro modello di vita si affacci alla nostra porta. Perché questo universo dovrebbe piacere a tutti?
Crediamo veramente che un gioco possa essere amato allo stesso modo da coloro che perdono ogni volta che giocano e da coloro che ne escano sempre vincitori? È perfettamente normale che i perdenti non accettino di stringere la mano a coloro che hanno imposto il gioco nel quale vincono sempre".
Nel momento in cui ci impegniamo a confrontarci con altre comunità, secondo me occorre guardare criticamente il lato oscuro e aggressivo della nostra cultura e così facendo rifiutare l’etnocentrismo. Il rispetto reciproco, il confronto delle diverse esperienze, lo scambio di conoscenze tra diverse popolazioni di contadini, pescatori, allevatori, artigiani del buon cibo, cuoche e osti, sono certo che serviranno ad arricchire il patrimonio culturale di quella che Edgard Morin, socio emerito di Slow Food, definisce la nostra "comunità di destino terrestre".
Ed ora, cari professori e cari studenti di questo illustre Istituto, amiche e amici che avete voluto condividere con me questo felice momento della mia vita, se i miei ragionamenti e le mie idee vi sono sembrate ragionevoli e realizzabili, non esitate a sostenere le buone cause di Slow Food e rafforzate le schiere di quest’associazione; se nel vostro giudizio ritrovate una vena di utopia sappiete che non sono affatto dispiaciuto, anzi chiedo agli uni e agli altri ancora un attimo di attenzione.Come si suol dire abbiamo fatto trenta, facciamo pure trentuno e vista l’ora prepariamoci al convivio. Come sapete, le utopie quando sono poesia e sanno far sorridere fanno bene alla salute. Orbene, avendo sinora parlato di comunità, dovete sapere che il buono e saggio Gargantua, figlio di Gargamagna e Gargamella, edificò un’abbazia in quel di Telème e vi insediò una comunità di uomini e donne la cui vita era regolata non da leggi, statuti o regole, ma secondo la loro volontà e il loro libero arbitrio. Si alzavano da letto quando credevano, bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne avevano desiderio: nessuno li svegliava, nessuno li costringeva né a bere né a mangiare, né a fare altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua.
Nella loro regola non c’era che questa clausola: fai ciò che vuoi. Per rendere chiaro chi non poteva far parte della comunità, così era scritto sulla porta maggiore di Telème:

Qui non entrate, ipocriti e bigotti,
vecchie bertucce, tangheri, marpioni,
bachechi, collitorti, mangiamoccoli,
qui non entrate, puttanieri in zoccoli,
straccioni incappucciati, schiodacristi,
bindoli, gabbasanti, spigolistri,
picchiapetti, scrocconi, cattabrighe e stronfioni:
le vostre ragne andate altrove a tendere,
non vi son merli qui per voi da prendere.
Desolerebbe i miei campi la vostra iniquità;
turberebbe i miei cantila vostra falsità.
Qui non entrate, famelici curiali,
che i buoni parrocchiani
mettete alla catena come cani:
dottorelli, scrivani,
togati faccendieri,
succhiasangue del popolo, officiali,
storcileggi, cursori, consiglieri;
qui non entrate, causidici incalliti,
mozzarecchi, strascinafaccende:
son sul patibolo le vostre prebende,
là i vostri ragli saranno esauditi.

Qui si sta in leticia,
qui non c’è malizia,
qui non vi sono eccessionde imbastir processi.


Qui non entrate, pitocchi e avari,
usurai, leccapiatti, mangiagatti,
taccagni, lesinai,
intenti solo ad ammucchiar denari,
mai contenti di quelli già fatti;
curvi e ricurvi sulle vostre ciotole
colme e ricolme a ricontar i mille
e mille e mille e a far i rotoli e le pile.


Sano il corpo
lieto il cuore,
qui regna amicizia,
lode ed onore
Meglio di riso che di pianto scrivere
poiché è dell’uomo e di lui solo il ridere.


Viveti lieti.
Carlo Petrini

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