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LE BARBATELLE MADE IN ITALY TORNANO A PERCORRERE LA “VIA DELLA SETA”. COME “MARCO POLO” DEL VIVAISMO TRICOLORE IN CINA, C’È LA VIVAI COOPERATIVI RAUSCEDO, TRA I LEADER MONDIALI, UNICA REALTÀ ITALIANA CON L’OK DI PECHINO. A WINENEWS IL DG SARTORI

Italia
Eugenio Sartori

Non solo il vino italiano, ma anche le barbatelle “made in Italy”, ora, riprendono a percorrere la “Via della Seta”. Nella veste di “Marco Polo” del vivaismo tricolore, la Vivai Cooperativi Rauscedo, tra i leader mondiali del settore (www.vivairauscedo.com), con una produzione di oltre 60 milioni di barbatelle all’anno, ed unica realtà italiana ad aver ricevuto il via libera alla ripresa delle esportazioni in Cina, dopo lo stop alle importazioni da tutto il mondo imposto da Governo di Pechino, per motivi, formalmente fitosanitari.
D’altronde, la Cina è il consumatore n. 1 di vino rosso al mondo, secondo Vinexpo e International Wine & Spirit Research, e Paese produttore n. 5, con oltre 500.000 ettari di vigneto (tra uva da tavola e da vino), secondo l’Oiv. E ancora in crescita, sia dal punto di vista del consumo che della produzione. Ecco perché, senza eccedere nell’aspettarsi un’invasione di varietà autoctone italiane tra i vigneti asiatici, suona come una grande notizia la possibilità, per l’Italia, di ricominciare ad esportare barbatelle nel grande Paese Asiatico.
“Avevamo già esportato qualcosa tra il 2008 ed il 2009 - spiega a WineNews Eugenio Sartori, direttore di Vivai Cooperativi Rauscedo - poi il Governo cinese ha bloccato tutto, dall’Europa agli Usa per la volontà di mettere in pratica un nuovo protocollo fitosanitario rigidissimo. Abbiamo avuto in ottobre la visita dei funzionari del servizio di quarantena del Ministero dell’Agricoltura cinese, che hanno verificato lo stato dell’azienda, i laboratori, i vivai e i vigneti, e poi, in funzione anche di quanto espresso sulle nostre capacità produttive da Regione Friuli Venezia Giulia e Ministero delle Politiche Agricole italiano, Pechino ha dato l’ok per riprendere le esportazioni”.
Si riapre così, dunque, un mercato potenzialmente enorme.
“Si parla di 120 milioni di barbatelle consumate ogni anno, in Cina, tra uva da tavola e da vino. Ma va detto che l’atteggiamento del Governo cinese non è quello di favorire l’importazione di barbatelle o materiale vinicolo in generale, ma di valorizzare e potenziare la capacità produttiva del vivaismo interno. L’import, in totale, è stimabile su 1 milione di barbatelle all’anno. Semmai si punta più ad importare novità vegetali o cloni che poi si vorrebbero riprodurre in loco, o al limite a spingere i vivaisti europei ad istallarsi in Cina. Ed è un atteggiamento anche giustificabile, perché ci sono ancora 800.000 di agricoltori in Cina, e il Governo si domanda perché una produzione agricola come la barbatella non debba essere realizzata dai propri agricoltori, e si debba ricorrere all’importazione”.
In pratica, c’è un’importazione di barbatelle straniere che finisce più nei vivai cinesi per studio, che nei vigneti.
“In conclusione sì. C’è l’interesse di Università e di Istituti di ricerca di avere collezioni eccetera, anche se noi abbiamo pochi clienti, ma importanti, che non vogliono la produzione locale, che qualitativamente non è ai livelli degli standard europei, o non ne sono soddisfatti, e cercano di realizzare vigneti moderni e paragonabili a quelli dei Paesi a viticoltura avanzata rivolgendosi all’estero”.
È possibile fare un “borsino” delle varietà che vanno per la maggiore?
“Le varietà più richieste sono le classiche varietà internazionali, più che altro francesi. Anche se, tra le curiosità da segnalare, soprattutto perché è una varietà poco conosciuta e diffusa dalle nostre parti, c’è il Marselan, incrocio francese tra Cabernet-Sauvignon e Grenache, di cui c’è grande richiesta di barbatelle, perché il vino, con un tannino morbido e rotondo, piace molto ai cinesi. Le varietà italiane locali, autoctone, ad ora, sono più oggetto di curiosità e di realizzazione di qualche parcella sperimentale. Su larga scala in Cina non sono coltivate, anche perché il consumatore cinese non le conosce. Conosce eventualmente quelle francesi, perché il riferimento è ancora la Francia. E poi c’è da dire che noi siamo anche restii a dar loro cloni, selezioni e varietà italiane, ci teniamo a tutelare il nostro patrimonio, non riteniamo opportuno incentivare l’impianto di un Sangiovese o di un Montepulciano d’Abruzzo, per fare degli esempi in Cina. È meglio che apprezzino il vino, prodotto in Italia, da queste varietà”.

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