Per alcuni, le denominazioni del vino italiano (78 Docg, 341 Doc, 118 Igt) sono troppe, ma per altri no, perché rappresentano la diversità e la ricchezza dell’Italia enoica. Di fatto, però, le 10 più grandi rappresentano il 45% del volume ed il 51% del valore del vino Dop e Igp italiano, e, con le prime 25, si supera il 65% delle quantità ed oltre il 75% del valore. Le Denominazioni e le Indicazioni Geografiche, in ogni caso, sono un pilastro del vino italiano, marchi collettivi di territori che, però, esistono grazie alle imprese e all’iniziativa di singoli, spesso pionieri (ed il cui ruolo, altrettanto spesso, non è neanche riconosciuto come dovrebbe). I Consorzi, che sono l’organo di gestione delle denominazioni, e che sono espressione delle stesse imprese, hanno il ruolo di tutelarle, di promuoverle e di gestirle, dal punto di vista legale, ma anche dell’offerta, per mantenere i valori delle uve e dei vini a livelli remunerativi per tutte le parti in causa, da chi coltiva l’uva a chi imbottiglia e vende il vino. Ma qui nasce uno dei tanti nodi difficilissimi da sciogliere, ovvero il tema della rappresentanza, perché, in tanti territori, c’è un mix di piccole e medie aziende che, alla conta dei voti, spesso valgono molto meno, pur essendo nominalmente di più, di grandi cooperative. E questo chiama in causa una capacità di far convivere esigenze diverse, e tutte legittime, per le quali raramente si riesce a trovare una sintesi che accontenta tutti. Tanto più in un quadro complessivo che muta ad una velocità sempre più vertiginosa, a livello di dinamiche di mercato, ma anche climatiche e produttive, e che vede i Consorzi chiedere sempre di più semplificazione, ma anche l’introduzione delle varietà resistenti nei disciplinari, e delle Uga, le Unità Geografiche Aggiuntive, per rispondere anche a quello che vogliono i consumatori, ovvero una sempre maggiore corrispondenza tra la bottiglia che acquistano ed il territorio da cui nasce, e la sostenibilità, ambientale, ma anche sociale. Un quadro complesso tracciato dal dibattito andato in scena a “VinoVip al Forte” 2023, kermesse firmata dalla storica rivista “Civiltà del bere” diretta da Alessandro Torcoli, in un confronto che ha visto, sul palco ed in platea, accademici come Attilio Scienza (che è anche presidente del Comitato Nazionale Vini Dop e Igp e vincitore dell’edizione 2023 del “Premio Khail”, intitolato a Pino Khail, fondatore di “Civiltà del bere” e tra i pionieri della promozione del vino italiano, andato, negli anni, a personalità come Lucio Caputo, Lucio Tasca di Tasca d’Almerita, Piero Antinori, Pio Boffa della Pio Cesare, Cesare Pillon, Piero Mastroberardino e Chiara Lungarotti), Eugenio Pomarici (Università di Verona) e Davide Gaeta (Università di Verona e produttore con Eleva, in Valpolicella), e produttori come Lamberto Frescobaldi (che è anche presidente di Unione Italiana Vini - Uiv), Piero Mastroberardino (vicepresidente Federvini), e Riccardo Ricci Curbastro (che è anche presidente di Equalitas), ma anche Luca Rigotti (alla guida della trentina Mezzacorona e massimo rappresentante istituzionale della cooperazione del vino italiano), Marina Cvetic (Masciarelli), Annalisa Zorzettig (Zorzettig) e Ernesto Balbinot (Le Manzane).
Ripercorrendo la storia delle Doc italiane, dalle prime norme del 1930 alla legge Desana, del 1963, che le istituì formalmente, al Testo Unico del Vino di oggi, il professor Attilio Scienza ha tracciato una “road map” per il futuro. “C’è il tema del clima che cambia le carte, che impone cambiamenti ad elementi cardine dei disciplinari, come la gradazione alcolica o alcune caratteristiche organolettiche, o il colore - ha detto Scienza - ma anche di trovare soluzioni legate a varietà, sesti di impianto e metodi di coltivazione. Poi c’è la sfida della sostenibilità, e qui la chiave è quella dei vitigni resistenti, che è la cosa più difficile, ma più importante, se pensiamo a quest’anno e a quello che succede con la peronospora. Però serve che nella normativa nazionale quadro si sblocchi la possibilità di utilizzarli, perché la ricerca c’è, ma se non riusciamo ad introdurli nei disciplinari non si svilupperanno, a differenza di quanto già succede in Francia, Usa o Germania”. Un grande tema, secondo Scienza, è anche quello del numero: “molte denominazioni sono fatte da 10 ettari di vigna, e da manciate di produttori, che spesso neanche le rivendicano. E quindi è auspicabile un accorpamento delle piccole denominazioni in realtà più grandi, come sottozone”. Tema, questo, che divide. Secondo la produttrice Marina Cvetic, alla guida di Masciarelli, cantina simbolo del vino d’Abruzzo, “sarebbe bello che le Docg raddoppiassero, se i vini valgono, perché vorrebbe dire che il vino italiano cresce”. Per Riccardo Ricci Curbastro, che è stato a lungo anche presidente di Federdoc, invece, “bene parlare di accorpamento delle denominazioni, ma partendo da quello dei Consorzi, come hanno fatto le Marche, per esempio, con l’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, che riunisce sotto il suo cappello 16 denominazioni”, mentre invece Eugenio Pomarici, che ha ricordato come nelle norme che disciplinano i Consorzi ci siano strumenti come i “piani triennali”, che di fatto però non vengono usati, suggerisce “di accorpare le Doc e Docg per sottozone, e di investire di più su uno strumento come le Igt”.
Questioni complesse, in ogni caso, che ne chiamano in campo altre come il valore delle denominazioni, il loro prestigio e la loro notorietà, che sono assai diversi da zona a zona. Tutti concordi, invece, sulla spinta verso le Unità Geografiche Aggiuntive (Uga). Ma sulla gestione dell’offerta, altro tema fondamentale, non mancano le critiche, anche forti, come quelle del professor Davide Gaeta. “Abbiamo fatto una ricerca insieme al collega Julian Alston, della University of California Davis, per capire se certi strumenti come la riduzione delle rese che le Regioni possono decidere su richiesta dei Consorzi funzionano o no. E la risposta, nella maggior parte dei casi, è no. Perché la domanda del vino non è così elastica come si pensa, e ridurre le quantità sul mercato non determina automaticamente un aumento dei prezzi dello stesso vino. Anzi, in molti casi, i “costi” della riduzione dell’offerta sono superiori ai benefici, e non si capisce perché magari in un consorzio dove una cooperativa ha la maggioranza dei voti si debba imporre di ridurre l’offerta a dei piccoli produttori a cui neanche basta il vino che producono per rispondere alla domanda che hanno. E poi c’è anche un tema politico, sul numero delle denominazioni, che sono troppe. Io ho lavorato molto nel mondo dei Consorzi, e posso dire che intorno alla gestione delle denominazioni si muovono 1-1,5 miliardi di euro di contributi pubblici per promozione, ristrutturazione dei vigneti e così via, ma sono tanti anche i costi di gestione, che vanno rivisti”.
Sul tema della rappresentanza nei Consorzi sollevato da Gaeta, arriva la risposta di Luca Rigotti, che rappresenta la cooperazione: “ribaltando la visione, si potrebbe dire che visto che è previsto il meccanismo della ponderazione dei voti, le cooperative contano meno di quanto dovrebbero, e poi mettono insieme tanti piccoli produttori, che conducono mediamente 1,5 ettari di vigneto, e che altrimenti non avrebbero rappresentanza”.
In ogni caso, su un’ipotesi di accorpamento delle Doc, è decisamente scettico Lamberto Frescobaldi. “Non credo che sia un percorso realistico, in Italia siamo il Paese dei campanili, abbiamo tante differenze da raccontare. Semmai dobbiamo riflettere sul fatto che su 50 milioni di ettolitri di vino prodotti in Italia, ancora più di 20 milioni sono di vini generici, che hanno un ruolo, ma che magari andrebbero ricondotti sotto un cappello come quello dei Vqprd, per esempio. Ma il tema di fondo è un altro: chi produce vino non può pensare che mettendosi sotto il cappello della denominazione abbia risolto i suoi problemi sui mercati, che richiedono competenze ed investimenti. Il lavoro di valorizzazione e promozione lo fa l’impresa: il Consorzio deve fare la tutela, non la promozione, perché quando i Consorzi fanno promozione nessuno è mai davvero contento”. Visione condivisa da Piero Mastroberardino: “pensare di dire “entro nella Doc” e vendo meglio non è possibile. La vendita, cioè la creazione di valore, richiede programmazione da parte dell’azienda. Il ruolo primario è dell’impresa, le denominazioni esistono perché qualche imprenditore ha consolidato la vocazione di un territorio, che non è naturale, ma frutto del lavoro e dello studio. La denominazione non può sostituire il fare impresa. Quando sono nate, le denominazioni, erano un elemento di vantaggio competitivo. Oggi la denominazione non è più vantaggio, ma un prerequisito di base. Il problema dell’impresa resta la creazione di valore, che è il vero argomento che devono affrontare i territori. Ed in questo gli attori principali sono le imprese: Consorzi ed istituzioni non possono sostituire le imprese ed i loro progetti, altrimenti uno abdica al suo ruolo di imprenditore”. In ogni caso, quale che sia il loro futuro, le denominazioni, o meglio i Consorzi, saranno chiamati a gestire sempre di più anche il tema della sostenibilità, come ricordato da Riccardo Ricci Curbastro: “dovremo continuare a gestire il potenziale produttivo, l’alcol, il colore, l’altitudine e non solo, come Consorzi, ma la sostenibilità diventerà fondamentale. Nel 2015 Federdoc creò Equalitas, che è uno standard scritto da produttori, e non da catene di gdo o monopoli, come spesso accade. Equalitas guarda alla cantina, al vino, ma anche al territorio, come Montepulciano, in Toscana, dove il Nobile è stata la prima denominazione ad essere certificata sostenibile, ma ce ne sono molte altre in rampa di lancio. Ma la vera scommessa del futuro non è il pilastro ambientale, ma quello sociale. E quando parliamo del vino, mettiamo nei conti anche quello che muove, i ristoranti che aprono, i paesaggi che diventano belli, ma anche l’aspetto sociale: facciamo sì che sia certificato anche il rispetto per chi lavora nella vigna e nella cantina”.
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