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Le sfide del vino italiano, tra scelte di comunicazione e di marketing, territoriali ed aziendali, nelle parole di due wine critic d’eccezione, Ian D’Agata, curatore della Vinitaly International Academy, e Antonio Galloni, fondatore di Vinous

Italia
Antonio Galloni e Ian D’Agata, wine critic

Il vino italiano è alla continua, quanto necessaria, ricerca di nuovi modi di comunicare, di strade diverse per conquistare nuovi mercati e nuovi consumatori, specie tra le nuove generazioni. Di tutto questo, come della capacità dei singoli territori di sapersi raccontare, dei punti di forza e di debolezza del Belpaese enoico, abbiamo parlato con due wine writer d’eccezione, Ian D’Agata, curatore della Vinitaly International Academy e del Progetto Vino di Collisioni, e Antonio Galloni, fondatore di Vinous e per anni firma di spicco del The Wine Advocate di Robert Parker (https://goo.gl/jh3GP6), che trova in una parola il vero punto di debolezza del vino italiano e, quindi, della sua debolezza: “manca la fiducia, nei propri vigneti, nei propri territori, nella forza delle proprie annate migliori. C’è ancora un rapporto di inferiorità rispetto alla Francia, e per superarlo ci vuole unità, i produttori non dovrebbero mai parlare male dei propri colleghi, in altri Paesi non succede, al pubblico bisogna mostrare solo il bello”. Da insegnare, invece, c’è “una ricchezza fatta di paesaggio, vino, cucina, tradizione come non si trovano in molti altri Paesi. Questo è un pregio che va esaltato al massimo”.
Un altro aspetto su cui l’Italia fa ancora un po’ di fatica è quello della valorizzazione dell’annata. “La qualità dell’annata di certo non si sa prima della vendemmia, ma neanche dopo, e forse neanche quando il vino è appena uscito sul mercato. E allora - dice Galloni - bisogna aver fiducia nei vigneti e nelle tecniche, ogni annata ha il suo posto, non possono essere tutte grandiose, ma il desiderio di dare un giudizio così in anticipo può rivelarsi incredibilmente dannoso. Vero che i vini in Italia non vengono venduti en primeur, come a Bordeaux, e non vengono neanche assaggiati con le stesse tempistiche, come in Borgogna, ma ogni anno va apprezzato per quello che esprime, senza pregiudizi”.
Di sicuro, però, l’Italia crea interesse, ed un giorno un qualsiasi wine lover dagli Stati Uniti sarà in grado di abbinare un vino ad un piatto e ad un’opera d’arte dello stesso territorio.“C’è voglia di farlo - riprende Galloni - ma manca ancora qualche collegamento, ma i vini di territorio generano un enorme interesse e penso che il pubblico sia realmente assetato di informazioni: dobbiamo lavorare tutti insieme per aiutare il consumatore finale a fare questo collegamento”.
Una ricchezza ed una varietà, di territori, storia e vino, che, come altra faccia della medaglia, comporta complessità e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per quei territori che devono ancora conquistare una loro nicchia ed un loro protagonismo sui mercati. “Tutto passa per la qualità - spiega Ian D’agata - di cui tutti parlano, ma non so quanto tutto ciò si traduca effettivamente nel bicchiere. Per carità, è difficile fare un vino veramente cattivo ormai, ma vini veramente buoni non sono così frequenti, e quindi andare a conquistare un mercato in cui la competizione è con etichette di tutto il mondo diventa difficile. Il vino che andremo ad offrire, allora, deve essere molto buono e molto interessante, altrimenti farà sempre fatica. Anche quelle Regioni che hanno avuto un boom estemporaneo, che poi si è fermato, dovrebbero pensare a come fare maggiore qualità. Altro aspetto importante - continua D’Agata - sono le strategie di business e marketing, che non sempre le piccole aziende ed i piccoli territori hanno: bisogna puntare sui giovani, imparare l’inglese, conoscere il panorama produttivo internazionale, altrimenti diventa tutto più difficile. Un buon grimaldello, per aprire mercati assuefatti da un’offerta tendenzialmente omogenea di tipologie, possono rivelarsi i vitigni autoctoni meno conosciuti, capaci di offrire aromi e sapori nuovi e diversi. Attenzione anche alla politica dei prezzi - ammonisce il wine writer italoamericano - perché in alcuni Paesi un vino che parte dall’Italia a 5 euro arriva al ristorante a 90 euro. Ci vogliono pianificazioni attente e competenti, altrimenti diventa davvero dura”.
C’è una cosa, invece, in cui i piccoli territori e le denominazioni emergenti sono bravi, nel fare squadra, anche grazie a dimensioni aziendali molto simili ed obiettivi quasi identici. “In Italia, purtroppo, abbiamo difficoltà a fare sistema, ma il vero problema è che spesso associazioni e Consorzi mettono insieme anime troppo diverse: un’azienda che fa oltre un milioni di bottiglie - spiega Ian D’Agata - ha obiettivi diversi di un’azienda che ne fa 40.000, e a volte è difficile far convivere punti di vista diversi. Le aziende dovrebbero trovare poche ma importanti convergenze, non so quanto sia facile. L’alternativa è invece la nascita di associazioni privatistiche, di produttori amici o con gli stessi intenti. Ma è difficile prescindere dal ruolo dei Consorzi, fondamentali”. Ciò nonostante, una ricetta per la comunicazione perfetta, pur nelle enormi diversità, c’è: “esiste - conclude D’Agata - ne sono convinto, ma va pianificata per ogni singola azienda. Se ho un’azienda che fa 30.000 bottiglie in Valcalepio ho obiettivi diversi di chi fa le mie stesse bottiglie sulle Colline Teramane: ogni azienda deve capire cosa produce, dove vuole vendere e come vuole agire per farsi conoscere. Non è difficile, bisogna solo analizzare bene ciò che si ha e si offre e capire cosa si vuole conquistare: è un lavoro vero, ci vogliono professionisti ed appassionati che aiutino le aziende”.

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