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L’espresso

Il piacere è tutto mio ... Colloquio con Riccardo Illy ... Ci sono cose che spiazzano: Riccardo llly, appena sveglio, prende untè.Andiarno. Scappa da ridere anche a lui, infatti un po’ si giustifica: “Mio padre e mia madre facevano colazione così” .Volendo,ci si potrebbe vedere un segno. Del destino no, ma della nuova vocazione dell’azienda sì: far diventare Illy, da sinonimo di caffè, simbolo di gusto a tutto tondo. Quello pieno del cioccolato, del caffè, del tè appunto, e del vino. Tutto ciò che libera dopamina, insomma, il neurotrasmettitore del piacere: e non sarà un caso che l’ultimo numero di “illywords”, sofisticato magazine “per riflettere e apprendere”, sia dedicato al concetto filosofico di “eudemonia”: che - andando un po’ per le spicce - è piacere, benessere. Star bene nel mondo. Con la felicità come effetto collaterale. In concreto, quello che Riccardo Illy si è messo in testa è di creare un polo italiano del gusto. A colpi di miratissime acquisizioni:
puntando a piccole aziende eccellenti (nel vino, nel cioccolato, nelle confetture, nel tè) da sviluppare e far crescere, sfruttando ogni possibile sinergia per portarle sui mercati internazionali. Così oggi il Gruppo Illy di cui è presidente -la holding di famiglia- controlla oltre a illycaffè anche Domori (cioccolato), Mastrojanni (vini), Dammann Frères (tè) e ha una robusta partecipazione in Agrimontana (frutta conservata). Una piccola partecipazione (il 5 per cento) c’è l’ha anche in Grom, un’altra case history di eccellenza, ma nel gelato.

Non bastava il caffè?

“E una storia lunga. Che inizia nel 1933, col nonno nato a Timisoara, allora Ungheria, che apre a Trieste un’azienda di caffè e cioccolato. Aveva anche un’azienda agricola in Istria, alberi da frutta, voleva produrre confetture. Anni dopo l’Istria diventa jugoslava, la proprietà viene nazionalizzata. Quindi per molto tempo, mentre le generazioni si succedono, la famiglia produce solo caffè. Unica azienda al mondo, produce un unico blend di caffè, per scelta di qualità. Finché arriviamo ai nostri giorni e ci chiediamo, Che cosa faremo nel futuro? Lavoriamo su i 40 paesi, ma con un solo prodotto: arriveremo alla saturazione. Così abbiamo deciso di applicare la stessa strategia di eccellenza ad altri settori. Da lì una serie di acquisizioni: il 70 per cento di Domori e il 40 di Agrimontana, in Piemonte, i vini Mastrojanni, azienda bellissima su una terra bellissima, a Montalcino. Ci lavoravano persone eccellenti, poteva essere l’occasione per tornare alle radici contadine del nonno e avviare un progetto a lunghissimo termine, per le prossime generazioni. Per quando sarà in grado di prendere il controllo della situazione il nipotino, speriamo che il cash flow generato da caffè, tè, cioccolato possa essere reinvestito nel settore vitivinicolo per farlo crescere in modo significativo. A livello mondiale il vino fattura di più di caffè, cioccolato e tè messi insieme, però le aziende del vino costano molto, bisogna comprare terreni, immobili, cantine, e il vino resta fermo per anni, Questa di Montalcino l’abbiamo pagata più di 16 volte e mezza il fatturato di un anno”.

Ha in mente altro “shopping”?

“Miriamo alla sostenibilità anche nella crescita della holding. Non escludo tra qualche anno altre acquisizioni, ma in questo momento no. Comunque sarà nel vino: potremmo acquistare ancora a Montalcino o nella zona del Rarolo. Miriamo a vini di richiamo universale e di questi eccellenti, longevi, con storia e futuro- in Italia ce ne sono essenzialmente due, Barolo e Brunello”.

A chi si vende oggi Il vino?

“In Asia ci sono dazi pesanti. E vero che la Cina è oggi il primo paese per l’export della Francia per il vino, ma quei mercati non sono semplici. Noi vendiamo bene sia in Italia che in Usa. Gran Bretagna, Germania, Austria, Svizzera, Francia. Nei mercati maturi”. Che cosa bevono?
“Mi pare stiano superando la moda della barrique. Negli Usa si sono a lungo premiati quei vini con i tipici aromi vanigliati della barrique, e i vitigni internazionali, Merlot e Cabernet sauvignon, l’uvaggio bordolese. Ora però sempre più apprezzano vitigni autoctoni, vini lavorati in maniera tradizionale come il nostro Brunello. Apprezzano l’uso di botti più grandi, che non diano una cessione così smaccata di profumi dal legno al vino, Bisogna non rovinare in cantina ciò che la natura ha prodotto in vigna. Nella zona dell’Amiata il clima è favorevole alla vite, ventilato, i terreni sono molto sodici molto saI mi, ottimo per qualità e struttura del vino. Abbiamo 90 ettari in totale, di cui 25 a vite, tutti esposti a sud est, e 14 sono dedicati al Brunello. Produciamo varie etichette, tra cui il cru Vigna Schiena d’Asino e da quest’anno il Vigna Loreto, Il Brunello sta in cantina tre anni, 3 e mezzo il cru: una cantina costruita con i principi della hioarchitettura, umidità naturale, niente stress elettrostatici, travi di legno, pietra, calce. Il ritorno all’antico. Non filtriamo nemmeno i vini”.

Anche con il cioccolato siete così fissati?

“Domori usa solo cacao aromatici: Criollo, il più raro al mondo - abbiamo la nostra piantagione in Venezuela- e Trinitario, che rappresenta l’8 o 9 per cento della produzione mondiale. Siamo gli unici ad avere una piantagione dì solo Criollo, normalmente si ibridano: in pratica usiamo cacao la cui produzione totale non arriva al 10 per cento della produzione mondiale. Importiamo fave crude di cacao, mentre molti blasonati produttori importano massa di cacao già tostata e macinata o addirittura cioccolato già bell’e fatto, poi semplicemente lo modellano. E legale, anche se così si prendono in giro i consumatori. Invece Domori compra le fave, le debatterizza, pulisce, tosta e macina, per il concaggio usa macchine che consentono di ridurre al minimo questa fase, che elimina un po’ troppi aromi. Le particelle di cacao vengono ridotte a meno di 10 micron di diametro, così il cioccolato diventa molto cremoso. Usiamo solo cacao e zucchero di canna: niente vanilla né burro di cacao o lecitina di soja. La percentuale di cacao va dal 70 al 100 per cento: nella tavoletta 100 per cento, cioè, non c’è nemmeno un granello di zucchero. Con i produttori ci impegniamo a pagare la materia prima con un premio per la qualità. Più è alta, più sale il premio. In Colombia lavoriamo a un progetto con le Nazioni Unite per la formazione del palato dei coltivatori ai 5 gusti del cacao (acido, amaro, astringente, dolce, salato). Per essere consapevoli di che cosa stanno facendo bisogna che imparino a degustare tutte le origini del cacao”.

Illy, ma lei ce l’ha ancora il gusto per la politica?

“Più che altro, ho senso di responsabilità. Vedo che purtroppo -nonostante l’eccellente qualità delle persone al governo, condizionate però dal Parlamento- non abbiamo trovato la strada per far uscire il paese da un peggioramento economico che dura da almeno 20 anni, Cresciamo a un tasso che è la metà di quello europeo, stiamo sci volando verso l’Africa, anzi tra qualche anno ci saranno probabilmente economie nordafricane che faranno meglio di noi se continuiamo così. In un continuo degrado della nostra economia, per il malfunzionamento della pubblica amministrazione. Quindi, pur preferendo fare l’imprenditore, come faccio da quattro anni ormai, se mi chiedessero un impegno farei fatica a dire no”.

Che ne pensa dl come sta lavorando il presidente Monti?

“Potrebbe far meglio se usasse l’approccio che nel mondo delle imprese si chiama “Zero Base”. Quando bisogna costruire il bilancio preventivo di una società, osi guarda agli anni precedenti e si estrapola da quelli, oppure si fa “base zero”. In pratica: si parte da zero. E ci si chiede, dì quali strumenti vogliamo dotarci? Quali obbiettivi ci diamo? Per capirci: abbiamo fatto la riforma del lavoro, ma alcuni istituti nati in epoche e situazioni completamente diversi dall’attuale non sono stati messi in discussione: il TFR per esempio, introdotto quando in Italia c’era l’occupazione a vita. Serviva nel caso in cui si fosse malauguratamente perso il posto, era il gruzzoletto che serviva a tirare avanti nei mesi necessari a trovare un altro lavoro, in tempi in cui non c’era bisogno di formazione permanente. Ma oggi non è più così, è normale nell’arco della vita cambiare in media
4,5 lavori (cito dati lstat), e l’obsolescenza della conoscenza è rapidissima. Dovremmo piuttosto copiare dai danesi il sistema della “flexsecurity”: se uno perde il posto ha un sosteio per un periodo anche lungo, ma è chiamato a rinfrescare con corsi le sue conoscenze professionali. Se rifiuta di farli, perde il supporto e se rifiuta qualunque occupazione gli venga proposta perde il sostegno. Altro nodo non risolto: la licenziabilità. Prima della riforma Biagi avevamo zero flessibilità in uscita e zero in entrata: un mercato del lavoro ingessato, dunque tanta disoccupazione e moltissimo lavoro nero. Poi la riforma, che ha introdotto la flessibilità solo in entrata. Cos’hanno fatto gli imprenditori? Hanno utilizzato la flessibilità in entrata al posto di quella mancante in uscita: le nuove assunzioni, tutte precarie. Poi, pochi mesi fa, la “grande riforma”. E cosa succede? Si aumenta di quasi nulla la flessibilità in uscita e si riduce nuovamente, in maniera pesante, la flessibilità in entrata. Conseguenze: le persone non verranno più assunte né con contratti precari, né a tempo indeterminato, perché la flessibilità in uscita non è aumentata in maniera sufficiente. Aumenteranno lavoro nero e disoccupazione”.

La vedo pessimista.

“Siamo all’ultima spiaggia in Italia, e sì che un Presidente della Repubblica illuminato e determinato come Napolitano non si vedeva da decenni. Ma la crescita dei costi collettivi, pubblici e privati, per inerzia e inflazione, è tale, che se l’economia non riesce a crescere ci si avvita. Poi bisognerà far conto solo sull’estero. Ci attrezzeremo”.

Qualche anno fa lei scrisse un libro, “Così perdiamo il Nord”...

“Il Nord ormai è andato. Sta succedendo quello che paventavo, una sorta dì recessione silenziosa: le imprese del nord se ne vanno. Dal Friuli hanno già attraversato il confine a centinaia, vanno in Austria. Trovano meno burocrazia e meno imposte, reddito dei lavoratori più alto -quindi più potere di acquisto- tempi di reazione della pubblica amministrazione infinitamente più bassi. Altri in Slovenia, Croazia o Francia, e se ne andranno sempre cli più. All’estero fanno gran promozioni per attirare le imprese italiane”.

A proposito di estero: ma perché oggi nel mondo “caffè” si dice Starbucks, e non Illy?

“ Il loro è un altro approccio, un’altra strategia, in un altro mercato, in un altro Paese, Negli Stati Uniti andare in Borsa vuol dire tirar su miliardi di dollari,in Europa no. Non a caso Microsoft, Facebook, Intel, Starbucks appunto, sono tutte aziende americane quotate in Borsa che quando hanno avuto bisogno di finanziamenti hanno ottenuto miliardi di dollari. In Italia non succede. Comunque i locali “espressamente Illy” sono diventati più di 200 in dieci anni, e ora la formula è messa a punto. Ma noi siamo produttori di caffè, se apriamo un locale vogliamo venderei caffè, mentre con Starbucks il caffè quasi non c’entra: volevano puntare sull’espresso italiano però lo fanno con la macchina automatica, altro che barista. Detto questo, sono bravissimi, hanno messo a punto una strategia perfetta e trovano sempre nuove location e prodotti, ma non a caso non sono ancora presenti in Italia, il paese più esigente in fatto di caffè. L’italiano è un purista, il cappuccino al lampone non lo assaggia nemmeno, il caffè aromatizzato non gli piace”.

Lei come lo beve?

“Come va bevuto: ristretto e senza zucchero”.

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