La diversità intesa come valore, il ruolo ineguagliabile di quelle persone che il territorio lo vivono e lo hanno reso grande, mani e menti che hanno posto le basi del successo, che ha richiamato tanti investimenti che hanno fatto schizzare le quotazioni dei vigneti fino a sfiorare i 4 milioni ad ettaro nei “cru” più prestigiosi di Barolo. Ma anche il messaggio lanciato proprio per le aziende, le vere protagoniste di un miracolo di eccellenza territoriale, i custodi dell’identità in un territorio che ha mantenuto, ancora oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la sua dimensione “familiare” produttiva, ma dove non mancano le “sirene” dall’esterno, magari da parte di industriali di altri settori, o di fondi o grandi gruppi di investimento a cui il “paradiso” delle Langhe fa gola; il timore, quindi, di poter perdere quella unicità che le rende vincenti nel mondo, ma anche la consapevolezza dei tempi che cambiano. Sul piatto c’è il valore della comunità e dell’identità dei territori vitivinicoli in un momento storico particolare, e di passaggio generazionale, che anche uno dei grandi terroir italiani del vino si trova, giocoforza, a dover affrontare, in un’area dove anche il turismo è letteralmente esploso negli ultimi anni, con presenze, in Langa e Roero, passate da poco meno di 238.000 nel 2004 alle oltre 845.000 del 2022, altra dimostrazione del grande appeal che sta riscuotendo uno dei gioielli del Piemonte, è una delle grandi sfide, forse la più grande, da affrontare per il comparto vitivinicolo che è anche un importante motore economico.
Un futuro che non può dimenticarsi del passato ma alle prese con variabili sempre più particolari, dalle aziende, tante, che non possono permettersi di acquistare nuovi ettari, visto il costo, ma che garantirebbero quella continuità invocata da tanti, fino alle nuove abitudini dei consumatori che non vedono in cima alle preferenze il vino. E allora come la cultura può essere conservata e in che modo far coesistere tutto questo per non soffocare la propria identità? E, soprattutto, le nuove generazioni dei vignaioli come vedono il potenziale arrivo di grandi investitori, una minaccia o un’opportunità? La pensano come i padri o la visione è diversa? Se l’attaccamento alle Langhe è lo stesso, ma si articola con sfumature diverse, sono tante le domande ma anche i punti di vista generazionali emersi da “Langhe (not) for sale, l’identità e il valore della comunità”, tema scelto dal Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani per l’edizione 2024 di “Changes”, momento di dibattito e confronto organizzato a “Grandi Langhe”, la due giorni di presentazioni e anteprime delle produzioni vinicole di Langhe e di Roero (29-30 gennaio alle Ogr di Torino). Un tema che è servito ad esplorare e analizzare diversi trend, per valutare il “sentiment” dei proprietari delle cantine e dei vigneti rispetto all’ipotesi di vendita, o meno, delle proprie aziende, grazie anche alla presentazione della ricerca firmata dal Centro di Ricerca sullo Sviluppo di Comunità e i Processi di Convivenza (Cerisvico) dell’Università Cattolica di Milano e Brescia e coordinata dai docenti Maura Pozzi e Adriano Mauro Ellena. Tema che ovviamente sta a cuore a molti perché sinonimo di futuro ma anche di un potenziale “campanello di allarme” in riferimento ai propri connotati. Come ha spiegato Matteo Ascheri, Presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, “senza persone il vino perde anima, le Langhe sono tali perché siamo tanti e diversi. “Irregolari”, in un certo senso. I capitali che qui hanno investito e che vogliono farlo ancora sono importanti perché portano vantaggi, progettualità, ma è anche vero che oggi comprare un ettaro di Barolo è complicato per un’azienda che vive di viticoltura, perché siamo arrivati a cifre proibitive, ed il rischio è di dare più valore al capitale, alla finanza, che a volte è anche speculazione, che all’identità e alla distintività del prodotto, che è la nostra caratteristica”. Ascheri ha parlato del concetto di “irregolarità”, inteso come “diversità”, e se è vero come, ovviamente, il domani dipenderà dalle scelte del singolo, il presidente del Consorzio ci tiene a ricordare come “siamo diventati quel che siamo perché siamo aziende familiari. Il fattore umano è intrinseco nel prodotto, è una risorsa”.
I risultati emersi dalla ricerca, che di fatto non solo indaga sugli aspetti economici ma anche psicologici e sociali, mostrano come la tematica sia vissuta in maniera diversa dalle diverse generazioni familiari. Gli “Junior” (meno di 40 anni, ndr) considerano gli investitori (i Gie, Grandi investitori esterni, ndr), in un’ottica complessa e strutturata - non monolitica, ma differenziata rispetto alle varie tipologie (fondi di investimento, multinazionali, grandi gruppi, singoli investitori) - portatori di progetti industriali e forti dotazioni di capitali. I “Senior” (più di 40 anni, ndr), al contrario, hanno una visione più univoca degli investitori “esterni” che operano a fini speculativi e mossi da pure logiche di tendenza e di finanza. Per entrambi i cluster si attivano processi psicologici differenti a seconda che gli investitori appartengano, o meno, al settore vitivinicolo. La posizione rispetto alla vendita dell’azienda degli “Junior” viene considerata come una questione comunitaria, cioè che incide sul patrimonio identitario e valoriale del territorio e per questo va ponderata e valutata in un’ottica collettiva e di forte attaccamento alle radici delle Langhe. I “Senior” ne fanno, invece, una questione aziendale perché in essa si identificano al punto tale da connettere la vendita dell’azienda alla vendita di parte di sé. Entrambi hanno profondamente a cuore il territorio, ma i più giovani non hanno paura del nuovo e sembrano avere un’apertura che non hanno gli “over 40”. Il tema è stato poi ulteriormente approfondito nella tavola rotonda a cui hanno partecipato, oltre al Presidente del Consorzio di tutela Barolo, Barbaresco, Alba Langhe e Dogliani Matteo Ascheri, anche Massimo Romani, ad Argea gruppo leader del settore vitivinicolo in Italia; Francesco Mulargiu, dell’Associazione Vini Mamoiada (“solo dal 2000 abbiamo iniziato l’imbottigliamento dei nostri vini e oggi la nostra associazione conta 25 produttori che hanno sottoscritto un disciplinare di tutela molto restrittivo per valorizzare il prodotto e il lavoro di chi ha scelto di promuovere la nostra realtà. Nella nostra associazione possono entrare solo produttori che risiedono nel territorio. Ci sentiamo un po’ simili, con i debiti paragoni, alle Langhe, perché la passione e l’attaccamento al nostro tessuto sociale è lo stesso che ho trovato visitando le cantine langarole e quello che penso sia il plus che alla fine fa la differenza anche nel vino e nel modo di raccontarlo e viverlo”, ha raccontato) e da Massimiliano Cattozzi, responsabile Direzione Agribusiness Intesa Sanpaolo. “Il modello che riteniamo vincente - ha dichiarato Massimo Romani, ad Argea gruppo leader del settore vitivinicolo in Italia - è quello di un corretto mix fra investimenti esterni, fatti però nella logica di continuità e di un coinvolgimento diretto delle ex proprietà e un tessuto di aziende, spesso famigliari, che mantengano inalterato il tessuto sociale e di valori. Una convivenza di anime che possono garantire il miglior futuro ai territori”. Per Matteo Ascheri “non è possibile pensare a uno sviluppo e una crescita che non passi da un mantenimento dei valori distintivi e della qualità che hanno reso le Langhe, nel corso dei decenni, un’eccellenza. Se penso al domani immagino più che una crescita, in termini di produzione, un incremento della qualità, fatta dalle persone, dalle cantine e dai valori. Non è possibile fare paragoni con altri territori in termini di modello di sviluppo. Contano le persone, le loro tradizioni e le loro storie. È questo il patrimonio che dobbiamo passare alle future generazioni per poter garantire loro un domani di prosperità”. Ascheri si è soffermato anche sullo scenario del vino attuale (e futuro) affermando che “i consumi di vino sono destinati a diminuire ma il prodotto di qualità non perderà.Il vigneto impatta, avere meno vigne significa impattare meno ma anche diminuire i prezzi con la manodopera e poter vendere un vino ad un prezzo più alto”.
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