È una ben strana “guerra”. Una guerra in cui quello che conta è, paradossalmente ma non troppo, fare più prigionieri possibile: l’Institute Masters Of Wine ha scelto proprio questo termine per descrivere le tensioni fra i produttori, i distributori ed i venditori finali del nettare di Bacco, dopo 25 anni nei quali - come ha sottolineato in apertura l’italo-britannico Pierpaolo Petrassi, a capo del settore acquisti di prodotti alcolici della britannica Waitrose - la platea potenziale del vino a livello globale non ha fatto che espandersi a tutti i livelli della piramide qualitativa. Ad aprire, oggi, i lavori del Simposio Internazionale Masters of Wine è stata Annette Alvarez-Peters, Global Wine Buying Director del gigante della grande distribuzione statunitense Costco: ed anche dall’alto del secondo retailer più grande d’America, con 105 miliardi di dollari di ricavi e 2 milioni di transazioni al giorno, il messaggio è inequivocabile. “Alla fine degli anni Novanta, molti produttori e distributori non volevano fornire a Costco i loro prodotti, e questo era dovuto in grandissima parte ad una mancanza di rapporti interpersonali fra le persone che dovevano far incontrare queste realtà”. Da allora il colosso a stelle e strisce è arrivato a vendere qualcosa come 3 miliardi di dollari in bevande alcoliche, 50% dei quali dal vino, e questo pur avendo una selezione di 150 prodotti, che coprono ogni fascia di prezzo.
Dall’altra parte della barricata, o dell’immaginario “campo di battaglia”, ci sono, invece, attori come Bruce Jack, ex produttore e attuale Chief Winemaker di Accolade Wines South Africa. E per loro “è necessario che anche i produttori stiano attenti a ciò che desiderano, perchè se si vuole accedere alla grande distribuzione è necessario essere sicuri di poter soddisfare i volumi di offerta che vengono richiesti”. Ma dato che “chi tiene in mano le chiavi della distribuzione è l’anello fondamentale della catena”, più che di battaglia, per Jack le transazioni enoiche, “che sono molte più di quanto non si possa immaginare”, i fattori imprescindibili sono fiducia e, ancora, le relazioni interpersonali.
Ci sono, però, casi, come il mercato svedese, nel quale non contano solo i rendiconti e i ricavi: il monopolista statale sulgi alcolici, Systembolaget, “deve tenere presente anche e soprattutto il valore aggiunto di un dato vino alla catena del valore rispetto ai propri concorrenti”, e anche la propria immagine in termini di trasparenza e sostenibilità, dato che “sapere chi si ha davanti, anche per i soggetti privati e non solo per quelli pubblici, è fondamentale, per evitare che l’aggiunta di un prodotto al proprio portafoglio non si riveli un boomerang”.
In chiusura, ad aggiungere il proprio parere è stato Willi Klinger, attuale Managing Director dello Austrian Wiine Marketing Board ed ex “ambasciatore” nel mondo di uno dei nomi più blasonati dell’Italia enoica, Gaja: “c’è battaglia fra chi vende e chi compra quando manca una cultura del vino tra le controparti”, ha affermato. “E con questo voglio dire che è necessario capire che un termine come “entry level”, è soggettivo, perché se chi vende e chi comprano hanno entrambi ben presente cosa c'è dietro ad una bottiglia di vino ad un euro” - sia in termini di sostenibilità che di esternalità negative di produzione - “allora diventa molto più facile, e anche molto più benefico all’intero sistema, modificare la percezione del consumatore, rendendo anche lui partecipe del fatto che il vino non è una commodity per ubriacarsi, ma un prodotto che è pieno di poesia”, ha concluso citando Oscar Farinetti.
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