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MOLTE VARIETÀ AUTOCTONE ITALIANE NON HANNO UNA CARATTERISTICA AROMATICA PREDOMINANTE. “CHE PUÒ ESSERE UN VANTAGGIO SE SI PUNTA SULL’ESPRESSIVITÀ DEL TERRITORIO, PIÙ CHE DEL VITIGNO”. LA TESI DI LUIGI MOIO, ORDINARIO DI ENOLOGIA (UNIVERSITÀ DI NAPOLI)

Italia
Luigi Moio

Ci sono vitigni “solisti”, sotto il profilo aromatico, ovvero uve che, a prescindere dal territorio, o meglio dal terreno, in cui vengono coltivate, hanno una nota olfattiva dominante, che emerge sempre e comunque nei vini a cui danno origine. È il caso di tante varietà “internazionali”, come sauvignon, cabernet, cabernet franc, pinot noir, syrah, merlot o grenache, per stare sui rossi, o gewurtzraminer, riesling, sauvignon blanc o chardonnay, sul fronte dei bianchi. Ma ci sono altri vitigni che hanno un’identità olfattiva meno marcata, che più che le caratteristiche dell’uva, nel vino, tirano fuori e valorizzano, anche a livello aromatico, quelle del terreno. Prerogativa propria di tante varietà autoctone italiane, “che andrebbe valorizzata come elemento distintivo dell’identità sensoriale dei nostri vini”, afferma il professor Luigi Moio, ordinario di enologia all’università Federico II di Napoli, che da anni sostiene questa tesi.

“Parliamo sempre più spesso di territorio, di terroir, di espressione territoriale, di quanto un luogo sia capace di dare un’impronta forte, anche aromatica, ad un vino. Ebbene, noi in Italia disponiamo di vitigni non fortemente aromatici dal punto di vista varietale, e questo potrebbe rivelarsi come un punto di forza e non di debolezza. Dopo 25 anni che mi occupo della chimica dell’aroma del vino, alla fine ho imparato che ci sono vini prodotti da uve con un aroma varietale molto forte, che chiamo “vini solisti”, perché hanno un attore principale che è il vitigno, e tanti componenti secondari. Se anche uno di questi componenti stona, noi possiamo comunque riconoscere il vitigno. È difficile dunque stravolgere l’aroma di questi vitigni. Se invece immagino un vino prodotto con un vitigno che definisco “non solista”, come può essere il sangiovese, l’aglianico, la falanghina, la garganega il trebbiano e così via, il vino può essere comunque riconosciuto, ma non grazie ad una caratteristica olfattiva predominante, ma grazie all’equilibrio, più complesso da raggiungere, di tutti i sui componenti”.

In altre parole, in vini prodotti da uve meno aromatiche, la qualità, e soprattutto la distintività olfattiva, sono frutto di un equilibrio. “Se l’equilibrio è stabile, negli anni e nel territorio, il consumatore può riconoscerlo. Ma questo equilibrio può essere modificato da un suolo diverso.
Il fattore su cui puntare, visto che si parla tanto di identità territoriale, è che un vino prodotto con un uva non solista dal punto di vista aromatico, può essere uno strumento per esprimere un territorio”. Certo, senza un “solista”, se uno degli orchestrali stona, l’errore si nota di più.

“Quando lavoriamo sui vitigni storici italiani, infatti, bisogna stare attenti ad ottenere il massimo della purezza olfattiva. L’uva e le vinificazioni devono essere perfette. L’enologo deve essere un assistente del processo. E non devono esserci deviazioni sensoriali. Con un uva che ha un aroma varietale forte, nel vino si può tollerare anche un piccolo difetto. Con uve meno aromatiche no. Spesso in Italia si voglio connotare i difetti aromatici, quando ci sono, come tipicità. Ma non è così: un difetto olfattivo è un difetto al 100%. La distintività territoriale di un profilo aromatico di vini ottenuti da uve meno caratterizzate, in questo senso, è un equilibrio perfetto. Più difficile da trovare e da mantenere, ma che può essere una chiave vincente sul mercato”.

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