“Sovranità è una parola difficile da spendere, ma, come per tutte le parole, il suo significato dipende da come si usa e in quale contesto. Se la sovranità alimentare vuol dire che una comunità è in grado di controllare i processi economici e tutto ciò che succede al cibo che arriverà sulla tavola, è una bella parola, ma quando prende altre declinazioni non ci siamo più. Oggi come in passato, non esiste la possibilità di risolvere tutti i problemi in modo autarchico. Lo scambio sotto forma di commercio, del dono o della solidarietà collettiva è da sempre uno dei motori economici più importanti: dimentichiamoci l’autosufficienza. Però è importante che ci sia un controllo sul cibo, e da questo punto di vista, stiamo vivendo in un periodo storico pericoloso, nel quale ci sono multinazionali - parola anche questa neutra, che vuol dire grandi aziende che operano su scala internazionale, ma che spendiamo sempre in senso negativo - che hanno in mano i commerci e sono in grado di orientare i consumi della gente, con il rischio di perdere questa possibilità. Non sono un economista, ma penso che la via uscita non possa essere altro che immaginare e realizzare una complicità tra la dimensione globale della nostra economia e le dimensioni locali, che non sono incompatibili”. Parole, a WineNews, di Massimo Montanari, tra i massimi storici dell’alimentazione al mondo, che invitano a riflettere sul concetto di sovranità alimentare, tornato negli ultimi anni al centro del dibattito sulle soluzioni per garantire l’accesso al cibo e la sicurezza alimentare, di fronte alla contemporaneità delle crisi dovute al Covid, alla guerra Russia-Ucraina ed al cambiamento climatico. E che non vuol dire autarchia, ma il mantenimento di presidi culturali e di realtà agroalimentari che fanno parte della storia di ogni singolo Paese.
“Pensiamo a ciò che succede su Internet - spiega Montanari - è lo strumento più globale che esiste al mondo, ma non è incompatibile con le realtà locali, anzi a volte è il loro acceleratore, e queste realtà funzionano proprio quando riescono a mettersi in rete con altre, senza perdere la propria identità e la propria natura. Quello che accade nella comunicazione informatica, e che oggi sta dando vita a tante piccole imprese locali, è probabilmente la chiave per il futuro. Non so se chiamarla sovranità alimentare, bisognerebbe forse inventare un’altra parola. Come “glocal”, aggettivo un po’ buffo inventato dagli economisti per indicare il globale che è locale, e una convivenza non solo possibile ma realisticamente fruttuosa, grazie agli strumenti di comunicazione che abbiamo oggi. Ma bisogna sempre scontrarsi con chi la pensa in un altro modo, noi umani siamo fatti così, e la storia è fatta di contrasti tra chi vuol bene e vuole lavorare con il prossimo e chi non fa altro che pensare a nuovi modi per imbrogliarlo e trarre profitto dalla rovina altrui. Un conflitto che non finirà mai”.
Una riflessione, quella sulla sovranità alimentare, di estrema attualità nell’escalation della “guerra del grano” dopo la sospensione nei giorni scorsi dell’accordo tra Russia e Ucraina, la Black Sea Grain Initiative siglata nel luglio 2022, che sta provocando un’impennata dei listini a livello mondiale, con conseguenze ancora più pesanti sulle Nazioni più povere, e rialzo dei prezzi della pasta a fronte del calo del costo del grano duro che ha portato il Governo italiano a istituire la Cun-Commissione Unica Nazionale per vigilare sui prezzi, e che potrebbe portare gli agricoltori italiani ad abbandonare le coltivazioni per l’aumento dei costi di produzione. Il grano è l’emblema di quello che sta accadendo, ma fin dalla preistoria ha un ruolo importante nella nostra agricoltura, perché è una materia prima completa dal punto di vista nutritivo e da solo può sufficientemente sfamare l’uomo, con “battaglie” scatenate dalla sua mancanza che hanno scandito la storia fino ai nostri giorni. La situazione del grano bloccato nei porti dell’Ucraina che ha messo in crisi diversi popoli al punto da portarli verso la carestia, è anche la dimostrazione pratica di come in questi luoghi non sia stato promosso il concetto di sovranità alimentare e della difesa delle loro tradizioni agroalimentari.
“Storicamente il cibo è strumento delle guerre, anche “piccole”, come quelle tra città e Comuni nel Medioevo, perché il modo più efficace per indebolire l’avversario era tagliarli i viveri - ricorda Montanari - nelle cronache medievali vediamo spesso i Comuni belligeranti distruggere i campi del vicino per fargli mancare il cibo, e questa era la tecnica fondamentale anche dei grandi assedi, e dall’assedio di Leningrado a quello che sta succedendo oggi nella guerra Russia-Ucraina. A pensarci bene, è una delle azioni più orribili che l’uomo può compiere. E le guerre sono paradossalmente tra quei momenti della storia che ci ricordano ciò che è fondamentale e di cui ci dimentichiamo nei periodi di tranquillità, come il fatto che il cibo è la cosa più importante nella vita degli uomini. La crisi del grano come conseguenza del conflitto in Ucraina, dimostra che ci si sono milioni di persone nel mondo che senza fanno fatica a vivere. L’importanza del cibo, il costo degli alimenti, il fatto che sia controllabile ed accessibile: come ricordava sempre l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, il problema non è che ci siano le cose, ma che siano disponibili. Le grandi carestie non nascono dalla “mancanza di”, ma dall’impossibilità di “accedere a”, come non avere grano perché costa troppo o non arriva. Il cibo e la fame sono il motore della storia, e ci sono epoche come questa che stiamo vivendo in cui ti accorgi che è proprio così. Speriamo di uscirne presto, ma è positivo che ci faccia riflettere”.
Dagli anni Sessanta ad oggi, la percentuale di coloro che soffrivamo la fame era diminuito del 30%, ma dal 2018 ad oggi il tasso è tornato a salire. Stefano Zamagni, presidente Accademia Pontificia per le Scienze sociali, sostiene come i problemi dell’accesso al cibo e della sicurezza alimentare non sono solo di attualità, ma rappresentano una sfida anche intellettuale. Una tendenza che si è invertita in poco tempo “perché un trend positivo non è necessariamente infinito e pensare alla storia come ad una striscia continua di miglioramento e progresso è sbagliato - afferma Montanari - la storia è fatta ad onde. Dobbiamo rallegrarci che la fame sia calata e per fermare l’inversione di tendenza dobbiamo porci un altro obbiettivo, che è quello di migliorare la qualità. Perché spesso per i ceti poveri il venire meno della fame non ha corrisposto ad un miglioramento qualitativo dell’alimentazione. La quantità di cibo spazzatura e che costa poco che c’è in giro per il mondo è la più accessibile ai ceti meno agiati della società e risolve il problema della fame per miliardi di persone. Ma dobbiamo guardare a quello che si mangia. Storicamente i contadini hanno sempre cercato in un rapporto interattivo con l’ambiente di realizzare forme di dieta ed alimentazione che fossero importanti dal punto di vista nutrizionale e calorico ma anche piacevoli nel gusto. Quando parliamo delle antiche ricette contadine come ghiotte facciamo folclore ma raccontiamo anche come con poche risorse siano stati bravi ad ottenere pancia piena e gusto. La storia dell’alimentazione non è solo storia della pancia piena ma anche del gusto soddisfatto, che non sono separate, come lo sono state in passato se pensiamo ai banchetti dei signori ed ai contadini affamati, ma si incrociano sempre. Una delle strategie più importanti con cui i contadini hanno combattuto la fame, che non vuol dire solo morire di fame, ma anche uno stato d’animo che ti fa sempre dar da fare per il cibo affinché la dispensa non sia mai vuota, è stata moltiplicare e differenziare le risorse, che quando sono tante è più probabile che non tutte si esauriscano, e da questo punto di vista il nostro Medioevo, e in particolare l’Alto Medioevo, in cui si utilizzavano non solo campi ed orti ma anche boschi e prati, è stato un Medioevo intelligente. L’altra, sono state le tecniche di conservazione del cibo legate ad un rapporto con la natura molto particolare: la natura è bella, buona e ricca, ma il suo difetto è quello di produrre in un certo momento e poi non si sa, e mettere a frutto i prodotti naturali nella stagione in cui ci sono e conservarli, significa inventarsi cose semplicissime ma straordinarie e che sono il frutto della cultura della fame, come i formaggi per conservare il latte, i salumi per conservare le carni e le confetture per conservare la frutta. Tutte invenzioni che rappresentano allo stesso tempo anche la gastronomia di qualità perché un prodotto che si conserva è ideale anche per il mercato. E questo è l’esempio più straordinario di come la cultura della fame e quella del gusto hanno una logica comune, perché mangiare è tutte queste cose insieme”.
Il fondatore di Slow Food Carlin Petrini afferma come emerga ormai con forza il ruolo del sistema alimentare come responsabile principale del disastro ambientale, e di come abbiamo bisogno di coniugare il nuovo con la storia, superando la visione che contrappone l’innovazione alla tradizione, per arrivare ad una rigenerazione che parta dal cibo affinché questo diventi motore della transizione ecologica necessaria al rinnovamento del pensiero e della società, passando attraverso il rinnovamento delle pratiche agricole, dei sistemi di produzione e distribuzione, delle diete e delle abitudini di consumo, nelle città come nei piccoli borghi. “Il problema climatico è legato in gran parte all’azione dell’uomo, e al suo intensificarsi come in questo momento, e in parte minore ad un fatto naturale, che ha visto nella storia epoche più calde e meno calde. Dal punto di vista dell’alimentazione, che è solo uno dei problemi del cambiamento climatico - secondo Montanari - la risposta è molto facile: si tratta di abbandonare pratiche inutili come trasportare arance attraverso l’oceano, e di puntare di più sul cibo di prossimità. Che non è sovranismo alimentare, ma mettere a frutto le risorse del territorio ed incentivare l’azione di chi lo fa come i contadini. Aspetti che, fortunatamente, stanno tornando di moda, nelle piccole e soprattutto nelle grandi città dove si sta rinstaurando un rapporto positivo con la campagna e si acquistano i cibi direttamente dai produttori anziché confezionati, buoni, saporiti e che costano di meno. I grandi mercati e i loro lavoratori entrano in crisi? Bisogna inventarsi altre attività, che non sprechino risorse e denaro. Il commercio alimentare è sempre stato un aspetto essenziale della storia, nasce con l’uomo, con lo scambio ed il mercato, ma ha raggiunto un tale livello di iper-importanza rispetto all’oggetto che deve essere ridimensionato, perché non è possibile che tutto sia gestito e controllato da chi compra e vende e non da chi fa e usa. Dobbiamo riprendere in mano le filiere produttive, riportarle più vicine a noi, approfittando di queste epoche in cui ci rendiamo conto che il cibo è la cosa più importante della nostra vita”.
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