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NASCITA E MISSIONE DELLA DENOMINAZIONE D’ORIGINE: MIGLIORAMENTO DELLA QUALITÀ E PROFITTI PIÙ ALTI PER I PRODUTTORI. MA PER LE 24 DOC E LE 11 DOCG “MONOVARIETALI” DEL BEL PAESE POTREBBE APRIRSI UNA STAGIONE DI RIFLESSIONE SUI LIMITI DEI DISCIPLINARI

Italia
Una delle complesse attrezzature utilizzate per lo studio nel vigneto

Quando fu ratificato il Trattato di Roma, nel 1958, e fu stabilita una strategia agricola comune, uno dei problemi principali fu quello di far convivere le due nazioni più importanti nel campo della produzione vinicola, Francia e Italia, Paesi con industrie enologiche organizzate in modo assolutamente diverso: in Francia i vigneti erano registrati e i vini classificati secondo categorie attentamente controllate, mentre in Italia non esistevano ancora le leggi più elementari che stabilissero l’origine dei vini.
Da quel contrasto originario e apparentemente insanabile, nacque anche per il Bel Paese una legislazione ad hoc sul vino. L’introduzione, nel 1963, delle Denominazioni di origine dei vini italiani proiettava la vitivinicoltura in una nuova fase di sviluppo in cui si poneva lo scopo di impedire gli abusi nella produzione e nel commercio dei vini, evitando che prodotti di scarsa qualità, con caratteristiche organolettiche non tipiche e ottenuti in aree viticole non precisate o diverse da quelle tradizionali, fossero messi in commercio col nome di vini pregiati e potessero quindi danneggiarne l’immagine e diminuirne la domanda e i prezzi di mercato.
Centrale, in questa nuova era del vino italiano, l’applicazione dei disciplinari di produzione delle denominazioni, che offrivano precise garanzie di tutela ai viticoltori ed ai consumatori dei vini prodotti in zone esattamente definite, con vitigni, tecniche e caratteristiche enologiche stabiliti proprio da quegli stessi regolamenti. Ma la demarcazione vinicola non solo nasceva con l’obbiettivo di “calmierare” la produzione e generare vini di migliore qualità, che potevano essere venduti a prezzi più alti, ma anche di diventare una procedura di legge capace di creare una posizione di privilegio per i produttori all’interno di una certa zona demarcata, fornendo così la possibilità di ottenere maggiori profitti, anche dal lato immobiliare.
Il modello di quella prima legislazione viticola erano le francesi Appellation d’Origine Contrôlée, che però, nel caso italiano, non ebbe lo stesso successo e la stessa efficacia. La legge italiana sui vini specificava le uve permesse per ogni tipo di vino, i massimali di produzione per ettaro, i metodi di vinificazione e la gradazione alcolica, nonché i requisiti di invecchiamento. Non prevedeva, però, un comitato di esperti e la garanzia di autenticità non era necessariamente una garanzia di qualità. Le rese massime erano in generale molto superiori a quelle francesi e molte denominazioni importanti potevano aggiungere fino al 15% di uve provenienti da altre regioni, per non dire delle notevoli variazioni di altitudine, di terreno e di microclima esistenti in una stessa zona a denominazione, che, inevitabilmente, si ripercuotevano sulla qualità dei vini.
A parziale correzione di questi problemi, verso la fine degli anni ‘70, fu introdotto un nuovo sistema di classificazione dei vini di qualità superiore, le Docg, che prevedeva analisi e assaggi da parte di un comitato di esperti. Restava, e resta aperto, il problema di fondo per cui i vini prodotti in un qualunque punto della zona a Docg, che rispondevano ai requisiti basilari della denominazione, potevano (e possono) fregiarsi della fascetta di Stato indipendentemente dal particolare microclima e dalla posizione del vigneto. Mancò (e manca) alla grande enologia italica la capacità di imitare per intero la Francia e creare una gerarchia di qualità fra i vigneti di una certa zona o di distinguere al suo interno la produzione di vini in qualche modo “diversi” (solo l’introduzione nella legge 164 del 1992, delle sottozone e della denominazione “Vigna”, alleggerirà parzialmente il gap su questo punto con i “cugini” francesi).
La “via italiana” verso l’eccellenza enologica passò da altre strade, per certi versi del tutto innovative: alcuni produttori ignorarono del tutto disciplinari e denominazioni, produssero vini di grande pregio con la denominazione, teoricamente inferiore, di “Vino da Tavola”, confidando, a ragione, più sulla loro qualità e reputazione che sulla classificazione ufficiale.
Oggi in Italia ci sono 358 fra Doc e Docg, in Francia le Appellation d’Origine Contrôlée (vini, acquaviti ...) sono 474, ma i transalpini sembrano conservare una chiarezza di intenti superiore a quella del Bel Paese, benché attraversata da problemi, contrasti, difficoltà e pressioni. In Francia, la denominazione è un marchio collettivo da difendere, un patrimonio nazionale. La terra, la vigna e il vino appartengono al viticultore, ma la denominazione appartiene alla nazione ed è quindi gestita dal governo per conto dello Stato. L’eccellenza produttiva di una zona come, per esempio, la Borgogna rappresenta circa il 2% della superficie dell’intera denominazione, il resto è votato ai volumi, creando una sorta di “alternanza” tra aree di qualità e di quantità. Le Appellation d’Origine Contrôlée monovarietali sono molto limitate: Borgogna, Hermitage, alcuni Grand Cru dell’Alsazia e della Loira, i “Blanc Noir” e i “Blanc de Blanc” della Champagne. Tutte queste caratteristiche messe assieme, garantiscono una certa adattabilità delle denominazioni francesi alle pressioni sempre più forti e difficilmente controllabili dei mercati.
In Italia, esistono 11 Docg e 24 Doc monovarietali, nate in alcuni casi, più da esigenze di marketing che di terroir, permane una indeterminatezza nella delimitazione delle zone di eccellenza assoluta all’interno delle denominazioni più importanti, prevale la frammentazione rispetto all’unità di intenti.
Eppure oggi, nei mercati ormai completamente mondializzati, a decidere delle fortune di ogni impresa concorre in modo sempre più massiccio l’efficacia degli elementi immateriali con cui l’impresa stessa riveste i beni materiali che immette sul mercato. Anche nel mondo del vino, a decidere del successo di una bottiglia sono la presenza di simboli che evocano le sensazioni, il prestigio, l’appagamento di chi la consuma. Quei simboli sono segni, immagini, nomi di luoghi dove la produzione di un vino conosce una particolare tradizione. Nomi e simboli, quindi, attribuiscono alla materia prima il valore che ne fa prodotto dalla vivace domanda e dal prezzo elevato. Nel confronto per la spartizione del mercato mondiale del vino sono lo strumento per controllare quote ingenti della domanda e per appropriarsi delle fasce più ricche del consumo. Quei nomi e quei simboli e i loro relativi riferimenti, insomma, rappresentano un valore ingente. Difendere quel valore, significa difendere i simboli, quasi ancestrali, a cui i vini sono tradizionalmente legati (quindi i simboli di un territorio e di una tradizione), anche indipendentemente dal nome del produttore.
Sembrerebbe tornata l’urgenza di affidarsi completamente a quelle denominazioni e quei disciplinari, che, però, portano ancora al loro interno lacune e contraddizioni.
Nell’Europa del vino le spinte a ridurre il peso dei vincoli normativi sul mercato sono forti, soprattutto da parte del mondo industriale che considera gli unici marchi capaci di sostenere i vini sul mercato i brand industriali o i nomi dei vitigni (quindi i simboli delle società che producono i vini o, semplicemente, i “costituenti” il contenuto delle bottiglie). Ma, a ben guardare, come potrebbe suggerire il recente “caso Brunello”, al di là delle responsabilità ancora da stabilire, la forza di un marchio collettivo, di un disciplinare e di un vitigno, corrono il rischio di entrare in crisi e di non riuscire più a garantire una costante forza competitiva.
Schierarsi pro o contro l’utilità o meno di un disciplinare che prevede l’uso di un unico vitigno è un esercizio sterile, ma dentro a questa domanda ci sta, crediamo, buona parte del futuro del mondo del vino italiano, che dovrebbe essere stimolato ad aprire una seria e articolata discussione su dove voglia andare, rispetto al suo assetto complessivo e scegliere se restare “paladino”, insieme alla Francia, dei territori o aprirsi completamente alle sollecitazioni marketing-oriented del Nuovo Mondo.
Insomma, decidersi a tracciare una linea di separazione netta tra la propria viticoltura di terroir e quella più industriale, legata ormai all’economia di scala.

Le 11 Docg ottenute da un unico vitigno
1) Albana di Romagna Docg (DPR del 13 aprile 1987), regione: Emilia Romagna, vitigno: Albana di Romagna
2) Asti Spumante - Moscato d’Asti Docg (DPR del 29 novembre 1993), regione: Piemonte, vitigno: Moscato Bianco
3) Barbaresco Docg (DPR del 3 ottobre 1980), regione: Piemonte, vitigno: Nebbiolo
4) Barolo Docg (DPR del 1 luglio 1980), regione: Piemonte, vitigno: Nebbiolo
5) Brachetto d’Acqui Docg (DM del 24 aprile 1996), regione: Piemonte, vitigno: Brachetto
6) Brunello di Montalcino Docg (DM del 19 maggio 1998), regione Toscana, vitigno: Sangiovese (localmente denominato Brunello)
7) Dolcetto di Dogliani Superiore o Dogliani Docg (DM del 23 luglio 2005), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
8) Gavi o Cortese di Gavi Docg (DM del 9 luglio 1998), regione: Piemonte, vitigno: Cortese (localmente denominato Courteis)
9) Montefalco Sagrantino Docg (DM del 5 novembre 1992), regione: Umbria, vitigno: Sagrantino
10) Roero Arneis Docg (DM del 7 dicembre 2004), regione: Piemonte, vitigno: Arneis
11) Ramandolo Docg (DM del 9 ottobre 2001), regione: Friuli Venezia Giulia, vitigno: Verduzzo friulano (localmente denominato Verduzzo Giallo)

Le 24 Doc ottenute da un unico vitigno
1) Aglianico del Vulture Doc (DM del 9 marzo 1987), regione: Basilicata, vitigno: Aglianico
2) Barbera d’Alba Doc (DPR del 27 maggio 1970), regione: Piemonte, vitigno: Barbera
3) Diano d’Alba o Dolcetto di Diano d’Alba Doc (DPR del 3 gennaio 1989), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
4) Dolcetto d’Alba Doc (DPR del 16 luglio 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
5) Dolcetto di Dogliani Doc (DPR del 26 giugno 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
6) Dolcetto delle Langhe Monregalesi Doc (DPR del 6 luglio 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
7) Dolcetto d’Asti Doc (DPR del 10 giugno 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
8) Dolcetto d’Acqui Doc (DPR del 1 settembre 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
9) Dolcetto d’Ovada Doc (DPR del 1 settembre 1974), regione: Piemonte, vitigno: Dolcetto
10) Erbaluce di Caluso o Caluso Doc (DM del 25 giugno 1998), regione: Piemonte, vitigno: Erbaluce
11) Freisa d’Asti Doc (DM del 28 febbraio 1995), regione: Piemonte, vitigno: Freisa
12) Freisa di Chieri Doc (DPR del 20 settembre 1973), regione: Piemonte, vitigno: Freisa
13) Loazzolo Doc (DM del 14 aprile 1992), regione: Piemonte, vitigno: Moscato Bianco
14) Moscato di Noto Doc (DM del 2 gennaio 2008), regione: Sicilia, vitigno: Moscato Bianco
15) Moscato di Pantelleria Doc (DM del 27 settembre 2000), regione: Sicilia, vitigno: Moscato Bianco (localmente denominato Zibibbo)
16) Moscato di Scanzo Doc (DM del 17 aprile 2002), regione: Lombardia, vitigno: Moscato di Scanzo
17) Girò di Cagliari Doc (DPR del 9 aprile 1979), regione Sardegna, vitigno: Girò di Cagliari
18) Nebbiolo d’Alba Doc (DPR del 27 maggio 1970), regione: Piemonte, vitigno: Nebbiolo
19) Primitivo di Manduria Doc (DPR del 30 ottobre 1974), regione: Puglia, vitigno: Primitivo
20) Rosso di Montalcino (DPR del 25 novembre 1983), regione: Toscana, vitigno: Sangiovese
21) Teroldego Rotaliano Doc (DPR del 22 giugno 1987), regione: Trentino, vitigno: Teroldego
22) Valle d’Aosta Blanc de Morgex et de La Salle Doc (DM del 28 marzo 1986), regione: Valle d’Aosta, vitigno: Prié Blanc biotipo Blanc de Morgex et de La Salle
23) Vernaccia di Oristano Doc (DPR del 11 agosto 1971), regione: Sardegna, vitigno: Vernaccia di Oristano
24) Aleatico di Gradoli Doc (DM del 21 giugno 1972), regione: Lazio, vitigno: Aleatico.

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