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OLTRE LE ROVINE DI POMPEI: IL SALVATAGGIO DI “VITI MONUMENTALI” DI FEUDI DI SAN GREGORIO COME MODELLO VIRTUOSO DI UN PROGETTO DALLE GRANDI PROSPETTIVE FUTURE. SCIENZA: “UNA VECCHIA VITE NON SOLO DÀ BUON VINO, MA PUÒ AIUTARE LA VITICOLTURA DEL FUTURO”

Crollano le mura millenarie di Pompei, per l’incuria di una gestione pubblica a dir poco lacunosa, mentre, oltre tutto, una delle città più belle del mondo, Napoli, “affoga” tra i suoi rifiuti. Storie di ordinaria follia, verrebbe da dire, eppure anche in questa terra esiste, si può toccare oggi, adesso, qualcosa di radicalmente altro.
A pochi chilometri di distanza, tra le colline irpine, sembra di essere in un altro mondo: la Feudi di San Gregorio, un’impresa privata, investe risorse e professionalità per riportare alla luce una sorta di “Pompei viticola”, un vero e proprio archivio varietale, costituito da piante plurisecolari. Si tratta di un progetto di recupero su cui la cantina, con sede a Sorbo Serpico, ha scommesso con convinzione e impegno, attualizzando un’idea grazie alle possibilità che solo il regno vegetale può garantire: da antichi padri far nascere nuovi figli.
Prima, acquistando i terreni (6 ettari in tutto) dove i “Patriarchi”, le cosiddette “viti monumentali” (media sui 75/100 anni di età, ma alcune anche di 250 anni), dimoravano nell’incuria dell’uomo, poi riportando all’antica vigoria questi individui, con una paziente operazione di potatura e rigenerazione arborea, e, infine, allestendo dei veri propri “giardini viticoli”, destinati alla visita come in una sorta di museo a cielo aperto e, soprattutto, costituendo un vero e proprio bacino di approvvigionamento di “nuove-vecchie” varietà, destinate alla produzione.
In questa sorta di “macchina del tempo” viticola, accompagna la Feudi di San Gregorio (www.feudi.it), oggi diretta da Antonio Capaldo e dall'ad Pier Paolo Sirch, l’Università di Milano (in primis, Attilio Scienza, ordinario di viticoltura) e l’Università Napoli (Luigi Moio, ordinario di enologia).
E proprio uno degli studiosi, il professor Attilio Scienza dell’Università di Milano, spiega a WineNews che “abbiamo trovato piante di Aglianico, di Fiano, ma anche piante particolari originate da incroci spontanei avvenuti chissà quando. Tra questi anche quello tra Syrah e Aglianico, che sembra essere proprio l’incrocio all’origine dell’antica varietà Syrica. Ma questo vitigno è soltanto il testimone, l’apripista di un affascinante viaggio che abbiamo appena cominciato. Ci sono molti vitigni non definiti, che non hanno nome, dalle caratteristiche interessanti e che pure hanno fatto parte di un’antica cultura agricola. Qualcuno di questi individui potrà essere recuperato e ritornare a vivere in un vigneto dei nostri giorni”. Si tratta, dunque, di una operazione culturale dalla grande prospettiva futura e intimamente “aperta” nel senso che rappresenta un esempio decisamente esportabile in altri luoghi. Veri e propri bacini di questo genere, possono essere individuati in tutta Italia e in regioni come la Sardegna (una terra anch’essa “graziata” in parte dal disastro ottocentesco della fillossera) si potrebbero ottenere risultati molto interessanti come quello raggiunto in Irpinia.
Non solo, le implicazioni scientifiche e direttamente produttive sono enormi. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla possibilità di riportare nei vigneti dei nostri giorni piante antichissime e, per questo, dotate di una vitalità superiore, allargando ed arricchendo il già notevole patrimonio varietale del “vigneto Italia” all’insegna di una concreta azione per la biodiversità.

Focus - La comunicazione del professor Attilio Scienza: “una vecchia vite non solo dà buon vino, ma può aiutare la viticoltura del futuro”
Di fronte ad una vite di 80-100 anni si rimane sempre un po’ sorpresi e pieni di ammirazione. È un incontro peraltro sempre più raro nella viticoltura europea, mentre è più facile avere la fortuna di trovare viti molto vecchie, talvolta superiori anche ai 150 anni, nel vicino Oriente o nelle zone della viticoltura più antica dell’Australia. Nella viticoltura prefillosserica si ricordano numerosi esempi di piante che avevano anche 300-400 anni (445 anni per una vite presente nel novarese, citata attorno agli anni Venti o la parte alta del vigneto di Clos de Vougeot dove le viti ai tempi della Rivoluzione francese avevano 400-500 anni). Ancora oggi si ricorda una vite presente nel Collegio dei Gesuiti a Reims che ha più di 300 anni e dai 30 Kg di uva che produce si ricava un vino per la Messa o la vite di Versoaln, un vitigno ormai scomparso, presente in Alto Adige nel paese di Prissiano, di oltre 350 anni. In Campania sulla Costiera Amalfitana ed in Irpinia non è difficile incontrare ceppi, rispettivamente di Tintore, di Aglianico o di Sirica di età superiore ai 150 anni. Scriveva Alberto Magno a proposito del valore delle viti vecchie: “Vitis etiam provectioris aetatis facit uvas meliores et melius vinum, sed facit uvas pauciores proportionae suae quantitatis quam juvenis”.
Queste osservazioni che risalgono al XIII secolo sono state recentemente confermate da una ricerca svizzera che ha accertato una qualità migliore nei vini prodotti da viti di 40-50 anni rispetto a piante di 7-8 anni, soprattutto in vitigni a bacca rossa, in virtù del maggior equilibrio che manifestano che consente loro di tollerare meglio gli effetti del cambiamento climatico ed in particolare la mancanza prolungata di acqua. Viene spontaneo chiedersi da dove deriva questa longevità e siamo istintivamente portati a fare un paragone con gli uomini che vivono 90-100 anni e portano bene, come si dice, i loro anni.
Non è possibile dare una risposta univoca: per gli uomini dipende dal patrimonio genetico, dal regime dietetico, dallo stile di vita, dalla vita affettiva, dal modo con il quale si affrontano le difficoltà psicologiche. Per la vite, oltre alle condizioni particolari dello sviluppo radicale, che deve essere molto esteso, la mancanza dell’innesto ha un ruolo certamente significativo assieme all’equilibrio vegeto-produttivo che quella pianta ha avuto nel corso della sua vita e che gli ha consentito di reagire senza conseguenze agli stati di stress come periodi di siccità, di asfissia radicale, di carenze alimentari.
Come per l’uomo però, questa longevità non è frutto del caso, ma è il risultato di precise scelte operate dal viticoltore. Da un sommario censimento dei luoghi dove in Italia si possono incontrare queste viti, si rileva che il comune denominatore che lega le diverse espressioni di quelle viticolture è rappresentato dalle modalità della potatura secca. Prendendo due esempi, apparentemente molto distanti, gli alberelli del Sulcis e le alberate di Taurasi, si nota che in ambedue i casi la potatura esclude tagli sul fusto o comunque sul legno di più anni ed è invece realizzata solo su tralci di due anni. Nell’alberello questo taglio è fatto sullo sperone, nell’alberata avellinese su un tralcio a ricadere, di più anni, portato da un cordone alto permanente.
Con queste modalità di potatura che possono essere applicate a qualsiasi forma d’allevamento, si ottengono alcuni risultati importanti per la vitalità della pianta. Poiché la vite non ha la possibilità di produrre un callo cicatriziale sulle grandi ferite, mentre può farlo su tagli con tessuti più giovani, queste lesioni non solo sono una via d’accesso per i funghi responsabili dell’esca e l’eutipiosi, ma provocano la morte progressiva di parti importanti di fusto, riducendone l’efficienza nel trasporto dei soluti e metaboliti. Spesso la presenza di questi tratti di tessuto morto non è avvertita dall’esterno e la morte improvvisa di qualche pianta durante il periodo più siccitoso dell’estate, è interpretata come un fatto normale ed imprevedibile.
Non sono però solo i grandi tagli ad essere i responsabili di questi invecchiamenti precoci del sistema conduttore delle viti. Molti errori compiuti quando le piante sono giovani, si pagano a distanza di anni. Portare in produzione una giovane vite troppo precocemente significa spesso rallentare o arrestare lo sviluppo diametrico del fusto con conseguente riduzione dello sviluppo floematico e xilematico.
In occasione del primo stress idrico con una produzione di uva elevata la pianta non riesce a soddisfare le esigenze del flusso traspiratorio ed il sistema xilematico, fortemente sollecitato, mette in atto un sistema di difesa per controllare l’eccesso di perdita di acqua, che è alla base di un danno, spesso irreversibile al sistema vascolare, causato da processi di cavitazione. La formazione delle tille nel lume dei vasi xilematici, oltre a limitare la sezione dei vasi stessi per ridurre la perdita di acqua, rappresenta l’inizio dei fenomeni di necrosi che via via si estendono a zone sempre maggiori all’interno del fusto. Alle tillosi è attribuito il cosiddetto fenomeno del “folletage”, la morte improvvisa della pianta, preannunciata da quel sintomo chiamato “dell’insalata cotta” per il colore dei margini fogliari, causato appunto dai danni al sistema di trasporto, che non consente una adeguata alimentazione idrica alle foglie. In Australia, consapevoli del valore che hanno le viti con età superiore ai 50 anni e che sono ancora discretamente presenti dove la fillossera non è ancora arrivata, i tecnici applicano a queste viti una potatura particolare che mira a far produrre poco (la produzione ad ettaro e sui 15 quintali di uva), a mantenere nella pianta un buon equilibrio tra uva e parete fogliare, a rinnovare i cordoni che tendono ad invecchiare con molta gradualità, eliminando i tagli sulle branche ma solo sulla parte più giovane dello sperone ed applicando una potatura verde che privilegi un solo germoglio per sperone e che eviti i fenomeni di dominanza apicale che possono spogliare le parti interne del tralcio o del cordone. Definiscono questa potatura “arte e scienza”.
Perché è importante salvaguardare l’integrità e la vitalità dei vigneti antichi? Non solo per la qualità dei vini che producono e che, in Francia, meritano sulle bottiglie una menzione particolare di “vieilles vignes” o per il fascino paesaggistico-culturale che emanano attorno a se, ma perché rappresentano una importante riserva di geni da utilizzare nella creazione di nuovi cloni,probabilmente più tolleranti alle malattie ed alle virosi di altri. È verosimile che queste piante abbiano nella loro memoria genetica, correlato alla trasmissione del codice epigenetico, quel meccanismo che regola l’attività dell’attività genetica, senza modificare le sequenze del Dna nelle generazioni, consentendo così l’espressione dei geni in modo regolare, senza eventi di mutazione che di norma alterano i comportamenti delle piante, sia in senso positivo che negativo.
Senza dimenticare che i vigneti dove sono presenti questi patriarchi della viticoltura contengono una elevata variabilità non solo intravarietale ma rappresentata anche da altri vitigni, spesso vere rarità, in quanto nel passato la consuetudine era quella di creare vigneti plurivarietali.
Come è facile comprendere queste viti sono un materiale biologico dalla vita effimera che improvvisamente possono morire. Per evitare di perdere il loro valore genetico sarebbe opportuno censire tutti questi patriarchi, redigendo una scheda descrittiva ed allegando un profilo del Dna. Con la collaborazione dei viticoltori che diventerebbero i custodi di queste viti si interviene con tecniche di potatura appropriata alla conservazione della pianta e si provvede a raccogliere in una collezione ex situ le viti derivate per valutarne sia gli aspetti genetici che produttivi.
Questo progetto è stato avviato da qualche anno con la collaborazione di alcune importanti aziende vitivinicole italiane dal Dipartimento di Produzioni vegetali dell’Università di Milano. In particolare nell’ambito di un progetto finanziato dalla Feudi di San Gregorio sono stati identificati e descritti numerosi ceppi di Aglianico e di altri vitigni campani di età superiore ai 150 anni. Di particolare interesse la presenza di alcuni ceppi a Taurasi che all’analisi del Dna sono apparsi incroci naturali di Syrah ed Aglianico e che nella zona vengono denominati come Sirica. In Sardegna un progetto denominato AKeA (a kent’annos) sta valutando negli uomini ultra centenari dell’isola, il rapporto tra i geni e l’espressione di alcune proteine che sono presenti solo nelle persone molto anziane. Ancora una volta vite e uomo sono segnati da un comune destino.

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