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QUANDO VINO E CIBO SI FANNO “PAROLA”: I VINCITORI DEL PREMIO ENO-LETTERARIO SANTA MARGHERITA (IN COLLABORAZIONE CON FELTRINELLI), IL “MANGIAROZZO” DI CARLO CAMBI AL TOP TRA LE GUIDE PER IBS, LE RICETTE ISPIRATE AI FILM HORROR DI TIM BURTON

I libri che parlano di enogastronomia sono sempre di gran successo, nonché una delle classiche strenne natalizie. E secondo la classifica di Ibs, la più grande libreria on-line d’Italia (più di 3.000 ordini al giorno, www.ibs.it), uno dei volumi più gettonati, nella categoria viaggi e guide, è il “Mangiarozzo” di Carlo Cambi (per Newton Compton), in posizione n. 2 (primo il libro “English in viaggio”), davanti a “Ristoranti d’Italia” de L’Espresso (n. 4), “Osterie d’Italia” Slow Food (n. 15) e “Ristoranti d’Italia” del Gambero Rosso (n. 49). Nella “top 100” generale, il primo libro a tema è “I menù di Benedetta” di Benedetta Parodi (Rizzoli, n. 18). Ma c’è chi preferisce mettere le parole su una bottiglia di vino, invece che su un classico libro: è Esploratori del gusto - Premio Eno-letterario Santa Margherita, in collaborazione con Librerie Feltrinelli, appuntamento cult per gli eno-scrittori, che ha visto trionfare, nel 2011, “La bottiglia del 1915 e il ragazzo del 99” di Roberto Cipolato, davanti a “I cinque sensi” di Laura Visconti e a “Prodigio di semplicità” di Emanuela Pozzan. Racconti già “best seller”, con una tiratura di oltre 700.000 copie, stampati sulle retro etichette dei vini Santa Margherita, Pinot Grigio Valdadige Doc, Chardonnay Trentino Doc e Müller Thurgau Frizzante Vigneti delle Dolomiti Igt (la premiazione di scena ieri a Milano, www.santamargherita.com). E per chi ama cibo e cinema, ecco “Zuppe, zucche e pan di zenzero. La cucina mostruosa di Tim Burton”, libro di ricette ispirato ai film del regista Usa, curato da Francesca Rosso per “Il leone verde edizioni”.

Focus - I racconti vincitori del Premio Eno-letterario Santa Margherita
1 - “La bottiglia del 1915 e il ragazzo del 99” di Roberto Cipolato
“Eh, quella mi sa che non gliela posso proprio dare”. La risposta era stata gentile, quasi a scusarsi. Eppure la mia ricetta di risotto ai funghi voleva un vino schietto come compagno e quella bottiglia di raboso che vedevo sullo scaffale mi sembrava perfetta. “Le dò tutta la cantina se vuole ma questa del quindici proprio non posso”. Lo guardai un pò deluso, ormai quella di cercare da solo il vino migliore era diventata una piacevole mania, dalla volta che un vino triste mandò in malora una cena importante. Il vecchio affettò qualche fetta di salame e prese una bottiglia. Mi portò a sedere attorno ad un tavolaccio piazzato di sghimbescio tra i filari che si perdevano a vista d’occhio lungo il pendio della collina. Due bicchieri e una piacevole chiacchierata tra i vigneti di questa splendida terra. In poco tempo mi perdo nelle sue parole. Non sono più un famoso chef alla ricerca di pregiate bottiglie di vini autoctoni da accompagnare a ricette esclusive, sono un anonimo viandante che ascolta la storia da un uomo che ne ha fatto parte. Una storia aspra come quest’uva, dura come questa terra mai doma. “Sa, era destinata alla mensa ufficiali perché il vino per noi era poco più di acqua sporca. Il carretto delle salmerie fu colpito in pieno da un obice ma quella bottiglia era rimasta miracolosamente intatta. L’avevo portata in trincea e subito iniziò il bombardamento. Con i miei compagni eravamo pronti con il gavettino, quasi per morir contenti se cosi si può dire, un’altra botta e poi l’apro mi dicevo. La serbavo per il gran finale, erano momenti tremendi e interminabili. Ma non l’ho aperta sa, e quando la guerra è finita me la son portata con me e ogni volta che la vita passava a tormentami aprivo la credenza ma poi la richiudevo. La serbavo per qualcosa di speciale ma ogni volta ripensavo alla trincea, ai miei compagni, a quelli che son morti e per che cosa hanno dato la vita… In trincea tutto era assurdo e quella bottiglia era l’unica cosa che invece sapeva di vita, di armonia, di bello e così mi ci sono aggrappato. Quando la guerra è finita mi sono dedicato a questo, a tirar su vigneti a tirar su vita” e mentre lo diceva accarrezzò amorevolmente con lo sguardo la collina. Lo ascoltai per un’ora buona e quando finì i suoi occhi erano umidi ma l’espressione del viso orgogliosa. A dispetto degli anni si alzò quasi di scatto: “Lasciamo perdere il 1915, venga, le insegno un segreto” e rientrammo in cantina. “Il raboso, se lo invecchia in botti di rovere piccole come questa magnifica il suo gusto” disse battendo con soddisfazione la mano sul legno “ ma non vada oltre i dieci anni, rimarrebbe solo una vecchia bottiglia”. Mi accompagnò alla macchina infilando nel baule un refosco del 1961, a suo dire l’annata migliore in assoluto. Presi mano al portafoglio. “Non voglio niente, un centenario lo ascoltano in pochi, è solo un vecchio baule di stanchi ricordi e mi ha fatto piacere chiacchierare”.
I funghi porcini hanno un piacevole odore di terra muschiata appena percettibile e mentre attendo che si indorino sorseggio da un calice il tuo vino che ne sublima il gusto. Ripenso alla tua ultima frase nel vigneto, mentre accarezzi i grappoli maturi ormai pronti per la vendemmia, le parole smorzate dai ricordi, screziate dalla vita: “ L’uomo sa metter cura e amore, passione e poi…? “ E io penso ai buoni aggettivi che l’uomo quando non distrugge sa ricavare dalle cose, anche da questo fantastico nettare, al bel color rubino, ai riflessi granati, al suo splendido bouquet, ampio e pieno che ricorda le violette di campo…ed in silenzio brindo a te ragazzo del 99, alla bottiglia che non hai mai aperto e alla Tua vita che non è stata sempre ciò che volevi perché la mia fosse migliore.
Dedicato a mio nonno ragazzo del 99

2 - “I Cinque Sensi” di Laura Visconti
La domenica era il giorno della settimana che amavo di più, non solo perché la scuola era chiusa ma anche perché papà era a casa tutto il giorno e la mattina la passavamo assieme, io e lui, giù in cantina tra le bottiglie di vino e poi in cucina a preparare il pranzo. L’aveva soprannominata “la mattina dei cinque sensi”. La prima volta che pronunciò quelle parole mi chiesi come mai avesse dato questo nome a quel particolare momento della giornata tutto nostro. Mentre sistemava le bottiglie, glielo domandai e lui rispose:
“Perché tra la cantina e la cucina, in queste ore, vengono soddisfatti tutti i nostri sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto…”
Continuavo a non capire… Lui vedendo la mia faccia perplessa mi fece sedere su un piccolo sgabello e mi disse di chiudere gli occhi e prestare attenzione, inizialmente, solo a ciò che udivo. Sentii il suono dei bicchieri che venivano appoggiati sul tavolo per cinque volte, poi sentii dei piccoli botti nel momento in cui vennero stappate delle bottiglie e infine il rumore del vino che veniva versato nei bicchieri. Era un suono lento che mi trasmetteva tranquillità e calma. Poi mi disse di allungare la mano, sempre tenendo gli occhi chiusi e toccare ogni bicchiere, solo toccarli. Erano freddi e avevano forme diverse: uno aveva il gambo lungo, uno più corto, uno era fatto a coppa, un altro aveva il corpo più rotondo, un altro ancora aveva l’apertura stretta e il corpo allungato.
“Come ogni anima ha un suo corpo, così ogni vino ha il suo bicchiere”, sentii dire da papà... Poi mi disse di prendere ogni bicchiere, annusare il profumo di quei vini e bagnarmi appena le labbra per sentirne il gusto.
Il primo mi riempì le narici, era intenso, aveva un profumo di bosco, erbaceo e aveva un gusto acerbo.
Il secondo era gradevole, fruttato, al contatto con le labbra sentii subito le bollicine e il sapore secco.
Il terzo odorava di bouquet floreale e aveva un sapore asciutto.
Il quarto aveva un profumo avvolgente e un delicato sapore di frutta.
L’ultimo sapeva di frutta matura, era forte, il suo sapore era corposo e caldo.
Ero rapito da tutti quegli odori e sapori… Papà mi disse di aprire gli occhi e il mio sguardo fu rapito da quei colori: un rosso aranciato, un giallo paglia, un rosso rubino, un rosa brillante e un ambrato quasi tendente all’oro.
Rimasi incantato e mi sentivo invaso da mille sensazioni, strinsi il calice più grande, avevo tutti e cinque i sensi più vivi e attivi che mai... Ero in estasi...
Papà prese una nuova bottiglia, vidi che sull’etichetta c’era scritto “Pinot grigio” , mentre la rigirava tra le mani disse: “Con il risotto di zucca e formaggio di oggi questo ci sta a pennello!” Io lo guardai e gli chiesi: “Perché, per ogni cibo c’è un vino?”
“Certo!”, rispose lui, “Come per ogni uomo c’è una donna unica e speciale, ogni vino si accoppia e abbina con un cibo!”
Salimmo le scale avviandoci verso la cucina e ci mettemmo a preparare il risotto di zucca finché giunse l’ora di pranzo e una miriade di odori tornarono a circondarmi. Dietro al bancone di legno, con una bottiglia dello stesso Pinot grigio, oggi penso a quanti anni sono passati da quella domenica e con nostalgia guardo l’insegna della mia enoteca, dove inciso nel legno c’è scritto “I cinque sensi” ... Non potevo scegliere altro nome...

3 - “Prodigio di semplicità” di Emanuela Pozzan
In un attimo tutto sembra passato, il mio impeto è svanito nella speranza di assopire un bisogno. In me si cerca: il sapore, l’ebbrezza di un momento e la pace di un sorso di nettare dal gusto sublime. Presto, la curiosità sulla mia natura, darà pace alla brama di sapere com’è l’annata. Io sono la vite, io sono la vita e nel mio succo si racchiude l’attesa di dodici mesi. Nell’alba di una domenica autunnale mi ritrovo qui, anonima tra sconosciute ed attendo paziente che il sole sorga pigramente dal capanno affiancato al mio filare.
Mi sento soddisfatta ed orgogliosa anche quest’anno, ad ogni stagione che trascorre, assaporo sempre più il piacere di donare il mio prezioso succo; altro scopo non ho.
Sono stata scelta, la mia missione è questa: dare pace ad un desiderio dei sensi. Con il mio verdeggiare e l’armonia delle mie onde lignee sono un incanto per gli occhi ed i miei tralci sembrano corde di un violino naturale che suona melodie di passione; con le mie foglie rugose e fresche ricordo l’acqua di fonte che sgorga tra innumerevoli bollicine; con il profumo dei miei frutti inebrio le menti ed evoco con gli acini che maturo piano, la pace di un molesto sogno di conoscenza.
Ora è arrivato il tempo per il riposo e posso pensare; posso ricordare.
Amo la mia terra, leggermente inclinata a Sud e di cui sento tutto il calore che sale dalle mie radici, profonde idealmente sino al centro del globo.
L’inverno è stato lungo, solo per magia sono scampata all’acqua delle alluvioni che in fondo alla collina ha creato il ristagno, e per fortuna io ero protetta su nel mio colle. Ho sentito la grande umidità fin dentro le mie scheletriche ramificazioni e non ne potevo più di sentirmi inebriata di acqua, ho pensato sonnecchiando alle calde giornate estive che prosciugano fin dentro l’intimo. Tutto ha uno scopo.
Alla fine anche l’inverno è passato, lungo e freddo, mi ha ghiacciato la corteccia, avevo paura, e poi, è giunta la potatura, un misto di dolore e di piacere. Sento ancora il vibrare del mio corpo all’avvicinarsi del contadino che mi tocca, sento le sue mani calde in un pomeriggio di sole sofferente, sembra quasi sia primavera ed invece il suo tocco, dapprima dolce e rincuorante, si trasforma in una mano esperta che sradica i miei tralci inutili e taglia, mi lascia lo stretto necessario per crescere ancora e rinvigorire. Mi chiedo a volte se lui si renda conto del dolore che mi provoca, se vede che poi piango. In realtà mi medico dove lui mi lacera, ma gli uomini chiamano: “lacrime”, il mio sangue. Laddove loro sanguinano, io irrigo le mie ferite di linfa, considerata medicamentosa, tanto che qualcuno ancora gira per i vigneti per raccogliere queste gocce ritenute un balsamo per gli occhi. Tra i prodigi della natura c’è anche questo: assistere ad un’alba nel vigneto che piange lacrime necessarie.
Un altro anno è passato, sonnecchio nel pomeriggio tedioso di novembre e penso a quando, su qualche tavolo imbandito o nell’allegria delle osterie, qualcuno stapperà una bottiglia e penserà inconsciamente a me che sono qui pronta al riposo, ma in prima linea per ripetere il mio miracolo con l’avventarsi delle stagioni.
Il sonno giunge avvolgente come nebbia ed offusca i miei pensieri ed io deliro, tra finzione e realtà, nel sognare il momento in cui il mio nettare darà la gioia, magari adesso, magari tra anni, tra gli scaffali di una cantina, amerò come un’amante appassionata chi mi sceglierà, chi mi avrà.

Focus - Il cibo e il vino nei capolavori di Tim Burton
Si comincia con le zuppe che spesso servono a preparare lo stomaco al resto della vicenda come succede in Batman (1989) quando Vicky Vale e (Kim Basinger) e Bruce Wayne (Michael Keaton) sono a cena insieme e sono così lontani fisicamente e affettivamente, da far risuonare i cucchiai nei piatti di porcellana bianca. La zuppa è un preludio della loro prossima intimità che non tarderà ad arrivare, complice il calore della zuppa e un buon bicchiere di vino. Spesso la zuppa, in quanto miscela di ingredienti uniforme e omogenea si presta a essere la culla ideale dell’ambiguità dell’inganno e quindi dell’avvelenamento come succede nel film in stop-motion Tim Burton’s Nightmare before Christmas (1993): Sally vorrebbe liberarsi del suo carceriere, lo scienziato Finklestein, e prepara una zuppa con il veleno belladonna, alito di rana, per coprire il sapore e porri di verme.
http://www.youtube.com/watch?v=YzYnEHypNmE
Lo scienziato non si fida e la ragazza assaggia un cucchiaio di zuppa. Ma la sua posata è bucata... Si passa poi ai piatti di carne, vero argomento sostanzioso della vicenda.
In Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990) tutti i momenti in cui il ragazzo (Johnny Depp) con lame al posto delle mani viene accolto e accettato dalla famiglia e dalla piccola comunità ruotano intorno a piatti di carne. Forse perché a tavola è più facile digerire la diversità. È nel rito sociale del barbecue che il ragazzo entra nelle grazie delle desperate housewifes, le signore pettegole e invidiose che con casette tutte uguali ficcanasano una nella vita dell’altra. Le sue mani affilate diventano ottimi spiedini e la sua particolarità un vezzo da esibire.
Altri personaggi altre lame. Come quelle di Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd – The Demon Barber of Fleet Street, 2007) che sembra un Edward (sempre Johhny Depp) più adulto, più arrabbiato e molto più vendicativo. Nella sua furiosa sete di vendetta elabora un piano cannibale: uccidere le persone a cui fa la barba per ricavare materiale con cui farcire i pasticci di carne della sua complice Mrs Lovett (Elena Bonham Carter).
http://www.youtube.com/watch?v=L_hgrfZVlJA
La società divora se stessa in un rito macabro e grottesco al tempo stesso. Serve ora qualcosa di leggero e piacevole per dimenticare.
Più di una passione, più di una mania. Biscotti, torte, caramelle e fiumi di cioccolato sono una vera ossessione nell’immaginario del regista californiano.
Dal cuore di biscotto, dolce e fragile, con cui è fatto Edward alla torta nuziale fatta di panna e tibie de La sposa cadavere (The corpse bride, 2005), tutto è dolcezza esagerata fino a La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 2005), favola ciocco-capitalistica, misantropa e asociale sui vizi della nostra società ipertrofica di cibo, gare, oggetti e tv. Dolci incredibili e fantasiosi come i croccantini piliferi che fanno crescere i capelli o la gomma che contiene un pasto completo dalla zuppa alla torta di mirtilli.
Beviamoci su. Flûtes di champagne scorrono in Batman e Batman il ritorno, dove l’inebriante vino francese suggella la diabolica unione fra Catwoman e Pinguino. Martini e whiskey accompagnano le decisioni importanti o si prestano a caricature feroci e divertenti come in Mars Attacks! (1996) e simboleggiano la vivace combriccola dei morti, più allegri e arzilli dei vivi ne La sposa cadavere (The corpse bride, 2005), romantico e meaviglioso film in stop motion sull’amore e il coraggio di amare.
http://www.youtube.com/watch?v=nY-FVR1fXqU
Non può mancare uno sguardo sul cibo prodotto dalle macchine, alcune ingegnose e bizzarre come quella di Pee Wee’s Big Adventure (1985) http://www.youtube.com/watch?v=rYyD55elKJA che con un geniale sistema di leve e congegni stile cartone animato prepara la colazione: un ventilatore aziona una girandola che accende una candela che taglia un filo e lascia cadere l’incudine che attiva le eliche che fanno scorrere un uovo in un flessibile di plastica. Tutto questo solo per preparare i pancake. Ma la macchina è anche quella da cui è nato Edward mani di forbice che ha mani d’acciaio ma cuore di biscotto, per questo così sensibile e friabile.
http://www.youtube.com/watch?v=3NGjZLnrRWQ
La macchina della vita diventa poi metafora del cinema stesso, vera fabbrica dei sogni nell’epoca della riproducibilità tecnica.
Completano il nostro menù due consigli esclusivi dello chef. Il primo riguarda il cibo simbolico, che nella cultura americana è il junk food: cibo spazzatura dall’alto cntenuto calorico ma scarso valore nutrizionale. Ne è esempio l’irriverente, caustico e corrosivo Mars Attacks! che si burla dei marziani, senza spessore come le figurine a cui il film si ispira, ma anche del Presidente degli Stati Uniti (Jack Nicholson) e del suo team di scienziati, militari, portavoce e portaborse. Gli unici personaggi risparmiati dalla satira feroce sono gli adolescenti cinici e dark come la figlia del presidente (Natalie Portman) o goffi ed emarginati come Richi (Lukas Haas), il ragazzo che ha il negozio di ciambelle, il Donut’s world, e che salverà il mondo con una semplice intuizione. http://www.youtube.com/watch?v=Ld7SE2qumpA&feature=related
L’ultimo tocco dello chef è il cibo magico. La scena più esilarante è in Beetlejuice - Spiritello porcello (1988) in cui un geniale Michael Keaton è un bio-esorcista fissato col sesso in modo sguaiato e volgare. Una coppia di sposini Adam (Alec Baldwin) e Barbara (Gina Davis) muore in un incidente d’auto. Quando i due tornano da morti alla loro villa scoprono che è infestata da una famiglia di vivi, i Deetz, difficilissimi da scacciare. Ecco allora l’intervento sotto varie forme di Betelgeuse, delirante e grottesco. La scena della possessione è un capolavoro di humour apotropaico e carnevalesco. Un mix di risate e paura, emozioni assai vicine, che invita a non prendere troppo sul serio la vita, la morte e tutto ciò che sta in mezzo.
http://www.youtube.com/watch?v=i3j9jpBez8g&feature=related
Naturalmente la magia di Alice in Wonderland (2010) con le sue “Torte in su” che fanno crescere e pozioni che rimpiccioliscono completa la visione personale e del regista.
Magia del cinema, arte, incanto, poesia. I film di Tim Burton entrano in noi come nutrimento per la parte più sognatrice, fragile, oscura e meravigliosa della nostra psiche e della nostra anima.

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