I vitigni autoctoni continuano ad unire e a dividere il mondo del vino italiano. Il panorama ampelografico del vigneto Italia - dai 2000 ai 3000 vitigni conservati nei campi-collezione, 317 iscritti regolarmente nell’albo nazionale dei vitigni in produzione - rappresenta un indiscutibilmente patrimonio del nostro Paese che tutto il mondo ci invidia. Un patrimonio a cui lavorano con grande impegno produttori e ricercatori, ma che resta ancora un “workig in progress” e le cui complesse tematiche non possono essere liquidate semplicemente dagli estremi di due fronti contrapposti: autoctoni contro internazionali.
“La contrapposizione fra vitigni autoctoni e vitigni internazionali non costituisce un modo utile di affrontare la questione - spiega il professor Attilio Scienza, ordinario della cattedra di viticoltura dell’Università di Milano - piuttosto il problema è come interpretare la tradizione in funzione della valorizzazione dei vitigni autoctoni”.
Del medesimo parere anche Daniele Cernilli, condirettore del Gambero Rosso, che oggi al Salone del Vino di Torino, ha spiegato: “attenzione a non stabilire graduatorie fra buoni e cattivi. Credo sia molto difficile spiegare ad un viticoltore friulano che non deve più allevare il merlot, perché non è un vitigno autoctono. E poi di quali autoctoni stiamo parlando? Da una parte esistono vitigni “doppioni” come il greco di bianco che è uguale alla malvasia di Lipari, dall’altra si definiscono autoctoni vitigni come il cannonau, che autoctono non sarebbe, trattandosi di grenache”.
La ricerca e la sperimentazione sui vitigni autoctoni, anche per chiarire queste confusioni, oltre a rappresentare un impegno economico ingente ha bisogno di un coordinamento e di una sorta di “regia - continua Cernilli - che deve impegnare più da vicino le istituzioni in un piano di coordinamento per definire e strutturare un quadro esaustivo sullo stato dell’arte dei vitigni autoctoni”. Probabilmente non tutti i vitigni autoctoni saranno destinati al successo internazionale come è accaduto per il sangiovese, il nebbiolo o per il sagrantino “che grazie all’impegno economico dell’azienda umbra Caprai, ha saputo conquistarsi un posto nel competitivo mercato internazionale - spiega Scienza - Tuttavia i vini ottenuti da vitigni autoctoni rappresentano il miglior modo di valorizzare un territorio, a patto che non siano comunicati come “marchio” ma, appunto, come espressione di un preciso territorio, “naturalmente”, diciamo, tracciabile”.
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