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SALONE DEL VINO - PROCESSO AL GUSTO INTERNAZIONALE E IL VINO ITALIANO RISCOPRE LA TRADIZIONE E’ ALLARME PER OGM E CHIMICA IN CANTINA

Italia
Il vino italiano riscopre la tradizione

Un “no” deciso agli organismi geneticamente modificati, un passo indietro dalla chimica in cantina che porta a un’omologazione del gusto e alla perdita d’identità territoriale, due passi avanti verso la difesa e la valorizzazione della tradizione e delle peculiarità del vigneto Italia. Questo in estrema sintesi il percorso futuro del nostro vino. Lo hanno tracciato oggi al Salone del Vino (un’edizione record con 1.175 cantine presenti, un incremento del 40% della superficie espositiva e del 39% dei visitatori che sono esclusivamente operatori professionali), alcuni dei più importanti produttori italiani - le cosiddette griffe - e il ristoratore italiano più noto d’America, Piero Selvaggio che nel suo "Valentino" di Los Angeles custodisce la più completa e migliore cantina del mondo. Ad interrogarli il giornalista-gastronauta Davide Paolini per fare un processo “al gusto internazionale del vino”.

Secondo Piero Selvaggio il gusto internazionale non è definibile in sé. Esiste un gusto americano fatto di chardonnay e cabernet sauvignon, al quale l’Italia oggi contrappone anche la sua diversità. E Selvaggio dichiara che negli ultimi quattro-cinque anni i grandi sangiovese, nebbiolo, i grandi autoctoni meridionali hanno fatto breccia nel consumatore americano. E così come la cucina italiana (nel suo complesso perché il pubblico internazionale opera delle semplificazioni) anche il vino italiano ha – attraverso le loro peculiarità – conquistato una sorta di leadership. “Tutto – ha ricordato Selvaggio – partì con il famoso viaggio in America di Luigi Veronelli, Maurizio Zanella e Giacomo Bologna che scoprirono la barrique e la tecnologia americana. Applicata al vino italiano dopo vent’anni ha dato gli straordinari risultati che noi oggi possiamo degustare”. E Maurizio Zanella (Ca’ del Bosco) ha ripercorso quel viaggio confidando che “Quando andammo a vedere la mitica California, il nuovo mondo del vino, scoprimmo che loro usavano la barrique. Il fatto è che venivamo da 50 anni di buio: il vino doveva costare poco per essere venduto. Provammo a farlo meglio, magari utilizzando la nostra tradizione, e i risultati sono quelli di oggi. Tuttavia io – ha concluso Zanella – non sono affatto persuaso che esista un gusto internazionale. Esiste il gusto che è stato imposto da alcuni media americani al quale noi ci siamo accodati. Ma è anche vero che seguendo pedissequamente quella strada rischiamo di perdere la nostra identità. Dobbiamo tornare a valorizzare il territorio. Il timbro dell’autoctonia sta in questo: nella valorizzazione della specificità dei nostri terroir”. Identità che risiede – secondo Marco Caprai, “autore” del fenomeno Sagrantino – nella varietà, variabilità e specificità vitivinicola dei nostri autoctoni. “Americani, australiani e anche francesi lavorano al massimo 4-5 vitigni, noi abbiamo a disposizione 800 diversi tipi di vitigno. E’ su quelli che dobbiamo lavorare tornando a coltivare bene e a vinificare meglio per affermare il nostro stile, la peculiarità italiana. Si cita sempre la barrique come elemento di novità, come strumento che ha sostanziato la tecnologia californiana. A questo proposito voglio far notare che fin dal ‘500 noi usavamo la cosiddetta botte da trasporto: non era nient’altro che la barrique ”. Chi della specificità e della tradizione ha fatto un manifesto è Bartolo Mascarello, grande produttore di Barolo. E sua figlia Maria Teresa Mascarello ha difeso con orgoglio questa esperienza. “Io – ha detto – non vado in America, non vado in Australia, io sono sempre stata a Barolo e come mio padre e mio nonno coltivo la vigna al meglio e faccio il mio vino, il nostro vino, il Barolo, rispettando la tradizione, guardando a quel po’ di innovazione tecnica che ci permette di farlo meglio. E vedo che il gusto internazionale sta passando di moda. Noi siamo ancora lì col nostro Barolo e la gente che ama il vino ce lo chiede. Penso che la strada per l’Italia sia questa. Mi è capitato di assaggiare tre vini: uno californiano, uno veneto, uno australiano e di non poter dire che cosa fossero e da dove venissero. Io penso che un grande vino come dice il grande enologo francese Paul Pontallier (Chateaux Margauax) debba avere passion, histoire , terroir (passione, storia e territorio). E quello dovrebbe essere il gusto internazionale”. Franco Giacosa, enologo delle tenute della famiglia Zonin, ha concordato “penso anch’io che il vino italiano non debba seguire, almeno nelle sue espressioni di vertice più autentiche, le mode o le correnti di pensiero imposte dalla cultura dominante. Si rischia di perdere il legame con il territorio: l’Italia deve puntare sulla tradizione nell’innovazione, migliorando i vitigni autoctoni”. Assai più “preoccupato” l’intervento di Vincenzo Ercolino (Feudi di San Gregorio) che parla di un rischio “estinzione” del mondo rurale e dice: “Io cerco di fare il vino nel migliore di modi per dare una prospettiva all’agricoltura delle mie zone e del mio paese. Non so se sia gusto italiano o internazionale so che è il vino che mi hanno insegnato a fare. E attraverso questo cerco di contrastare chi ha il controllo del mercato e dei prezzi”. Ma a questo punto è venuto l’affondo di Sebastiano Castiglioni (Querciabella) che ha detto: “Smettiamola con questo dibattito sugli autoctoni o non autoctoni. E’ vecchio di almeno tre secoli e c’è chi autorevolmente sostiene che i vitigni cosiddetti francesi sono stati portati in Gallia dai Romani. Dunque si potrebbe anche dire che merlot, cabernet, chardonnay, che vengono piantati in Italia sono non un’importazione, ma una restituzione. Il vero pericolo del gusto internazionale è l’offensiva australiana fatta di tannini artificiali, di chips di rovere, di concentrato e osmosi inversa. E’ l’eccesso di chimica in cantina e il rischio di diffusione degli Ogm quello che rischia di uccidere il vino italiano. Noi dobbiamo difendere le specificità delle grandi denominazioni, la territorialità dei nostri vini e lo stile italiano. Ma dobbiamo anche difendere la salubrità del nostro vino”. Le considerazioni di Castiglioni hanno dunque spostato il dibattito sul “pericolo dell’internazionalizzazione” piuttosto che sulla sfida al gusto internazionale. No decisi alla chimica in cantina e agli Ogm sono venuti da Maurizio Zanella (“Io non mi piego a queste logiche e neppure a chi vuole dirmi come devo fare il vino”, il riferimento era ad alcuni critici internazionali), da Marco Caprai (“Il vino va difeso nella sua naturalità, nella sua territorialità, nella sua autenticità. Sono questi i fattori che fanno la qualità. Quanto agli Ogm e alla chimica sarebbero un danno irreversibile per la vitienologia italiana”) da Maria Teresa Mascarello (“Venite a Barolo a vedere come si fa il vero vino italiano. Noi continueremo sempre a farlo così”). Più possibilista sulla sperimentazione degli Ogm Franco Giacosa (“Dico no all’introduzione finché non ci sono garanzie, ma sì alla sperimentazione soprattutto se serve ad abbattere il ricorso alla chimica in campo”) che però boccia “ogni pratica di cantina che non sia rispettosa della tradizione”, mentre Vincenzo Ercolino su tecnica e Ogm dice: “Perché no pregiudizialmente se aiutano a fare un vino migliore?”. A questo punto sono venute proposte concrete: chiedere alle guide di indicare se una azienda agricola è o meno “ogm free”, se ha o non ha il concentratore, aggiungendo possibilmente schede puntuali sugli ettari di vigneto e le rese. A chiudere questo percorso che ha sancito un forte richiamo “all’identità vitivinicola italiana”, il commento di Piero Selvaggio: “Credo che i media abbiano comunque fatto bene al vino italiano. Trenta anni fa, quando io ho cominciato, non si parlava di vino italiano; oggi ha considerazione pari se non addirittura superiore a quella dei francesi e dei californiani. Non è vero che è in crisi nel consumo internazionale alto il vino italiano, è ancora molto richiesto ed apprezzato”. Più che una speranza una certezza.

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