Secondo l’ampelografo francese Pierre Galet, nel mondo si contano 9.600 varietà diverse di vite, e di queste in Francia solo 210 sono ufficialmente autorizzate, anche se l’80% della produzione enoica complessiva del Paese dipende da appena 10 varietà. Nulla di nuovo, specie perché è proprio la Francia, enologicamente parlando, ad aver colonizzato il mondo, imponendo stili e vitigni: Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Chardonnay, Sauvignon, infatti, sono alla base della viticoltura di qualsiasi Paese del Nuovo Mondo, dagli Stati Uniti all’Australia. Eppure, questa standardizzazione pare aver stancato proprio i francesi, sempre più interessati, come racconta l’editoriale del numero di aprile de “La Revue du vin de France”, il magazine enoico più letto nel Paese, alla riscoperta dei vitigni dimenticati, da decenni, se non secoli, ai margini della produzione, ma dalla storia che affonda le radici nei secoli passati, e dalla capacità di rispondere al riscaldamento globale spesso superiore a quella dei vitigni più popolari. Tornano così in auge, anche grazie alla vulgata di tanti piccoli vigneron artigiani e naturali, varietà come l’Aduï, vitigno autoctono della Savoia del vino fino al XIX secolo, o il Lauzet, uva a bacca bianca tipica del Jura. Vista da qui, dall’Italia, dove le varietà autoctone non sono mai sparite, e sono oggi la spina dorsale della produzione e del successo del vino tricolore nel mondo, è una presa d’atto che sa di rivalsa, perché se è vero che la maggior parte dei consumi nel mondo è ancora legata a prodotti di basso prezzo e vini monovarietali, il futuro è di chi saprà distinguersi, salvaguardando la varietà e la storia del proprio patrimonio ampelografico.
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