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Sette / Corriere Della Sera

I vignaiuoli toscani sui fronti del nuovo mondo dove si combattono le guerre dei grandi vini … Antinori e Frescobaldi, i protagonisti del Rinascimento del Chianti, devono fronteggiare l’offensiva dei produttori cileni, australiani, neozelandesi e americani. Un attacco in grande stile a cui rispondono con l’arma segreta dell’accoppiata cucina e cantina… Insieme, possono schierare una trentina di milioni di bottiglie. Generali pluridecorati come Tignanello e Mormoreto, Ornellaia e Solaia, oppure truppe scelte come Santa Cristina e Remole. Ma si trovano davanti eserciti giovani e aggressivi che hanno a disposizione anche qualche arma segreta. Ovvero i vignaiuoli del nuovo mondo: non tanto agricoltori di antiche tradizioni, nella maggior parte dei casi, quanto abili manager di multinazionali. Con basi, ossia aziende agricole, in Cile, negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda, soprattutto in Australia. Le blasonate famiglie dei vignaiuoli toscani devono fare i conti con loro, con le potenze enologiche emergenti sui mercati di tutto il pianeta. “È innegabile che ci sia stato un grande cambiamento. Fino a quindici anni fa l’Europa era di gran lunga il maggior produttore di vino nel mondo, più o meno col 70%. Ora, la quota del vecchio continente è inferiore al resto del pianeta. E si tratta di aziende più strutturate, più grandi: hanno egemonizzato i mercati globali internazionali e imposto un gusto più fruttato, più gradevole fin dal primo impatto”, spiega Piero Antinori, che dirige l’omonima casa vinicola con le figlie Albiera, Allegra e Alessia. “Non si combatte benissimo con i produttori del nuovo mondo. Possono proporre prezzi più bassi, non hanno limitazioni di superfici vitate come in Europa e poi fanno sistema, cosa che a noi manca un po’. Però noi abbiamo l’atout della cucina italiana: è l’accoppiata cantina-cibo che ci aiuta”, osserva Lamberto Frescobaldi, vicepresidente dell’azienda di famiglia e responsabile per la produzione. E la cugina Tiziana, responsabile della comunicazione, aggiunge: “L’aggressività dei produttori extraeuropei, sul mercato, si vede nella proposta di vini più facili a incontrare il gusto del consumatore medio. Comunque, non si tratta sempre di vini banali. Non demonizziamoli. Anche perché aprono la strada alla conoscenza del vino. Da 11, il consumatore può crescere”. Renzo Cotarella è amministratore delegato di Antinori ma - ci tiene a sottolinearlo - anche agronomo ed enologo: “Il confronto col nuovo mondo ci ha consentito di apprezzare l’area fruttata del vino, rappresentata, a lungo, solo dall’Australia, con prodotti più freschi e più dolci”. E non nega qualche influenza: “Nel senso di fermentazioni più orientate alla esaltazione del frutto, meno condizionate dal tannino e meno destinate all’invecchiamento”. Antinori e Frescobaldi. Grandi marchi del vino italiano oggi in trincea. Sotto attacco ma, comunque, in grado di difendersi bene. La scorsa settimana è arrivato uno degli appuntamenti più attesi nel mondo del vino: la pubblicazione della classifica dei top 100 curata dalla bibbia del settore, Wine Spectator. Ebbene, i Frescobaldi hanno piazzato due etichette, unici in Italia: Attems pinot grigio (51°) e Nipozzano Riserva (65°). E l’anno scorso Decanter, altra influente rivista del settore, aveva piazzato Piero Antinori ventiduesimo fra i personaggi più influenti nel mondo del vino. Storie parallele per i due casati ma anche grandi differenze. Famiglie fiorentine da più di venti generazioni: dei Frescobaldi si parla nel 1252, quando viene costruito il quarto ponte sull’Arno, gli Antinori hanno nell’albero genealogico tre gonfalonieri e 23 priori per la signoria fiorentina. L’azienda più antica degli Antinori è Santa Cristina e l’origine dell’attività vinicola in famiglia si fa risalire al 1385 grazie a un documento che attesta l’iscrizione di un Antinori all’arte minore dei vinattieri: “26 generazioni” recita orgoglioso il logo impresso su ogni etichetta delle loro bottiglie. La tenuta più antica dei Frescobaldi è Castiglioni, posseduta da mille anni, mentre Pomino e Nipozzano, che rappresentano una buona parte della produzione, sono arrivate in famiglia nel 1863, grazie al matrimonio con una degli Albizi: “E lì un antenato, Angelo Frescobaldi, piantò i primi vitigni di cabernet”, ricorda Leonardo, il presidente. Da vignaiuoli moderni, i Frescobaldi non hanno spostato la loro attività dalla Toscana (tranne un’eccezione nella zona del Collio) e non contano nemmeno un’azienda nella zona del Gallo Nero, il consorzio del Chianti classico, mentre gli Antinori hanno qui alcune delle tenute più importanti (Tignanello, Pèppoli, Badia a Passignano) ma si sono anche spinti fuori dai confini italiani e in altri continenti.
Nessuno, peraltro, si è barricato dietro i baluardi storici - e talvolta usurati - delle denominazioni consolidate. Piero Antinori fu uno dei protagonisti della rivoluzione enologica toscana negli anni Settanta: “Io lo chiamo rinascimento. Fino ad allora il nostro vino era quello in fiasco, il Chianti si conosceva così. Nel 1966, mio padre si era ritirato e mi trovai con le mani libere e, accanto, un grande esperto come Giacomo Tachis. In più ebbi dei preziosi consigli da Emile Peynaud, un enologo di Bordeaux. Con loro nacque il Tignanello e facemmo arrabbiare parecchie persone. Era prodotto nella zona del Chianti Classico ma noi rifiutammo quel disciplinare e quindi la DOC:
pareva un’eresia e oltretutto lo vendevamo più caro. C’era molta perplessità. Mi confortò Luigi Veronelli: quando l’assaggiò disse che era un vino eccezionale”. Con lo “straniero”, peraltro, ci sono state anche alleanze. I Frescobaldi, nel ‘95, si “sposano” con una grande famiglia vinicola americana, i Mondavi: ascendenze italiane e grandi tenute nella californiana Napa Valley. Con loro fanno Luce, un vino “ultra premium” molto innovativo per l’uso di merlot e sangiovese nella zona di Montalcino. Sembra il prologo di una conquista definitiva degli americani. Invece le cose vanno al contrario. Nel 2004 arriva in Usa la crisi del vino. Mondavi va in difficoltà e viene comprata dai sudafricani di Constellation Brand, un colosso della distribuzione con cui la famiglia toscana si trova a disagio: “Tutto potevamo pensare fuorché rilevare noi la parte di Mondavi. Invece è andata così, anche se con uno di loro, Michael, abbiamo mantenuto un rapporto per la distribuzione)”, spiega Tiziana ricostruendo l’acquisto di Luce e anche di Ornellaia, una tenuta maremmana che era stata creata da Lodovico Antinori, il fratello di Piero che si era separato dalla casa madre (salvo ritrovarla, di recente, con un’impresa comune, il Bisenno, dalle parti di Bibbona). E anche questo marchio, dal 1982 al 1991, aveva avuto come soci gli inglesi della Whitbread. Sorprendendo molti osservatori, alla fine Piero si decise per un “buy back”: una scommessa da una quarantina di milioni di dollari, giocata mettendo sul piatto anche secolari proprietà di famiglia e vincendo, poi, perché a cavallo del Duemila il fatturato dell’azienda venne stimato attorno agli 80 milioni di euro. Nelle leggende locali si racconta che una parte grossa in questo inaspettato ribaltone la ebbe un vino che non si può definire un gran cru, il Galestro, un bianco di facile beva: il suo successo avrebbe fornito fondi consistenti per l’operazione. Ora capita che a volte il nemico se lo allevino in casa. “Da noi vengono stagisti da tutto il mondo e, ogni tanto, mi girano le scatole”, racconta Lamberto Frescobaldi. Succede quando li ritrova a condurre un’azienda in Cile o in Australia e vede che hanno sviluppato e perfezionato qualche attrezzatura o qualche sistema di vinificazione conosciuto e padroneggiato sulle nostre colline. È anche vero, però, che qualche debito lo hanno anche i toscani verso il nuovo mondo. Continua Lamberto: “La joint venture con Mondavi aumentò la nostra capacità di essere critici. Mi ricordo la presentazione di Luce, nel 1997. Ci fu una grande accoglienza. Appena rividi Tim Mondavi mi disse: “Sono contento. Però, se lo volessi migliore, cosa faresti?”“. L’alleanza ebbe effetti positivi anche in altri campi: forniture più consistenti delle barrique in cui invecchiano i grandi vini che, fino ad allora, i francesi lesinavano. O anche garanzie nell’approvvigionamento di eccellenti tappi di sughero. Sì, proprio quei tappi che, a mezza bocca, gli stranieri che operano in Chianti - dopo aver assorbito le lezioni dei locali - ora mettono in discussione, inclinando verso il silicone o l’avvitamento. La vite campa una ventina d’anni. Poi è logorata, stanca, i grappoli che nascono sui suoi tralci non sono più buoni come prima. Allora arriva la stagione del reimpianto. I filari vengono estirpati e se ne mettono di nuovi. Passeranno anche cinque o sei anni prima che servano per fare un buon vino. L’ultima grande stagione di reimpianto, in Toscana, venne a cavallo del 1990. E trasformò il paesaggio. “Il ricambio precedente era venuto intorno al 1970 e aveva coinvolto un gran numero di poderi”, spiega Lamberto Frescobaldi: “C’erano le sovvenzioni dei piani Feoga cui tutti volevano attingere. I trattori erano grandi e c’era bisogno di spazio fra i filari. In media si piazzavano duemila viti a ettaro. Intorno al 1990 cambiò tutto: vigneti più compatti, doni meno produttivi in modo da avere meno uva per ceppo ma più buona. Si arrivò a 9.000 viti per ettaro. In fondo come si faceva negli anni Trenta”. Una bella differenza, nel panorama delle colline toscane. Ora, in realtà, la longevità della vite è aumentata: “Abbiamo imparato a proteggerla e curarla meglio. Spero che la prossima stagione dei reimpianti non arrivi prima del 2020”. Qui, come Antinori, Leonardo Frescobaldi rimarca il legame mai interrotto con la terra: “Certo, con la mia generazione ci siamo trasformati da agricoltori in azienda. Ma in ogni tenuta c’è un agronomo, quello che un tempo era il fattore, che dice la sua sul tale terreno dove piantare il tale vitigno”.
Scelte diverse, invece, per quanto riguarda le cantine. Frescobaldi ha chiamato Piero Sartogo per quella di Magliano di Toscana. Antinori non sembra troppo attratto dagli archistar: “Secondo me le cantine devono soprattutto essere funzionali. Poi, certo, la grande firma diventa un’attrazione, dà valore al vino e incentiva un aspetto da non trascurare, quello del turismo enologico”. E chiude con un messaggio di fiducia: “La crisi ha modificato i valori a favore dell’estero. Qui ha colpito molto la ristorazione. L’ultimo biennio è stato difficile con flessioni del 6-7% l’anno ma ora stiamo recuperando. Gli Usa, dopo una stasi, sono tornati in crescita e si affermano nuovi mercati: la Russia, che fino a sei anni fa non figurava nemmeno nelle classifiche, ora è al quinto posto nel nostro export”.

La produzione, l’export e i pezzi pregiati

Antinori

20 mln di bottiglie: è la produzione complessiva di Antinori, di cui 8 milioni a Santa Cristina e 4 milioni per le qualità più pregiate.

70% del prodotto è destinato all’estero. Con nuovi Paesi che si affermano. La russia, che fino a cinque anni fa non figurava, ora è al quinto posto.

300.000: la produzione media annua di bottiglie di Tignanello, il vino che ha segnato il rinascimento dell’enologia in Toscana.

Marchesi de’ Frescobaldi

10 mln: le bottiglie che compongono la produzione complessiva dei Frescobaldi, comprendendo Ornellaia, Luce e Attems.

1.000 euro può valere una bottiglia di Mormoreto 1983. La più antica conservata nelle cantine della casa è un Nipozzano del 1864.

80%: la percentuale dell’export per i vini di gamma alta. Sul complesso della produzione il rapporto è 65% all’estero e 35% in Italia

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