Sempre più spesso, di questi tempi, si sente parlare di un ritorno dei giovani all’agricoltura, dei campi che creano occupazione, e così via. E a guardare i freddi numeri, chi sostiene l’argomento sembra avere ragione: secondo i dati di Coldiretti, pare che l’occupazione giovanile, in Italia, cresca solo in agricoltura, con il +9% di assunzioni di under 35 nei primi mesi del 2013. E se spesso si raccontano le storie di giovani laureati tornati in campagna, c’è anche chi ha osato di più, come il Ministro per le Politiche Agricole Nunzia De Girolamo, che ha più volte ribadito come “lavorare in agricoltura deve tornare ad essere “fico”.
“Ma il nostro Ministro è di Benevento, vicino a Sant’Agata dei Goti, che è il mio paese, ed è un Paese rurale, e tutto fa tranne l’agricoltore, fa il Ministro, quindi è un esempio non di ritorno alla campagna, ma di fuga dalla campagna, e infatti io credo che si parli di ritorno alla campagna molto più di quanto sia opportuno”.
Risponde così, sul tema, Domenico De Masi, sociologo del lavoro tra i più affermati, intervistato da WineNews. E aggiunge: “lavorare in campagna significava ammazzarsi di fatica e morire a cinquant’anni, questa era la durata media del mondo rurale che avevamo. Oggi quando si parla di ritorno in campagna si intende dire che ci si ritorna come esperti di enologia e di agronomia, e di tutte le scienze che incidono sulla coltivazione che vanno dalla chimica alla fisica eccetera, e quindi è un ritorno alla campagna sotto forma addirittura lavoro “intellettuale”, non è lavoro manuale. E questa è una cosa bella, riuscire a fare i contadini senza la fatica del contadino, con l’acume del contadino e l’aggiunta, naturalmente, della cultura specializzata. Ma in realtà si tratta di piccoli numeri, perché l’agricoltura oggi si avvale, per fortuna, di tecnologie tali che eliminano quasi del tutto la fatica brutta. Fatica brutta che poi, quando c’è, - dice con tono provocatorio - facciamo fare agli immigrati e risolviamo il problema”.
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