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Sicurezza e informazione corretta vs “bufale”, spesso allarmistiche e dannose, e un linguaggio della narrazione alimentare e gastronomica che cambia e si rinnova più o meno consapevolmente: gli spunti del “Festival del Giornalismo Alimentare”

Tra una voglia di informazione e di sicurezza da parte del consumatore da soddisfare alle “bufale”, spesso allarmistiche quanto dannose da evitare e smascherare, passando per un linguaggio della narrazione alimentare e gastronomica che cambia e si rinnova a volte consapevolmente, a volte meno. Sono tanti gli spunti su cui riflettere che arrivano dal “Festival del Giornalismo Alimentare”, che si è chiuso ieri a Torino, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero delle Politiche Agricole.

“La sicurezza è una delle richieste più pressanti dei consumatori - ha detto Franca Braga, responsabile alimentazione e salute di “Altroconsumo” - ed è un diritto. In Italia va detto che abbiamo cibo sicuro, gli standard sono alti, tutto è migliorabile ma siamo sicuri. Il problema è che da noi quello che può essere una crisi alimentare da gestire diventa uno scandalo alimentare da gridare, tant’è che l’indagine Eurobarometro 2010 ci dice che gli italiani sono i consumatori più preoccupati per il cibo in Europa. In particolare dei pesticidi, nonostante non siano un grande problema, ad oggi, in Italia. E questo significa che c’è anche una percezione distorta della realtà. E, in caso di crisi, ci si fida soprattutto dei medici di base, poco dei media. Che sono criticati perché spettacolarizzano troppo le cose, fanno confusione con troppe o poche informazioni, e non sono tempestivi soprattutto nella comunicazione della fine delle crisi. Il problema è che aumentata la distanza tra consumatore ed alimenti, con la globalizzazione, e quindi c’è più richiesta di informazione e di sicurezza sul cibo. Serve però che anche le autorità diano informazioni chiare ed esaustive, senza reticenza, dialoghino con i valutatori di rischio. Ma, come dicono anche le linee guida dell’Efsa, è importante anche formare sempre di più dei buoni comunicatori, capaci di valutare tra rischio reale, quello valutato dalla scienza, e rischio percepito, che è quello del pubblico, dei consumatori, che si chiedono cosa fare in certe situazioni”.

Situazioni che spesso sono scatenate da notizie false, da “bufale” che però, nel rimbalzo tra siti e social orientano i comportamenti delle persone. Un fenomeno pericoloso e in qualche modo non arginabile, spiegano Claudio Michelizza e David Puente del portale www.bufale.net: “è facile fare sensazionalismo, magari rovinare anche un azienda, partendo da notizie che rimbalzano in rete senza nessuna verifica e da fonti tutt’altro che affidabili. Cosa che molti fanno perché comunque generano traffico, e quindi soldi. I casi sono innumerevoli: dalla notizia di un corpo di un signore invaso dai vermi dopo aver mangiato sushi, passata alla storia come “I love sushi”, partita da un sito straniero, che invece parlava di tale infezione ma a partire da carne suina. Oppure c’è quella dell’export di cani randagi da esportare in Cina ad uso alimentare, ovviamente falsa, o quella di un tale di Firenze che avrebbe macellato cani randagi nel garage per servirli nel suo ristorante cinese, diffusa su diverse testate on line in poche ore, con un livello di condivisione pazzesco. O ancora c’è il caso della “frutta terrorista”, come la frutta infettata da Aids e Hiv dalla Libia e dal Messico. Ovviamente impossibile perché il virus non resisterebbe esposto all’aria. Eppure le bufale funzionano, eccome. Perché è semplice: su Facebook ci sono milioni di persone, e qualcuno ci casca sempre. Il problema è che poi queste notizie arrivano anche nelle redazioni dei giornali, ed è qui che bisogna saper resistere alla tentazione di ripubblicarle per fare sensazione o per arrivare per primi. Perchè è vero che portano traffico e visibilità nell’immediato, ma analizzare le notizie e verificarle porta di più nel lungo periodo, perché ne guadagna la credibilità della testata. Eppure, quella delle “bufale” in rete è una strategia che non si può fermare, genera traffico, è virale. L’unico antidoto è informarsi bene, verificare le notizie, anche se questo richiede un investimento di tempo”.

Ma i motivi per cui si crede a queste notizie, ed in genere agli allarmi sull’alimentazione, veri o falsi che siano, sono molteplici, come ha spiegato il professor Peppino Ortoleva, docente di Scienze della comunicazione all’Università di Torino. “Uno dei motivi è atavico, antropologico. Mangiare è prendere qualcosa del mondo e metterlo dentro di noi, e quindi qualsiasi riferimento ad un possibile avvelenamento ci attira, ci colpisce. Poi c’è un motivo più moderno, che è il tema del “complotto”, una parola chiave per i nostri tempi: è la pubblicità positiva che ci fa domandare “che cosa ci sarà sotto” al messaggio che ci arriva, dove è la fregatura. E poi un terzo elemento: nessuna cultura mangia tutto quello che è tecnicamente mangiabile, per motivi religiosi, culturali e così via. Ma in una civiltà multietnica iniziano a cadere dei tabu, basta pensare alla diffusione, anche in un Paese dove il cibo è fortemente identitario come l’Italia, delle cucine orientali, e una delle “difese” da questo fenomeno è quella di costruire storie e leggende che si basano sulla paura della violazione dello status quo alimentare”.

Ma a cambiare è anche il linguaggio della cucina, tra neologismi come “apericena”, ed inglesismi, usati più o meno consapevolmente. Al punto che “come si parla di linguistica - ha detto il linguista Ugo Cardinale - si può quasi parlare di “cucinistica”, perchè sia in cucina che nel lessico c’è una continua trasformazione, un arricchimento del vocabolario, o parole che assumono altri significati. I tanto criticati inglesismi? Se sono usati con consapevolezza vanno benissimo: spesso sono più efficaci della lingua italiana, soprattutto se certi concetti vanno spiegati anche all’estero. Lo “Slow Food” contrapposto al “fast food””.

Ma una delle criticità, nella comunicazione del settore, è che “molto del giornalismo enogastronomico scrive più per compiacersi, per far vedere che chi scrive è bravo - sottolinea Sara Porro di www.dissapore.com piuttosto che portare il lettore in un viaggio attraverso il tema di cui si parla. Va bene il tecnicismo quando serve, ma non per fare “esoterismo” settario. Quando scrivo non sono servitore della parola, è la parola serve me, che servo il lettore. La parola giusta è quella che trasmette con esattezza quello che voglio dire al mio lettore”.

Chi poi scrive di cibo, talvolta, ha davanti una sfida quasi impossibile. “Hai un bel raccontare - ha osservato Cinzia Scaffidi di Slow Food - i profumi ed i sapori di un Gorgonzola o di un Barolo. Ma se chi ti legge non li ha mai assaggiati, non potrete mai intendervi”. E in mezzo ci sono le parole. “Alcune sono vittime di vere e proprie crociate”. Un esempio? “Per un certo periodo andava di moda l’aggettivo “accattivante” accostato a gusti e sapori”. A un certo punto qualcuno ha deciso che era fuori luogo ed è stato bandito. Ciò che però conta davvero è ricostruire la storia delle parole, anche in rapporto al contesto in cui sono usate. Ai suoi albori, per esempio, Slow Food si chiamava Arcigola. In ambito italiano aveva un significato ben chiaro a tutti, ma quando il movimento è diventato internazionale ci voleva un’alternativa. E “Slow Food”, che fu coniato proprio mentre a Roma apriva il primo fast food americano, funzionò e funziona benissimo, perché è identificato non solo con un modo di consumo del cibo, ma anche un tipo di produzione e un approccio al tema dell’enogastronomia”.

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