Se c’è una parola che definisce la famiglia Quintarelli è “riservatezza”. Ma anche vini di così alta qualità e raffinatezza, adatti al lunghissimo invecchiamento, da essere tra i più desiderati dai collezionisti di tutto il mondo. La stessa azienda Giuseppe Quintarelli si raggiunge percorrendo una strada stretta, che sale sinuosa sul fianco orientale della valle di Negrar, alle porte di Verona: mancare il cancello giusto è un attimo. Riservate sono le parole: tutte misurate a raccontare, a tu per tu con WineNews in uno dei rarissimi incontri con i media, la storia di una famiglia che ha segnato la Valpolicella, con le sue marogne e le sue splendide ville, e i suoi vini, in modo unico e irripetibile, tanto da diventare una leggenda, riferimento costante per i produttori stessi e per il loro territorio, e, allo stesso tempo, per il mondo intero, quando si parla di Amarone, oggi tra i vini più celebrati d’Italia. E che, pur mantenendo ben salde le sue idee, “inevitabilmente, guarda al futuro, tra produzione e distribuzione, perché quando si va sul mercato tutto è cambiato rispetto all’epoca dei nostri grandi vecchi”.
Nel rumoroso mondo del vino italiano, il silenzio può valere più di mille parole, lingua della vera esperienza di una “cantina-no marketing”, del tutto eccezionale nel rifuggere i troppi eventi e degustazioni, “salvo rarissimi casi, che si contano sulle dita di una mano”, ma non per questo sconosciuta. Al contrario. Riservati sono i silenzi di Fiorenza Quintarelli, figlia e custode dell’eredità di famiglia e della tradizione produttiva trasmessa dal padre Giuseppe - tra i padri dell’Amarone, dalla cultura antica ma con la visione del nuovo ben chiara, una vita nella cantina fondata dal padre nei primi del Novecento, dando impulso alla produzione, seppur di nicchia, sempre accanto alla moglie Franca, in una lunga storia d’amore e di vino - quando fa notare come “oggi cambiare è facile, ma portare avanti la tradizione vuol dire anche mantenere questa impronta lasciata da mio padre. Ma, come ci ha insegnato, le nostre porte sono sempre aperte, a chi, addetti ai lavori, ma anche appassionati e collezionisti, tantissimi stranieri, dagli Usa al Nord Europa, all’Asia, viene da noi per capire di persona questa nostra particolarità”, che non impedisce ai loro vini di essere tanto famosi. “Li assaggiamo insieme. E spesso tornano a trovarci ogni anno. All’inizio lo facevamo in maniera informale come mio padre, oggi secondo le regole, anche perché questo ci impedirebbe di lavorare come vogliamo”.
E riservate sono le loro domande e le risposte quando chiediamo a Francesco, nipote di Giuseppe, ultima generazione oggi in cantina, insieme al fratello Lorenzo, che quell’eredità raccoglie e rispetta, aprendola però all’innovazione, in un confronto sulle scelte fin qui fatte, anche commerciali: “perché l’intento è quello di mantenere saldo il rapporto diretto con l’acquirente privato, ma i rischi di contraffazione sono alti, soprattutto per bottiglie che valgono molto allo scaffale, l’Amarone e la Riserva (che spuntano cifre, anche nelle ultime annate, tra i 300/400 euro), ma anche l’Alzero e il Recioto”, esportate in tutto il mondo (con una quota del 50%, ndr), tra le poche aziende al vertice dell’immaginario del vino italiano, come testimoniano i riconoscimenti internazionali, e delle quotazioni nelle grandi aste internazionali. “Ne siamo consapevoli e cerchiamo soluzioni e strumenti ad ulteriore garanzia dei nostri vini”.
Due generazioni diverse, ma che insieme mostrano tutto, pazienti ed orgogliosi, innescando lentamente una profonda conversazione sulle loro origini che risalgono al 1924: l’attaccamento alla famiglia, le uve di sola proprietà, i vigneti seguiti alla perfezione, le vecchie etichette dedicate e inconfondibilmente scritte a mano da Giorgio Gioco, celebre chef e proprietario dello stellato I 12 Apostoli, ristorante nel cuore di Verona che ha fatto la storia della ristorazione scaligera, un segno distintivo nell’era dell’hi-tech; e, le botti intarsiate con motivi allegorici (come il melograno e la cicogna, simboli di fertilità, a ricordare la nonna Franca e le sue quattro figlie, tra cui Fiorenza), i lavori di ampliamento della cantina per riuscire finalmente ad avere tutto vicino e seguito, il fortissimo legame ventennale di “Bepi” con l’enologo Roberto Ferrarini, anche lui scomparso.
Riservata è, infine, la cantina: tutta in penombra, mix tra passato e presente, accogliente, attraversata dalla musica e attorniata da decine e decine di bottiglie minuziosamente incartate dai fogli del giornale veronese L’Arena, per proteggerne le etichette, accanto alle storiche prime 10 botti Quintarelli. Persino nelle foto, che gentilmente concedono, traspaiono i loro sorrisi riservati. Eppure l’accoglienza è genuina e totale: nel rispondere alle domande, nel mostrare le foto, nell’ammettere che preferiscono stare a casa, piuttosto che in giro per il mondo, nel ricordare l’amicizia con un altro grande vignaiolo riservato, Gianfranco Soldera (il cui Brunello di Montalcino 1983, bevuto il giorno della sua dipartita, siede tra le bottiglie speciali di famiglia nella parte storica della cantina). “Ma perché dovremmo cambiare?” è la risposta che danno, metafora di una ricetta che funziona e che si tengono stretta: 11 gli ettari vitati, di cui 8 a Marano, in Valgatara ed a San Giorgio; la tradizionale pergola doppia o singola per i vitigni autoctoni, guyot per gli internazionali; le 60.000 bottiglie prodotte ogni anno; le etichette che riprendono la calligrafia del mitico Gioco. Il vino invece no, non è affatto riservato, non serve (più). Eccolo, il loro atto liberatorio.
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