“Portaci un altro litro - Perché Roma non beve il vino dei Castelli” è un libro-inchiesta sul mercato vinicolo della Capitale, prima piazza vinicola d’Italia, dove si commercia il 17% del prodotto nazionale ma soltanto il 6% di quello del territorio circostante. Maurizio Taglioni, l’autore della ricerca (scaricabile, gratuitamente, dal sito della rivista di vino e cultura on line “laVINIum”, al link http://www.lavinium.com/laviniumblog/portaci-un-altro-litro-il-primo-ebook-di-lavinium.html), offre due ipotesi alla “caduta in disgrazia” del vino dei Castelli: innanzitutto si tratta di un problema di comunicazione e globalizzazione.
I rapporti tra spazio e tempo, che per secoli hanno legato Roma al consumo locale, sono saltati con la modernità, senza che il comparto produttivo dei Castelli Romani capisse e reagisse al cambiamento. Partner storici, infatti, hanno cominciato a relazionarsi (o comunicare) a realtà ritenute, fino a quel momento, troppo lontane, aumentando in maniera esponenziale il numero dei propri interlocutori. La diminuzione della richiesta di vino dei Castelli da parte del mercato romano attraverso è frutto dei cambiamenti avvenuti a causa della contrazione degli spazi e della dilatazione dei tempi, causati a loro volta dall’aumento delle velocità dei trasporti e delle comunicazioni. Quindi c’è la reputazione, che per i vini dei Castelli non è, oggettivamente, delle migliori, ed è molto difficile da recuperare. La cattiva nomea che i vini dei Castelli Romani si sono costruiti durante la seconda metà del secolo scorso, infatti, potrebbe essere considerata alla base della diminuzione del loro volume di vendite sul mercato romano: l’ipotetico acquirente inesperto potrebbe essere frenato nell’acquisto, dovendosi basare esclusivamente sulla reputazione percepita, mentre il consumatore esperto pur ritenendo che i vini dei Castelli siano migliori della loro reputazione, potrebbe evitare di servirli quando ha ospiti in casa o di ordinarli quando si trova in un locale pubblico.
Le risposte, che fondamentalmente confermano le ipotesi formulate inizialmente, sono tutte nel saggio , in cui sono riportati i risultati di una ricerca concepita e sperimentata in ambito accademico (originariamente titolata “Fenomenologia del bere alloctono nella Roma contemporanea”), avente l’obiettivo di spiegare perché a Roma, negli ultimi decenni, il consumo di vino proveniente dalle località circonvicine sia sensibilmente diminuito rispetto al passato. Gli spunti, specie di carattere storico sono molti, come l’ipotesi che le produzioni d’élite delle famiglie nobiliari avrebbero potuto contrastare l’abbassamento del livello qualitativo delle produzioni dei piccoli proprietari, permettendo in tal modo alla reputazione del vino dei Castelli Romani di mantenersi, almeno in parte, ad alti livelli (com’è successo nell’arco dei secoli in Toscana).
Seguendo quest’ipotesi si sarebbero forse create delle distinzioni di fascia nel prodotto, tra il vino da tavola destinato alle mense o alle osterie popolari e un vino più ricercato, in grado di reggere il confronto con i nuovi concorrenti e, soprattutto, di soddisfare quelle future richieste del mercato alle quali i vignaioli non hanno potuto conformarsi nel breve periodo. Se c’è una conclusione certa e che mette d’accordo tutti, produttori, rappresentanti delle istituzioni e intermediari, è il fatto che un processo di riqualificazione della vitivinicoltura come quello avviato nel Lazio, debba operare la valorizzazione e la caratterizzazione delle aree di maggior interesse viticolo attraverso l’adozione di tecniche colturali ed enologiche in grado di produrre vini di elevata qualità e ottenuti da vitigni autoctoni. Tali vitigni, opportunamente dosati secondo l’esperienza e il gusto dei produttori, sono in grado di dare vini nuovamente dotati di personalità, inconfondibili all’assaggio e, soprattutto, “proponibili” da parte degli operatori del canale horeca.
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