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UN’AGRICOLTURA ITALIANA CHE TIENE ALLA CRISI OLTRE ALLE SUE VIRTÙ ANTICICLICHE, CREA OCCUPAZIONE, PARLA SEMPRE PIÙ STRANIERO E CHIEDE SGRAVI E MENO BUROCRAZIA. LA FOTOGRAFIA SCATTATA DA “IL LAVORO “VERO” IN AGRICOLTURA” DI CONFAGRICOLTURA

Un’agricoltura che tiene alla crisi anche oltre le sue virtù anticicliche, che crea occupazione, che parla sempre più straniero anche laddove nascono le eccellenze tipiche del Paese, e che non chiede soldi, ma sgravi fiscali e sburocratizzazione per essere sempre più competitiva a livello mondiale. È la fotografia scattata da “Il lavoro “vero” in agricoltura”, il convegno, di scena ieri a Roma, organizzato da Confagricoltura, la più importante organizzazione delle imprese agricole italiane, che da sola rappresenta oltre il 60% delle terre italiane coltivate.

“In questo annus horribilis l’agricoltura si è dimostrata un formidabile aggregatore sociale. Il settore primario ha tenuto ancor più della sua natura anticiclica, lavorando in perdita, salvaguardando l’occupazione, favorendo l’integrazione degli immigrati e mantenendo un “impatto zero” sugli ammortizzatori sociali”. Così oggi il presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni, ha riassunto lo stato dell’arte sull’occupazione nel settore primario, davanti al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e ai leader delle maggiori sigle sindacali del Paese.

“Degli 1,5 miliardi di euro sin qui concessi in deroga sulla cassa integrazione - ha Vecchioni - il settore ha visto lo 0,005%: in tutto 8 milioni di euro. Ciò a fronte di una limitata perdita di posti di lavoro nel primo trimestre 2009, con -2% per gli addetti a tempo determinato e -5% per gli operai a tempo indeterminato. Inoltre, registriamo una progressiva specializzazione degli operai immigrati in aree strategiche delle nostre produzioni. Oggi infatti la forbice tra i compensi tra italiani e extracomunitari è diminuita fino a diventare del 2%, una differenza di 6 volte inferiore a quella, ad esempio, del manifatturiero. Un atteggiamento responsabile, assunto da un settore che non vuole alzare bandiera bianca, né chiedere soldi, ma sgravi fiscali, sburocratizzazione e percorsi bilaterali condivisi a tutela delle imprese e dei lavoratori. In Italia - ha aggiunto il presidente dell’organizzazione - gli oneri previdenziali si fanno sentire pesantemente”.

Secondo Confagricoltura, l’Italia è al vertice in Ue per pressione fiscale, con le aliquote che sul lavoro stagionali sono doppie di quelle della Spagna, e il triplo di Francia e Inghilterra. E anche tra i settori produttivi del Belpaese, l’agricoltura è la più “stressata” dal punto di vista dei contributi, con il 35,29% sulle aliquote previdenziali agricole ordinarie, contro il 30,48% del commercio e il 34,38% dell’industria.

In questo quadro generale, che vede circa 1,1 milioni di addetti con oltre 100 milioni di giornate lavoro, per Confagricoltura sono due i capisaldi su cui lavorare: riduzione del costo del lavoro e semplificazione amministrativa.

“Dal 2000 ad oggi - ha ricordato Vecchioni - il comparto ha visto aumentare del 22% il numero dei lavoratori a tempo indeterminato e diminuire del 25% gli infortuni negli ultimi 5 anni”. Ma, per rinnovare competitività e livelli occupazionali, occorrono misure condivise.

Come è stato per i voucher per il lavori stagionali, legati alla vendemmia, che ha fatto da banco di prova, e poi agli altri lavori ciclici del comparto, che “si sono rivelati uno strumento utilissimo soprattutto per due motivi: stanno aiutando a far emergere il lavoro nero e hanno scoperchiato il vaso di Pandora sull’eccesso di burocrazia che caratterizza i rapporti di lavoro dipendente in agricoltura. Ma attenzione - ammonisce Vecchioni - il voucher non deve essere utilizzato impropriamente per aggirare le norme in materia di lavoro subordinato; deve rimanere uno strumento aggiuntivo in mano alle imprese”.

Certo è che per fronteggiare la crisi non è sufficiente rafforzare il sistema degli ammortizzatori sociali, ma servono anche interventi di tipo preventivo che consentano alle aziende di mantenere i livelli occupazionali, una via imboccata da altri grandi Paesi dell’Unione Europea che stanno adottando provvedimenti straordinari per il contenimento del costo del lavoro. Accade in Francia, dove si sta approvando l’esonero dall’obbligo contributivo nei rapporti di lavoro agricolo stagionale fino a 110 giornate annue, per un costo di 220 milioni di euro. E accade in Germania, dove si sta riconoscendo alle aziende agricole la riduzione della contribuzione antinfortunistica per 200 milioni di euro.

“In Italia, fra i troppi luoghi comuni che riguardano il nostro settore - continua Vecchioni - c’è quello di percepire l’agricoltore come una specie di operaio che lavora in proprio. Questo a fronte di una realtà di circa 210.000 aziende che assumono manodopera agricola (dati Inps) e 7.500 di queste imprese hanno in organico impiegati, quadri e dirigenti.

Il numero di lavoratori dipendenti nel settore ammonta a circa 1.080.000. Tra questi 35.000 sono impiegati, quadri e dirigenti, 117.000 sono operai a tempo indeterminato e 933.000 sono operai a tempo determinato (tra questi ultimi circa 530.000 sono comunque occupati da 101 a 312 giornate all’anno).

Si tratta di numeri rilevanti, sia in termini assoluti, sia in relazione ai livelli occupazionali degli altri settori produttivi, considerato che, in tutto, i lavoratori dipendenti iscritti all’Inps sono circa 12 milioni. E se poi si considera anche l’indotto, il numero degli occupati nel sistema agroalimentare tocca, secondo uno studio di Nomisma, il 12% circa della forza lavoro del nostro Paese.

L’occupazione dipendente in agricoltura rappresenta quindi, come dimostrano questi dati, una quota importante del mercato del lavoro del nostro Paese, tanto in termini quantitativi che qualitativi. E gli stessi dati certificano che il lavoro agricolo non può essere semplicisticamente etichettato come saltuario, nè tantomeno precario. La conclusione è che l’occupazione agricola dipendente merita quindi la massima considerazione all’interno del contesto economico-sociale italiano”.
Le buone relazioni sindacali che caratterizzano il settore agricolo, per Confagricoltura, hanno consentito negli ultimi anni di rinnovare i contratti collettivi nazionali e territoriali in tempi ragionevoli e senza particolari conflittualità, nonché di raggiungere importanti intese per la lotta al lavoro sommerso e fittizio, per il rilancio e lo sviluppo dell’occupazione in agricoltura e per il rinnovo degli assetti della contrattazione collettiva. Confagricoltura, insieme alle altre Parti sociali del settore agricolo, ha sottoscritto un impegno a rafforzare e razionalizzare il sistema della bilateralità, alla luce delle esperienze già maturate e delle possibili prospettive future, anche tenendo conto delle positive pratiche degli altri settori produttivi.

Negli ultimi sei anni sono stati sottoscritti tre Avvisi comuni tra tutte le Parti sociali agricole, per contrastare il lavoro irregolare, definire interventi mirati a salvaguardare i livelli occupazionali e promuovere una migliore occupazione nel settore.

Nell’Avviso comune del 23 giugno 2009 sono state formulate una serie di proposte finalizzate ad alleggerire il peso degli oneri sociali (soprattutto per le imprese agricole in zone che attualmente non usufruiscono di alcun tipo di agevolazione contributiva); eliminare le rigidità burocratiche (che, senza valido motivo, rendono difficile la vita alle imprese agricole, segnatamente quando intendono assumere lavoratori extracomunitari e quando debbono gestire rapporti di lavoro stagionali); restituire alla previdenza agricola l’importanza e la dignità che merita all’interno dell’Inps; risolvere alcune criticità interpretative che hanno generato un ingente contenzioso amministrativo e giurisdizionale.

Intanto la recente riforma del sistema di vigilanza ha profondamente innovato l’impostazione degli accertamenti ispettivi, affiancando alla consueta funzione di tipo repressivo una di prevenzione, e la promozione dell’occupazione regolare. Sono stati affidati del Ministero del Lavoro compiti di direttiva e coordinamento per assicurare l’esercizio unitario dell’azione ispettiva e l’uniformità di comportamento nell’esercitarla. La direttiva emanata nel 2008 dal ministro Sacconi mira a superare gli approcci formali e burocratici, indirizzando le ispezioni verso l’accertamento di omissioni di carattere sostanziale.

Nonostante ciò, purtroppo, secondo l’organizzazione Agricola, la riforma stenta ad affermarsi in modo uniforme. Le aziende agricole lamentano a tutt’oggi di essere assoggettate in momenti diversi, ma con riferimento agli stessi periodi, a controlli dell’Inps, dell’Inail, della direzione provinciale del Lavoro, e così via. Mentre rimangono nel mirino omissioni veniali e meramente formali.

Confagricoltura è fermamente convinta, invece, che l’azione ispettiva vada concentrata in modo particolare verso le aziende che occupano lavoratori in nero e che operano al di fuori di ogni regola. Questi fenomeni rappresentano un problema per le imprese agricole in regola, che si trovano costrette a competere con aziende “sommerse”, i cui costi di produzione sono notevolmente inferiori.

Risolvere questi problemi, tenendo conto del peso economico dell’agricoltura può dare un contributo più che significativo al futuro del Paese. Per capirlo basta monitorare l’attività dei grandi capitali internazionali e di alcuni Stati, che continuano a comprare milioni di ettari di terreni agricoli ovunque siano disponibili. Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita e tanti altri fanno shopping di terra, facendo passare di mano in un solo giorno superfici enormi. Tanto che Fao e Ifad, nel summit di Roma sulla sicurezza alimentare, hanno annunciato un codice di condotta per frenare il fenomeno del cosiddetto del “land grabbing”, ovvero la corsa all’accaparramento di terreni agricoli da parte delle multinazionali e dei fondi di investimento che, secondo gli esperti, muove un giro d’affari di 100 miliardi di euro e interessa circa 20 milioni di ettari, già comprati o in trattativa di acquisto, nelle aree sottosviluppate. Un fenomeno che, con altre modalità, potrebbe investire anche l’Italia, rischiando di mettere in mani straniere le bandiere della nostra produzione agroalimentare legata alle denominazioni d’origine.

“È ora che anche nel nostro Paese ci si accorga di come l’agricoltura sia una grande risorsa in termini di Pil, di ambiente e di occupazione - conclude Vecchioni - su cui è necessario investire prima che sia troppo tardi”.


Focus - Dal sommerso al tipico: la parabola degli extracomunitari in agricoltura


Figure, spesso erroneamente identificate come bassa manovalanza, stranieri ed extracomunitari acquistano oggi un ruolo chiave nella produzione dei marchi “Made in Italy” famosi nel mondo. Non più solo i Sikh della Pianura italiana, la comunità di indiani esperti nella mungitura del bestiame da latte. La leggenda vuole che, in ragione della sacralità verso l’animale, i Sikh siano etnicamente avvantaggiati nella mungitura. La realtà è invece un’altra, e fa seguito alla decontadinizzazione dei villaggi rurali indiani. Immigrati dell’agricoltura, che a Montichiari e dintorni hanno sostituito gran parte dei bergamini italiani.

La mappa degli immigrati Doc prosegue quasi in ogni regione italiana, come nelle nobilissime Langhe, dove tra i vitigni di barbaresco, barolo e dolcetto si parla quasi esclusivamente macedone. Una vera e propria comunità - completa di prete ortodosso e ristorante tipico - che conta nelle Langhe circa 5mila cittadini provenienti quasi tutti dalla loro capitale, Skopje.

“Una manna dal cielo”, a detta dei saggi viticoltori della zona, che, dopo aver verificato la bravura dei macedoni, hanno favorito una vera e propria catena migratoria, accogliendo, a partire dalla guerra dei Balcani, anche amici e parenti dei nuovi viticoltori Doc.

Nella mappatura del made in Italy prodotto da extracomunitari si sono estinti, ma solo per motivi geopolitici, quelli romeni, ora neocomunitari, tuttora molto attivi con migliaia di addetti nella raccolta di mele in Alto Adige, nel vitivinicolo in Veneto e nella panificazione in tutto il Paese. Il deficit statistico causato dalla loro uscita è comunque ampiamente compensato. A partire dai soliti cinesi, che lasciano momentaneamente l’occupazione principale - quello del tessile - per tornare alle origini andando nelle risaie di Vercelli e Novara.

Proseguendo lungo lo Stivale è possibile ripercorrere quasi tutti i principali distretti produttivi del Paese, in una sorta di globalizzazione del tipico fatta di contaminazione continua di dialetti, lingue, sapori e tradizioni. Così, se in Veneto su 50.000 salariati agricoli ben 9.000 sono extracomunitari, con una buona quota di albanesi impegnati nei campi di tabacco, i senegalesi in Emilia Romagna hanno ricevuto una speciale dispensa dal loro capo religioso per massaggiare il prosciutto di Parma, dove buona parte degli addetti agli allevamenti e alle carni sono immigrati. A Sabaudia ritroviamo i Sikh indiani, esperti - guarda caso - nell’allevamento di bufale.

Storie che raccontano un’agricoltura che cambia e vuole crescere, ma questa volta senza seguire la via della bassa manovalanza, del lavoro nero, del caporalato.
“Ci stiamo avviando - dice il presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni - verso un percorso di integrazione del tutto singolare anche rispetto ad altri comparti produttivi dove il lavoro nero è meno presente. Specie nel Nord Italia, nelle imprese più strutturate e organizzate, il sommerso cala e i lavoratori diventano indispensabili non solo per la loro disponibilità, ma anche grazie a una professionalità sempre più spiccata”.

La svolta sociale (e professionale) del percorso avviato nella nostra agricoltura sta proprio nel ribadire la propria identità produttiva - lasciata vacante dalle nuove generazioni - anche attraverso le mani laboriose e sempre più preziose di indiani, tunisini, albanesi.

E se la forbice tra gli stipendi riservati agli italiani rispetto agli extracomunitari in agricoltura si è ridotta sino a diventare di appena il 2%, quasi 6 volte meno il settore del manifatturiero, crescono a vista d’occhio le imprese a conduzione extracomunitaria, che negli ultimi 5 anni sono aumentate del 26,3% (fonte: Unioncamere), nonostante le statistiche non comprendano più i tanti lavoratori neocomunitari provenienti da Romania e Polonia. Quasi 7.000 aziende agricole, per la maggioranza condotte da albanesi, tunisini, serbi e montenegrini, macedoni e marocchini, cui si affianca una quota sull’emerso che nel 2008 sfiora il 13% del totale degli addetti in agricoltura (fonte: Inea). Sono in tutto 90.000 i lavoratori dipendenti (di cui 17.000 a tempo indeterminato e 73.000 a tempo determinato), provenienti da Bangladesh, Marocco, India, Albania, Pakistan, Malawi, Tunisia, Sri Lanka. Il 42% sono impiegati nella produzione delle colture arboree e nella raccolta della frutta, il 32% nella raccolta di ortaggi e pomodori, il 13 nell’allevamento, i restanti nell’agriturismo e nella vendita dei prodotti.

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