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Usa, Germania e Gran Bretagna: è qui che è nata e cresciuta la fortuna del vino italiano, come raccontano, per i 40 anni di “Civiltà del Bere”, due giornalisti internazionali, Burton Anderson e Jens Priewe, ed un Master of Wine, Nicolas Belfrage

Italia
Il Master of Wine ed esperto di mercato Uk Nicolas Belfrage

Usa, Germania e Gran Bretagna: è in questi tre Paesi che è passato il “rinascimento” economico del vino italiano, e che si decide, anno dopo anno, buona parte della fortuna e del successo, o dell’insuccesso, dei produttori del Belpaese. Tre mercati diversi, di cui due grandi giornalisti internazionali di Bacco, Burton Anderson e Jens Priewe, ed un Master of Wine, Nicolas Belfrage, per i 40 anni della rivista “Civiltà del Bere”, rivista storica dell’Italia enoica, offrono una lettura originale e appassionata, tra passato e presente.
“Gli Usa - scrive Burton Anderson, uno dei primi veri wine writer d’Oltreoceano - negli ultimi 40 anni, hanno vissuto la più radicale rivoluzione in vigna e in cantina mai avvenuta nell’industria enologica di una singola nazione. Per le fortune dell’Italia, è negli anni Ottanta che arriva la svolta, con la Docg ottenuta dai grandi rossi, Barolo, Barbaresco, Brunello, Nobile di Montepulciano e Chianti, che permise al Belpaese di sfidare la supremazia francese, convincendo, con i Super Tuscans, anche i critici statunitensi. I dubbi che aleggiavano intorno ai vini bianchi italiani - continua Anderson - furono superati dagli splendidi vitigni del Friuli e dell’Alto Adige. Il Soave dimostrò di avere uno stile inatteso, così come fecero Fiano, Greco in Campania, Vermentino in Sardegna e Verdicchio nelle Marche. Tra gli spumanti Metodo Classico, Franciacorta e Trentino cominciarono a distinguersi. Poi, negli anni Novanta, superato lo scandalo del metanolo (1986, ndr), è arrivata la definitiva consacrazione: Barolo e Brunello su tutti, ma nuovi vini venivano da tutto il Paese, molti dal Meridione e dalle isole: la Sicilia con il Nerello Mascalese e il Nero d’Avola, la Puglia con il Primitivo ed il Negroamaro, la Sardegna con Cannonau e Carignano. Da tutta la Penisola un nuovo stile di bianchi, soprattutto da vitigni autoctoni sconosciuti, cominciò a conquistare il favore all’estero. Il nuovo millennio ha confermato, e s possibile persino accresciuto, la fama dell’America - conclude il wine writer americano - come il più leale e prestigioso mercato per il vino italiano, oltre che il più voluminoso”.
“La storia del vino italiano in Germania - nella visione di Jens Priewe - è breve, ma intensa e ricca di successo. È cominciata dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’arrivo dei lavoratori stranieri, gli emigranti italiani, che hanno portato in Germania la loro cultura culinaria e il loro modo di vivere. Pasta, pizza, salame erano fino ad allora sconosciuti, e del vino italiano si sapeva qualcosa soltanto attraverso i racconti di viaggio di Goethe e di qualche opera italiana. Il grande successo - continua Priewe - si è celebrato negli anni Settanta e Ottanta, quando si cominciarono ad aprire in Germania sempre più osterie, trattorie, pizzerie e ristoranti tipici italiani che venivano popolati dal crescente ceto medio, ma anche dagli studenti. La Toscana era la meta turistica dei creativi, degli alternativi e delle persone di sinistra. Il vino, specialmente quello rosso, era la bevanda delle persone colte e degli intellettuali. Negli anni Novanta la Germania era diventata l’importatore più importante di Chianti Classico e Brunello di Montalcino al mondo, ma partire dal 2001 il rapporto qualità/prezzo dei vini toscani, piemontesi e friulani non venne più reputato particolarmente conveniente. L’importazione dei vini italiani in Germania si è così spostata verso Regioni minori, soprattutto sulla Campania e la Sicilia. Questo rappresento l’inizio dell’ascesa del Nero d’Avola. Per quanto riguarda i vini bianchi l’Alto Adige sostituì parzialmente il Friuli. La Germania aveva perso la supremazia come importatore principale di vini toscani e piemontesi. Con il ritorno in auge del Riesling tedesco, anche il Pinot grigio, il rappresentante più importante dei bianchi italiani, ha perso quote di mercato: soltanto il Prosecco ha proseguito la sua crescita. Per quanto concerne le quantità importate - chiude il giornalista tedesco - in Germania dai vari Paesi, l’Italia continua a precedere sia la Francia sia la Spagna mentre relativamente al valore delle importazioni l’Italia è decisamente seconda alla Francia”.
“Nell’ultimo mezzo secolo - racconta il Master of Wine Nicolas Belfrage - il fatto che esistessero etichette italiane eccellenti, di produttori quali Quintarelli, Giacomo Conterno, Gaja, Masi, Antinori, Biondi Santi, Valentini, Mastroberardino ed altri, era del tutto ignorato dai protagonisti del commercio britannico, appassionati di Porto, Sherry, Bordeaux, bianchi del Reno, Champagne ... Per loro gli italiani o erano “cheap and cheerful” (economico e carino, ndr) oppure difettosi. Alla fine degli anni Ottanta - ricorda Belfrage - in Gran Bretagna le nuove leve del commercio e della stampa cominciarono a seguire con curiosità il fermento del settore vinicolo italiano. Scoprirono che l’Italia aveva praticamente raggiunto la Francia a livello di cantine e tecnologia, notarono anche con quale entusiasmo i giovani produttori italiani giravano il mondo, visitando vigneti e raccogliendo informazioni e tecniche, scambiandosi idee con i colleghi. Gli anni Novanta - conclude il Master of Wine - furono l’epoca del miglioramento in vigna - selezione clonale, maggiore densità d’impianto, gestione della chioma e simili. Il lavoro in campagna, ovviamente, impiega più tempo per esplicitarsi nei vini rispetto a quando si interviene in cantina, ma nel 2013, dopo un decennio e mezzo di riconoscimenti e crescente popolarità sul mercato britannico, i vini italiani di pregio hanno raggiunto l’impensabile”.

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