Fino a quando gli Stati Uniti saranno il primo consumatore mondiale di vino, e quindi il primo importatore, l’attenzione per le vicende enoiche d’Oltreoceano sarà sempre, necessariamente, alta. Specie dopo un 2018 che, anche per l’Italia, ha confermato la tendenza registrata già nel 2017, con un calo dei volumi venduti ma una crescita dei valori. A fare il punto, come ogni inizio anno, lo “State of the Wine Industry Report 2019” firmato da Rob McMilan, a capo della divisione Vino della Silicon Valley Bank, focalizzato sullo stato dell’arte del vigneto Usa, da cui emergono comunque spunti interessanti per capire dove andrà il vino. Innanzitutto, i consumi: dopo 25 anni di crescita ininterrotta, iniziata con la ripresa economica del 1994, sembrano essersi stabilizzati, e se all’epoca i Baby Boomers prendevano la guida della crescita dei consumi, ovviamente anche di vino, oggi il sorpasso generazionale è ancora lontano. La Generazione X, infatti, avanti di questo passo prenderà la testa degli acquisti enoici solo nel 2022, per lasciarlo ai Millennials già nel 2027.
Ed è proprio sul crinale di questo infinito dualismo generazionale che si incontrano limiti e speranze per il 2019 del vino in Usa, atteso per la prima volta con una certa sfiducia dal mondo produttivo d’Oltreoceano, sondato dal report della Silicon Valley, nonostante gli indicatori macroeconomici siano tutti in territorio positivo. Perché? Ci sono almeno sette grandi motivi di preoccupazione: il calo dei consumi dei Baby Boomers, che pur mantenendo stabile la spesa, anno dopo anno, bevono sempre di meno; al contempo, la capacità di spesa dei Millennilas non è ancora così solida e l’età media è ancora troppo bassa per incidere davvero sui consumi, tanto che la concorrenza della Cannabis continua a farsi sentire; pesa anche la comunicazione sui rischi per la salute legati all’abuso di alcol, e quindi di vino, che negli ultimi due decenni si è tradotta in campagne governative degne di un secondo proibizionismo. E poi, c’è la concorrenza della birra, i cui consumi sono in calo da anni, ma grazie al movimento craft la spesa è tornata a salire, e degli spirits; ancora relativamente basso, specie rispetto alle aspettative, il peso del canale direct to consumer, frenato da una legislazione ancora farraginosa; non è un fattore positivo neanche la crescita delle private label delle catene della Gdo, che occupano gli spazi una volta occupati dalle produzioni tradizionali, e preoccupa anche la bassa disponibilità di mano d’opera, a prezzi sempre più alti.
Tutto nero? No, affatto. A fare da contraltare alle legittime preoccupazioni dei produttori americani, ci sono altrettanti elementi di fiducia, alcuni dei quali non sono altro che l’altra faccia dei motivi di preoccupazione. La Generazione X e i Baby Boomers, pur invecchiando, dimostrano una certa resilienza dei consumi, e con l’economia in territorio positivo la spesa media a bottiglia supera i 9 dollari; i Millennials, che come abbiamo detto hanno in media 30 anni, con un picco di 24enni, hanno solo bisogno di tempo, perché è solo dopo i 30 anni che il vino entra stabilmente nelle abitudini di consumo; guardando alla produzione ed al mercato interno, le vendite di vini di Oregon e Washington crescono a due cifre; c’è poi da sottolinear come i brand forti e ben distribuiti continuano a crescere in maniera importante; se è vero che si tende a bere meno, si moltiplicano le occasioni di consumo, con sempre più locali e negozi, e sempre più diversi, che vendono vino; guardando al vigneto Usa, la vendemmia 2018 è stata ottima dappertutto, specie quantitativamente; infine, il business del vino sta trovando nuovi sbocchi, proprio grazie al canale direct to consumer, destinato al boom.
Da un punto di vista meramente numerico, le previsioni della Silicon Valley Bank, parlano di una crescita tra il 4 e l’8% peri vini della fascia premium, ma anche di un +0,5-2,5% per le vendite del canale off-premise. Del resto, è la conferma della tendenza registrata dal 2013 in avanti: calano costantemente gli acquisti delle tre fasce di prezzo più basse (che valgono comunque quasi metà del giro d’affari del vino), ossia sotto i 3 dollari, 3-6 dollari e 6-9 dollari, mentre crescono tutte le altre, 9-12 dollari, 12-15 dollari e 15-20 dollari, che rappresentano il 29,9% dei volumi ed il 54% del valore del vino venduto in Usa. Attenzione alta, invece, sui prezzi delle uve, perché con la ripresa della produzione, vista la stabilità dei consumi, sono destinati a contrarsi. Destinata ad acuirsi, ovviamente, anche la competizione per aggiudicarsi quote di un mercato fermo, con i grandi Paesi esportatori che punteranno ad erodere i consumi domestici, come ha fatto nel corso del 2018 la Francia, unica a crescere in maniera importante sul mercato Usa.
Meritano un approfondimento gli aspetti demografici, perché da un punto di vista banalmente numerico i Millennials sono già la generazione più numerosa, ma il loro coinvolgimento nelle dinamiche di consumo è ancora marginale, tanto che negli ultimi cinque anni la quota di spesa sulla fascia premium è rimasta stabilmente intorno al 17%. Il dubbio, allora, è che le potenzialità della generazione dei trentenni siano state, in questi anni, decisamente sovrastimate. E non certo per colpa loro: dopo la crisi scoppiata nel 2008, infatti, in molti si sono ritrovati a dover scegliere tra continuare gli studi, accumulando debiti, o cercare un lavoro, e quando l’economia è tornata a crescere, insieme ai prezzi delle case, i Millennials si sono ritrovati con stipendi medi inferiori a quelli delle generazioni precedenti, ed una capacità di spesa decisamente inferiore a chi, come i Baby Boomers e la Generazione X, durante la crisi ha mantenuto un certo livello salariale. E poi, come già accennato, non è scontato che i Millennials si buttino su Bacco, specie perché sia la birra, con il movimento delle artigianali, forte anche in Italia, che gli spirits, trainati dal Gin, dimostrano ancora una capacità superiore di variare la propria offerta e calibrarla sui più giovani.
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